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venerdì 29 gennaio 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Tin tin".

Questa settimana purtroppo pochi post scritti e tante vignette. In realtà spero di riuscire a fare una recensione di "Cloud Atlas" o domani o domenica, siate fiduciosi. Spero che la perla di cui sotto basti a farmi perdonare.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Tin-Tin".





mercoledì 27 gennaio 2016

La montagna, questa (per me) enigmatica sconosciuta. Quattro libri di avventure drammatiche o rocambolesche vissute realmente sulla cime di crudeli montagne, tra tabù, II guerra mondiale e scelte impossibili.

Anni fa, appena trasferita al nord e in cerca (infruttuosa) di nuove amicizie, accettai l'invito di una collega ad andare a fare "una passeggiata in montagna".  
Io mi vedevo così
Era inizio Giugno, si moriva di caldo e volevo disperatamente conoscere nuovi esseri umani, così, nonostante il mio interesse per i monti sia sempre stato pari a zero, dissi di sì.
 Poiché ero abituata a chiamare montagne le in verità dolci colline laziali, pensai ingenuamente ad una specie di gita fuori porta, una scampagnata in cui avremmo camminato il giusto che ci avrebbe condotto ad una luminosa radura a pasteggiare con fave, pecorino (ok, immaginavo essendo al nord che sarebbe stata coinvolta la polenta in realtà), panini al sacco sfranti dal calore e dallo zaino e mele.
 Indossai perciò delle converse estive e portai una felpa giusto per scrupolo, fosse mai che dovessimo addormentarci sotto un pero o un pino.
 Ecco. Mi ritrovai a scalare 2000 metri con cumuli di neve che occhieggiavano ai lati del sentiero (neve a Giugno???), a pasteggiare in un gigantesco rifugio di montagna su un lago alpino praticamente da sola (altro che pranzo al sacco, tutti gli altri si erano portati i soldi per un luculliano pranzo a base di pesantate con gente del luogo che parlava solo in dialetto incomprensibile) e a rischiare la vita durante la discesa. Capirete infatti che le converse con la suola di gomma non sono proprio la cosa migliore per affrontare una discesa in mezzo alla neve con l'ansia della pioggia improvvisa. 
Finii così -.-"
Finì che mi portò a spalla un tipo che mi molestò lungamente su fb alla ricerca di un appuntamento
(se dovete scrivere un romanzetto rosa tenetela come trama valida, eccetto per il finale).
 Ecco, fine dei miei rapporti con la montagna.
 Eccezion fatta per il padre della mia amica in London che in quanto abruzzese montano provava una perversa attrazione per il Trentino Alto Adige, non penso di aver mai conosciuto una persona del centro-sud (non dico non ce ne siano) che considerino la montagna un'alternativa davvero valida al mare, almeno in estate.
 Che roba è la montagna? Se magna? 
 Per quale assurdo motivo un essere umano dovrebbe passare le sue giornate di riposo a faticare sulle rocce quando può rotolarsi sulla sabbia e spassarsela in mezzo alle onde?
 Queste mie domande qualunquiste hanno ovviamente già delle risposte e sono retoriche (resta il fatto che a me andare in montagna non piace), ma servono per introdurre il post della giornata: libri su tragiche e/o epiche avventure montane. Potete ringraziare per l'idea il cliente che mi ha chiesto il primo libro dell'elenco: "Alive -sopravvissuti".


TABU' - LA VERA STORIA DEI SOPRAVVISSUTI DELLE ANDE di Paul read Piers ed. Sperling:
 Arriva il cliente e chiede "Mi dà quel libro di montagna dove c'è la gente cannibale?" e tu dici: boh.
Poi, fortunatamente un collega ha visto il film e risaliamo al libro che racconta questa incredibile storia vera che rende credibile persino l'incidente aereo in cui hanno fatto fuori mezzo cast di Grey's Anatomy.
 Nel 1972 un aereo uruguayano che trasportava civili (tra cui una squadra di giovani rugbysti) ebbe un drammatico incidente aereo sulla cordigliera delle Ande. A causa della nebbia e di alcuni errori di calcolo umani, il pilota prese di striscio una montagna che credeva di aver superato e l'aereo atterrò in una vallata. Alcune persone morirono nell'impatto, tra cui il pilota (che fece però in tempo a dare informazioni sbagliate, che riteneva vere, sulla loro posizione), altre nei giorni successivi, ma molti si salvarono e per loro iniziò un'incredibile prova di sopravvivenza. Era il 13 Ottobre.
 Per i due mesi e mezzo successivi, i superstiti dovettero fronteggiare prove gigantesche: il gelo, la neve, una valanga che li decimò durante il sonno e la fame. 
 Quando i viveri terminarono (quasi subito visto che c'era pochissimo cibo a bordo) dovettero iniziare a mangiare i loro compagni defunti. Ad un certo punto quando fu chiaro, anche grazie al ritrovamento di una radio funzionante, che nessuno li stava più cercando credendoli tutti morti, i più in forze di loro vennero scelti per una spedizione alla ricerca d'aiuto. Ci furono vari fallimenti e altre morti, ma infine due di loro, Fernando Parrado (che si era salvato miracolosamente ben due volte nel corso della disavventura) e Roberto Canessa trovarono un mandriano dopo dieci giorni di cammino. Il 23 Dicembre vennero ritrovati i 16 superstiti (tra i quali nessuna donna) e tratti faticosamente in salvo. Ne fu anche tratto un film e francamente spiace vista la forza che dimostrarono nel sopravvivere ad ogni costo che la cosa che rimane più impressa nella memoria sia che furono costretti al cannibalismo.

FUGA SUL KENYA di Felice Benuzzi ed. Il Corbaccio:
 La mia amica che citavo nel post su "Timira" mi portò quando eravamo credo alle medie, a vedere "Sette anni in Tibet" un film che la esaltava per il tema e per la presenza di Brad Pitt (e che non esaltava me per gli stessi motivi).  
 Lo trovai mortalmente noioso. Il film narrava l'imprese dello scalatore nazista Heinrich Harrer mandato dal regime a scalare l'Himalaya per la patria. Una volta lì veniva catturato dagli inglesi e rinchiuso in un campo di prigionia da cui riusciva poi a scappare per rifugiarsi nella città proibita.
 "Fuga sul Kenya" racconta una storia meno epica, ma assai simile e spettacolare. 
 L'autore, Felice Benuzzi, era infatti un funzionario coloniale in Etiopia che nel 1941 venne anch'esso catturato dagli alleati e spedito in un campo di prigionia in Kenya. Lì, alle pendici del monte Kenya, escogita un piano: scappare dal campo, arrivare in cima alla montagna, piantare l'italica bandiera e lasciare alcuni reperti raccolti. Per riuscire però gli servono viveri, attrezzature e complici. Così la spedizione si allarga ad un medico, Giovanni Balletto e prima ad un poliziotto che viene però trasferito poco prima della spedizione e così sostituito da Enzo Barsotti che però per problemi cardiaci non riuscirà a partecipare in toto. 
 La storia è rocambolesca: i tre riescono a scappare, ma scoprono che non conoscendo bene il territorio hanno scelto una via troppo impervia, inoltre Enzo sembra non riuscire a proseguire e il tempo passa mentre i viveri diminuiscono.
 No, non finisce male, anzi, a tarallucci e vino. Avventure dalla seconda guerra mondiale.

LA MORTE SOSPESA di Joe Simpson ed. Il Corbaccio:
 Scritto da uno dei due protagonisti della vicenda narra un evento avvenuto nel 1985 durante la scalata della Siula Grande sulle Ande. Joe Simpson e Simon Yates sono due alpinisti inglesi che raggiungono la vetta della Siula e poi iniziano a scendere in cordata (spero si dica così, alpinisti non ammazzatemi). 
 Ad un certo punto Simpson scivola e si rompe una gamba. La discesa che per altro doveva essere rapida visto che avevano finito provviste d'acqua e gas, diventa così estremamente difficoltosa.
 Yates lega allora Simpson e decidono di scendere calandosi lungo il fianco della montagna, ma ad un certo punto, senza accorgersene (a causa delle condizioni climatiche) giungono ad uno strapiombo dove Simpson rimane sospeso. Dopo aver tentato in ogni modo di issarlo alla fine per non essere trascinato con lui, Yates taglia la corda che lo tiene legato all'amico che precipita per 45 metri.
 Solo che. Simpson non si sa come, nonostante i 45 metri e la gamba rotta, non muore e riesce a tornare al campo base dove trova un disperato Yates che è tornato con gran fatica e ossessionato dai sensi di colpa.
 Persino io conoscevo la storia di Reinhold Messner accusato di aver abbandonato il fratello Gunther durante la scalata del Nanga Parbat, ma, se ho ben capito, nel diciamo codice etico degli scalatori (che somiglia molto a quello dei navigatori) è ammissibile che per salvarsi, in condizioni estreme, sia lecito sacrificare l'anello debole della catena.
 In ogni caso Yates fu accusato pesantemente per la sua scelta e Simpson scrisse il libro (da cui è stato tratto anche un documentario) anche per difenderlo. Scrisse che non aveva avuto scelta e al posto suo si sarebbe comportato allo stesso modo.

EVEREST 1996 di Anatoli Bukreev e ARIA SOTTILE di Jon Krakauer: 
 Il libro dell'alpinista Anatoli Bukreev e di Jon Krakauer giornalista (e alpinista) diventato famoso alle masse grazie a "In to the wild" rappresentano un caso estremamente interessante, poiché raccontano lo stesso drammatico evento a cui hanno partecipato entrambi, ma ne riportano versioni differenti, con differenti accuse.
 La vicenda del contendere riguarda due spedizioni che divennero poi una sola molto corposa per raggiungere la cima dell'Everest. Si trattava della fine degli anni '90, l'alpinismo estremo era ormai una questione di grandi numeri. Prima c'erano solo scalatori solitari, iniziavano a nascere imprese assai costose che organizzavano gruppi organizzati guidati da scalatori esperti e sherpa per alpinisti esperti, ma non professionisti. Scott Fischer che fu la vittima più famosa delle nove che rimasero uccise nell'evento, aveva appunto una società del genere e si ritrovò a salire assieme al collega Bukreev e al suo gruppo.
 Il dramma si consuma tra il 10 e l'11 maggio 1996.
  Tutti gli scalatori raggiungono la vetta, ma con ore di ritardo rispetto al previsto, il tempo, inizialmente buono peggiora e così inizia l'incubo. Iniziò una tempesta di neve che costrinse ad accelerare la discesa causando problemi d'ossigeno e d'orientamento ai partecipanti. Alcuni di loro, come Fischer, morirono per embolia (parte del contendere tra Krakauer e Bukreev sta proprio sull'assenza o la presenza di alcune bombole d'ossigeno che avrebbero consentito la sopravvivenza di alcuni di loro), altri rimasero bloccati nella neve, incapaci di orientarsi.
 Bukreev fu l'unico ad uscire alla ricerca dei dispersi, dati ormai per morti, e ne trasse tre in salvo. Un altro si salvò da solo raggiungendo da solo il campo base il giorno successivo semiassiderato.
 Fischer non ce la fece. Rimasto indietro con uno sherpa, lo convinse a proseguire senza di lui e fu trovato solo la mattina dell'11 sempre da Bukreev, ormai morto. Il suo corpo fu ritrovato nel 2008, ma la famiglia espresse il desiderio che rimanesse lì, tra i ghiacci.
 Il dibattito sulle eventuali colpe umane della tragedia coinvolse Krakauer e Bukreev e i loro sostenitori e detrattori, ma si interruppe presto. Nel 1997 una valanga uccise a 37 anni Bukreev mentre scalava l'Annapurna.


Sì lo so, ho scelto tutti casi estremi. Per la montagna si possono citare le imprese di Bonatti o i resoconti dei grandi, c'è tempo e ci saranno post, non temete!





Il blog linkato su Cosmpolitan.it in un articolo sulla narrativa lesbica contemporanea! Oh yeah!

Mentre scrivo un post a tema MONTAGNA (ebbene sì) che probabilmente vedrete in nottata, ci tengo a linkarvi un articolo apparso in mattinata su Cosmopolitan.it a cui ho collaborato ed in cui c'è il prezioso link al mio blog.
 Tema dell'articolo: la narrativa lesbica contemporanea
 Finalmente, ovviamente grazie alla cura e all'attenzione della giornalista, Gabriella Grasso, un articolo che non dice cose per sentito dire, con una buona selezione nella gallery (ove c'è anche lo mio zampino). Sempre W "Carol" e Patricia Highsmith che hanno permesso un'attenzione improvvisa e necessaria sul tema.
 Di cui sotto i link all'articolo e alla gallery.
 Vi annuncio che nell'articolo c'è persino il mio nome di battesimo, così sarete liberi di guardare con sospetto tutte le sventurate libraie che lo condividono con me (ed essendo comune saranno molte, grazie madre grazie padre per non avermi dato nomi facilmente identificabili, oh yeah!).

 Di cui sotto i due link!!




E per la gallery con i 17 titoli consigliati: 

martedì 26 gennaio 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Caligola".

Devo dire che oggi c'è stata una perla considerevole, ma avevo già in serbo questa (che comunque merita). 
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Caligola".




domenica 24 gennaio 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Only for men".

Ed ecco almeno una vignetta del fine settimana. 
 Tempo fa scrissi un post ironico sui "Libri da veri uomini". C'è un'antica querelle sul fatto che esista una letteratura per donne e una per uomini, e, come sappiamo, esistono uomini che affermano di non leggere molte autrici donne (non viceversa mi risulta). 
 Nel primo caso non so che dire, per me ovviamente non esiste nessuna differenza. Vero è che alcuni generi li leggono soprattutto le donne, mentre altri titoli hanno più un pubblico maschile. 
 Per il secondo caso trovo la questione alquanto fastidiosa. E' inutile che mi si venga a dire che quando si legge "la par condicio è assurda". Questo lo so pure io. Però dalla mia esperienza di lettrice (che appunto non legge narrativa rosa o generi "tipicamente femminili", anzi), mi rendo conto che quando leggo il sesso dell'autore conta poco e niente. Io vedo se la trama mi interessa o se il saggio mi colpisce. Solo quando faccio le recensioni mi rendo conto se l'autore era uomo o donna e quanti uomini e donne leggo (e mi rendo conto che dovrei essere sul fifty fifty).
 Nel senso, secondo me, quando fai caso al sesso degli autori che vai leggendo, Houston c'è un problema, anche se pensi di non averlo.
 Detto questo, cose realmente avvenute! Lo giuro! "Only for men".



venerdì 22 gennaio 2016

A cosa serve la giornata della memoria se non sappiamo davvero ricordare? O se selezioniamo i ricordi? L'omocausto dimenticato e alcuni consigli di lettura, perché i libri, fortunatamente per noi, non hanno pregiudizi e non selezionano i morti.

E' morto Scola, viva Scola.

L'altra sera mentre ero a lavoro, qualunque mio parente e conoscente stava riguardando in tv "Una giornata particolare" e ci teneva a comunicarmelo in varie forme, dal messaggio sul cellulare a whatsapp, dalla chiamata dei miei allo status su fb. Scola grande maestro, film indimenticabile.

 Mah, mi dicevo io, se è così indimenticabile come mai non ci ricordiamo di cosa parla neanche mentre lo stiamo guardando?

 La trama.
Una donna con sei figli, con marito fascistissimo, è costretta a rimanere in casa durante il giorno della parata col grande dittatore Hitler in visita a Roma.

 Per caso conosce il suo dirimpettaio, un uomo che ella trae inavvertitamente e inconsapevolmente dal suicidio che sta per compiere.

 I due passeranno insieme una "giornata particolare", liberi dal clima oppressivo che uomini e fascismo esercitano su di loro in quanto donna vista come fattrice di figli e schiava casalinga e in quanto...omosessuale.

 Il personaggio interpretato da Mastroianni è infatti un uomo che sta per essere spedito al confino in quanto omosessuale, peccato e reato talmente inquietante nella virile mente italica (vabbeh le lesbiche non sono manco immaginate se non come proiezione erotica di maschi etero) da non meritare neanche una legge che lo condanni.

 "In Italia sono tutti maschi" diceva il duce e applicava un'antica regola italica: non parliamone così fingiamo che non esistano.
  Si nascondeva con facilità dietro la nostra amatissima ipocrisia di lontane origini cattoliche.

 Ovviamente siccome non basta fingere che una cosa non esista perché questa scompaia (concetto non chiaro ancora a molti) gli omosessuali venivano comunque prelevati e spediti al confino, assieme ai dissidenti politici.

 E' passata la guerra, nessuno se li ricorda.

 La nostra memoria è talmente labile che ce ne dimentichiamo anche quando Scola il grande ce lo sta sbattendo in faccia: "Mastroianni tenta il suicidio perché sta per essere spedito al confine in quanto omosessuale". Bel film. Capacità di collegarlo al nostro tempo, inesistente.

 La giornata della memoria mi ha sempre fatto un po' arrabbiare perché, da un certo punto di vista, l'ho sempre trovata molto ipocrita.

 Ci battiamo il petto e piangiamo su centinaia di drammatiche storie (ogni libraio d'Italia sa la vagonata di titoli a tema Shoah che arrivano in questi giorni) e non riusciamo mai a porci una domanda:

 Se io mi fossi trovata al posto dei miei nonni o bisnonni cosa avrei fatto?
 Sarei stata in grado di difendere chi veniva deportato o me ne sarei stato zitto? 

 Ovviamente giovani menti romantiche diranno in coro: io avrei difeso gli ebrei di Roma col mio corpo! Altre menti più adulte si metterebbero in pace la coscienza con un: vabbeh, a me non è capitato evito di pensarci.

 Così si evita anche di pensare ad una seconda domanda: c'è qualcosa che non sto facendo per altri che vengono ok, non deportati, ma discriminati? C'è qualcuno di cui me ne sto fregando? C'è qualcuno che non sto vedendo?

 Non ho mai visto una riflessione del genere sulla giornata della memoria, forse perché la memoria in quel caso viene intesa solo come "ricordo del passato" e quasi mai come "ricordare per riuscire a vedere" gli altri attorno a noi, le ingiustizie, il dolore, i diritti calpestati.

 Questa impostazione ha determinato anche una memoria selettiva dei deportati. 

 Ovviamente il genocidio degli ebrei rimane la parte più drammatica e più enorme di quanto avvenne, ma non ci furono solo loro a camminare e morire nei campi di concentramento.

  C'erano anche dissidenti politici, zingari, testimoni di Geova e omosessuali.

  Perché ci ricordiamo solo dei primi?
 Per ragioni di semplici numeri o perché la nostra società non ha mai davvero affrontato il pregiudizio verso le altre categorie perseguitate? Perché ancora, soprattutto verso rom e sinti e omosessuali, c'è gente che dice e ripete le stesse identiche cose di quegli anni?

Pensate che non è poi così vero? Pensate che stia esagerando? 

 Ebbene, vi ho stilato una bibliografia sul tema dei triangoli rosa e della deportazione degli omosessuali, leggetela e alla fine ponetevi nuovamente questa domanda e vedrete che la vostra risposta, forse, non sarà la stessa.


LA BREVE VITA DELL'EBREA FELICE SCHRAGENHEIM di Erica Fischer Beit Edizioni:

 Le lesbiche durante la seconda guerra mondiale non erano solitamente comprese nelle varie leggi contro l'omosessualità (o comunque non subivano persecuzioni sistematiche).

 Non perché si fosse più morbidi verso le donne, semplicemente, al solito, c'era la convinzione che le lesbiche "non esistessero", erano solo donne che non erano state domate dall'uomo giusto.

 Perciò non ci sono molti casi di donne deportate in quanto lesbiche, se proprio non riuscivano a "domarle" venivano bollate come dissidenti o come asociali o mezze pazze, quindi comprese sotto altri triangoli non rosa.

 C'è una storia però resa famosa dall'incessante lavoro di Erica Fischer, giornalista tedesca che ha dedicato all'amore dell'ebrea tedesca Felice Schragenheim e della tedesca "ariana" Lilly Wust, un romanzo "Aimèe e Jaguar", un film omonimo (purtroppo mai tradotto in italiano), un documentario (reperibile a puntate su youtube) e questo bel libro documentario ricchissimo di materiale d'archivio edito in Italia dalla Beit edizioni.

 La storia vede protagonista una giovane e volitiva ragazza ebrea, Felice  Schragenheim.

 Molto bella, coraggiosa al limite dell'avventatezza, rifiutò più volte di scappare da Berlino nella convinzione che la guerra sarebbe finita presto e che non si sarebbe arresa a chi voleva vederla andar via dalla sua patria.

 Visse come un U-Boot (un ebreo che non andava in giro con la stella, perciò clandestino) vivendo la sua vita nel modo più libero che le fosse concesso. Aveva un gruppo di amiche molto attive, lavorò in un giornale sotto mentite spoglie passando informazioni alla resistenza, scrisse bellissime poesie e si innamorò perdutamente di Lilly Wust.  

Chi era costei? Una madre di famiglia tedesca, con quattro figli e un marito che la tradiva con un'amante fissa, al fronte. Lilly aveva sempre avuto inclinazioni lesbiche, ma insomma negli anni '30 del secolo c'era poco da rivendicare diritti e così si era sposata e aveva avuto ben quattro figli maschi meritandosi un riconoscimento al valor materno dallo stato.

  Lilly, che era una sostenitrice del nazismo di quelle che seguono l'onda, ma non sanno bene cosa questo significhi, si vantava di "riconoscere gli ebrei dall'odore" e così Felice la cui migliore amica lavorava come domestica da lei, accettò la sfida e le si presentò. Fu amore. 

Un amore fortissimo, molto passionale, enorme, che le due riempirono per i due anni scarsi che gli furono concessi di feste, lettere, promesse, poesie, infiniti ti amo, di vita insieme, fotografie audaci, uscite al fiume, vacanze e dolcezza.

 Poi, un pomeriggio, dopo aver passato una bellissima giornata al fiume (era agosto e faceva molto caldo), le due tornano a casa di Lilly dove ormai vivevano insieme dopo il suo divorzio dal marito, e trovano la Gestapo.

  Qualcuno ha tradito Felice e ne ha rivelato la vera identità. 

 La prelevano e la portano in un centro di raccolta, dopo qualche settimana inizia la sua deportazione nei campi di concentramento.
 Da lì, per mesi, scriverà lettere in cui si sforza di mantenere un tono allegro e ricorda a Lilly, che fa qualsiasi cosa per liberarla spingendosi fino ad uno dei campi a parlare con alcuni gerarchi, quanto la ami e quanto saranno felici quando tutto quell'incubo finirà.

 Morirà probabilmente in una marcia mortale tra un campo di concentramento e un altro, per il freddo e la stanchezza.

 Lilly la aspettò per anni e non si riprese mai più soffrendo per il resto della sua vita di forti crisi depressive.

E' morta pochi anni fa dopo una vita passata a rimpiangere la sua Felice.

 Nel documentario appare assieme al suo "libro delle lacrime", dove raccoglieva tutte le lettere e gli scritti che si era scambiata col suo grande amore.


DIETRO IL VETRO SOTTILE.Memorie di un ebreo omosessuale nella Germania nazista.  di Gad Beck ed. Einaudi:

Forse non tutti sanno che, prima dell'avvento del nazismo, la Germania era un paese estremamente avanzato.

  Berlino aveva una comunità omosessuale molto attiva, con locali, eventi e personaggi di spicco. 

 Nulla avrebbe mai lasciato presagire ciò che avvenne.

 L'autore di "Dietro il vetro sottile", spiazza per il tono molto ironico con cui descrive molti episodi della sua giovinezza fino ai capitoli in cui la persecuzione nazista verso gli ebrei inizia a crescere inesorabile. 

 A quel punto inizia un'altra storia, ai più sconosciuta, quella della resistenza che gli ebrei cercarono di opporre in modo confusionario e purtroppo non consapevole (Beck lascia intendere che gli ebrei non riuscirono ad organizzare una difesa perché non compresero in tempo la portata spaventosa di quello che stava accadendo). 

 Prese parte attiva al salvataggio di molti connazionali trovando loro nascondigli, favorendo il passaggio di denaro e probabilmente collaborando con spie alleate. Catturato dalla Gestapo venne deportato e torturato, salvato in tempo dalle truppe sovietiche.

 L'episodio chiave che rende incredibile la forza d'animo di Gad Beck, riguarda la morte del ragazzo che amava, Manfred Lewin. 

 Gad Beck nel tentativo di salvarlo riuscì ad infiltrarsi in un campo di concentramento travestito da nazista e a contattarlo. Tuttavia Manfred non volle abbandonare i suoi familiari e morì, lasciando Beck in una disperazione che si protrasse per anni.


IN ITALIA SONO TUTTI MASCHI di Luca De Santis e Sara Colaone ed. Kappa edizioni: 

 Come dicevo nell'introduzione, in Italia non c'è mai stata una vera e propria legge contro l'omosessualità. 

Non per nostro merito, ma per nostra ipocrisia: in Italia sono tutti maschi perciò non abbiamo bisogno di leggi per persone che non esistono. 

 Siccome però esistevano eccome, li prendevano e mandavo al confine ai dissidenti politici e no, andare al confino, non era una vacanza alle terme come sosteneva un politico qualche anno fa.

 Tra il 1938 e il 1943 molti omosessuali (che potevano essere denunciati da chiunque e come si vede anche dal film di Scola provare di non esserlo era quasi impossibile) furono imprigionati in luoghi isolati, come le isole Tremiti della graphic novel e costretti a vivere alla mercè degli abitanti, lontano dalle loro famiglie e con il marchio d'infamia sociale che mai più li avrebbe abbandonati.

 Il protagonista della storia è Antonio Angelicola, detto Ninella,  sarto partenopeo che viene deportato alle isole Tremiti e lì vive una vita sospesa che non è una vera vita. 

 Costretti a campare di espedienti, in balia dei loro carcerieri, al loro ritorno i prigionieri omosessuali furono costretti a tacere delle loro privazioni e della discriminazione perché il fascismo era terminato, ma una vita con l'ansia dell'omofobia appena cominciata.

 L'Italia era diventata sicuramente un posto migliore rispetto al famigerato ventennio, ma non per gli omosessuali e così nessuno parlò e noi, che siamo già labili di memoria, ci siamo dimenticati di ciò che fummo capaci di fare. Forse anche per questo siamo così arretrati rispetto al resto d'Europa.

 Graphic novel giustamente strapremiata, molto valida. 


COSA FU L'OMOCAUSTO: 

Cos'è stato davvero l'omocausto?

 Come e perché molti hanno dimenticato le cifre e gli orrori perpetrati ai danni di uomini (e in misura assai minore donne) omosessuali?

  Davvero fu una cosa di scarsa importanza, una vacanzina in un campo di concentramento, una scusa con cui venivano bollati dissidenti politici per poterli poi deportare? Perché non ricordiamo mai questi morti?

 Una breve carrellata sulle tappe e le motivazioni delle persecuzioni degli omosessuali possono aiutare a far luce (e a mettere un po' di terrore visto che somigliano molto ad alcuni deliri attuali).

 Sapete cosa diceva il caro Himmler in proposito?
“Dal 7 al 10% di uomini sono omosessuali. 
E se la situazione non cambia, ciò significa che il nostro popolo sarà annientato da questa malattia contagiosa... un popolo che ha molti bambini può ambire al dominio del mondo. 
Un popolo di razza nobile ma che ha pochissimi bambini possiede solo un biglietto per l'aldilà...

 Eppure in un primo momento, soprattutto grazie all'influenza del capo delle SA, Ernst Rohm, la comunità omosessuale seppur perseguitata (locali chiusi, rogo di libri di scrittori omosessuali) riteneva ancora di avere qualche speranza di non essere uno degli obiettivi del nazismo.

 Poi, Hitler decise che Rohm era un problema politico e che il suo ruolo di capo delle SA iniziasse a rappresentare un pericolo, così usò proprio la scusante della sua omosessualità e si arrivò alla notte dei lunghi coltelli, a seguito della quale la popolazione omosessuale iniziò il suo calvario.

 
Nel 1935 venne infatti inasprito il famigerato paragrafo 175 (legge contro l'omosessualità che stava per essere abolita prima della salita al potere di Hitler). Divennero più pesanti le pene, prevista la deportazione e i motivi per cui le persone potevano essere dichiarate omosessuali e colti in atti osceni. 

 Al grido di "E' una malattia", si procedette così alla deportazione e, all'interno dei campi di concentramento, vennero sottoposti a crudeli esperimenti che permettessero ai medici di scoprire il gene dell'omosessualità che doveva essere combattuto poiché i gay in quanto non in grado di procreare (vi ricorda qualcuno?) rappresentavano un pericolo per la virile popolazione tedesca. 

 Si interessò particolarmente della questione, il medico danese Carl Peter Vaernet che si dedicò ad esperimenti a base di forti iniezioni di testosterone (la grande teoria era che solo una mancanza di testosterone potesse determinare l'omosessualità) che portarono alla morte quasi tutte le sue vittime.

 Coloro che non rientrarono nel campo d'azione degli esperimenti di eugenetica, furono comunque vittime di terrificanti torture, unghie strappate, bastonate, somodomizzazione con oggetti.

 Quando la guerra finì, gli omosessuali sopravvissuti furono costretti a finire di scontare la pena prevista dal paragrafo 175 (che venne poi abolito nel 1950 nella Germania Est e rimase legge fino al 1988, seppur con modifiche, nella Germania Ovest). 

Una delle testimonianze più importanti rimane quella di Pierre Seel, l'unico omosessuale francese ad aver testimoniato sull'omocausto.

 Lo fece nel 1982 senza il sostegno della famiglia.

 Raccontò di come la Gestapo lo avesse imprigionato dopo aver scoperto il suo nome schedato tra gli "omosessuali" dalla polizia, condotto in un campo di concentramento e torturato per poi mandarlo a combattere al fronte. 

 Di tutta la sua storia, allucinante e straziante, la cosa peggiore rimane il momento in cui il ragazzo che amava fu fatto sbranare dai cani davanti ai suoi occhi.

 Questo è stato l'omocausto, non una vacanzina al confino. 

 Ora, io penso che si dovrebbe ragionare sulle motivazioni che condussero il nazismo e il fascismo a scegliere le proprie vittime. Perché gli ebrei? Perché i rom? Perché i testimoni di Geova? Perché gli omosessuali?

 E dovremmo anche ragionare sul perché alcune vittime hanno avuto diritto a più memoria, più dolore e più rispetto degli altri.

E' solo una ragione di quantità (e comunque si parla di 100.000 donne e uomini, non un numero infimo)? O c'entra con le parole, i pregiudizi e l'odio che ancora si riservano ad alcune di queste minoranze e che ci rifiutiamo di non vedere?

 Perché dire: "Quanto è bello una giornata particolare" e il giorno dopo starnazzare sulle unioni civili al bar denota una totale incapacità di capire le nostre responsabilità e il nostro ruolo nella storia.
 Se volete approfondire, questa è la bibliografia:

- "Homocaust" di Massimo Consoli, Kaos Edizioni
- "Triangolo Rosa" di Jean Ke Bitoux, Manni editore
- "Moi, Pierre Seel" di Pierre Seel, non tradotto in Italia
- "Le ragioni di un silenzio" a cura del Circolo Pink, Ombre Corte
- Il documentario "Paragraph 175"
- Il documentario "Ricordare" di Gabriella Romano

 Quanti di voi sapevano e ricordavano? E quanti di voi vedono nessi col nostro presente? Domandiamoci se questi erano uomini e donne degni di memoria e se ricordiamo davvero cosa significò il loro sacrificio.


giovedì 21 gennaio 2016

Piccole recensioni tra amici! Stavolta tra noi: un classico paraincestuoso dalla madre di "Piccole donne", una graphic novel italica e disturbante e vampiri poliamoristi che distruggono le nostre certezze.

 In questi giorni tanto per cambiare sto facendo un po' fatica a seguire i post.
  Quello che però è diverso è che sto facendo fatica perché parallelamente sto seguendo tutta una serie di cose parablogghesche di cui vedrete i frutti (già immagino il rotolamento di risate quando scoprirete cos'è una di codeste cose).
 Detto ciò eccovi con un piccole recensioni tra amici un po' fritto misto: classicone, fantascienza e graphic novel italica. Pronti? Olè!


LA DONNA DI MARMO di Louise May Alcott ed. Barbes:
 Louise May Alcott è una tappa obbligata di tutte le ragazzine.
 Nel dubbio quando hai 10 anni e devono regalarti un libro, qualcuno si premura sempre di rifilarti "Piccole donne".
  Non ho niente contro questa storia che è una droga. Tu puoi anche partire con l'idea che sia una palla epica, che di quattro sorelle durante la guerra di secessione non te ne può fregare niente, che degli psicodrammi da festa di Meg e dei capelli tagliati di Jo non possa importartene un cavolo, ma nulla, staccarsi dal libro diventa impossibile. 
 Louise May Alcott è una calamita per lettori e, devo dire, mi spiace l'idea che magari molti uomini pensando che si tratti di libri "da donne" non abbiano mai potuto entrare nelle stanze delle quattro sorelle.
 Detto ciò, se ricordate vagamente il film che ne trassero con Winona Rider-Jo, vi ricorderete che, sul finale, la trasformavano in una sorta di alter ego dell'autrice stessa alle prese col suo acerbo talento di scrittrice. La si vedeva infatti intenta a sfornare improbabili gialli gotici per poi trovare la sua vera inclinazione in storie commoventi di amore sorello.
 In effetti la Alcott non si limitò al ciclo delle sorelle March che tutti conosciamo, ma produsse anche varie storie sospese tra l'horror, il romantico e il gotico.
 Sono sempre stata curiosa di leggerle e in biblioteca ho scovato "La donna di marmo", storia gotica con tutti i crismi
 Cecil non ha mai conosciuto suo padre e ha perso sua madre, donna dal misterioso passato che l'ha lasciata in custodia ad uno scultore bello e tormentato, Yorke, che vive recluso in una grande villa ove si dedica solamente alla sua arte a causa di un imprecisato dramma amoroso.
 Yorke, inizialmente contro la sua volontà, accetta di prenderla in custodia e la cresce sviluppandone il talento artistico e imponendole una vita di clausura che lei non trova particolarmente pesante. Finché.
 Arriva l'età adulta, la gente mormora, tutti spettegolano su questa bella pupilla che vive sola col suo maestro, il vicino di casa si dichiara e viene scacciato in malo modo e un uomo misterioso inizia a far visita alla casa affascinando la ragazza.
 La storia è graziosa, piacerebbe alle tante ragazzine che si appassionano dei vari "Twilight" visto che i topoi ci sono tutti: uomini belli e tenebrosi, feste e vestiti preziosi, matrimoni, inseguimenti, tormenti d'amore. La cosa più inquietante è il pesante retrogusto incestuoso della storia che il finale non cancella, anzi, rende ancor più evidente. Se vi capita o siete amanti delle scrittrici anglosassoni del periodo, è grazioso.

LA LUCE DEL SOLE di Octavia Butler ed. Fanucci:
  Octavia Butler è stata un'autrice di fantascienza famosa (scandalosamente non in Italia), vincitrice del premio Nebula e il premio Hugo nonché prima scrittrice di fantascienza ad aggiudicarsi il premio MacArthur (che al contrario degli altri due non è un premio specificatamente per scrittori, ma una sorta di Nobel americano).
Octavia Butler
 A rendere ancora più spettacolare le sue imprese fu il fatto che non solo era una donna, ma anche  afroamericana, un concentrato che, posso assicurarvi, in molti ambiti avrebbe stroncato i migliori. 
 Tanto per intenderci, l'epoca in cui scriveva la Butler era ancora il periodo in cui molti scrittrici dovevano usare pseudonimi maschili (e addirittura fingersi maschi come James Tiptree jr. aka Alice Sheldon) perché altrimenti bistrattate da pubblico e colleghi. 
 Senza contare che erano gli anni in cui esisteva ancora la segregazione razziale e gli autori, maschi e femmine di colore erano rari come i quadrifogli nella narrativa in generale, figurarsi nella fantascienza.
 Eppure fu una grande che scrisse storie profondamente innovatrici e progressiste e di forte denuncia sociale, pur usando un genere bistrattato dall'alta letteratura. Molti suoi personaggi sono donne di colore e quasi sempre l'elemento della doppia discriminazione e il rapporto tra dominatori e sottomessi, tra chi detiene il potere e chi lo subisce è la parte davvero centrale delle sue storie che si muovono tra i mondi e le epoche diverse.
 "La luce del sole" è una rivisitazione del tema del vampiro. Shori è una vampira di colore di 53 anni che all'apparenza ne dimostra dieci. Una notte si sveglia in una caverna, sta malissimo, è piena di ferite e ha perso la memoria, ma è viva. Inizia così il suo faticoso risveglio e la ricostruzione di ciò che le è accaduto: chi l'ha ridotta così? Perché? Che cos'è lei? Perché ha bisogno di sangue per vivere? E' sola al mondo o esistono altri come lei?
 La storia ha un plot molto semplice, ma è scritta magnificamente ed è estremamente audace nel toccare un'infinità di temi.
 Il primo è quello del razzismo: i vampiri non sono mai di colore nell'immaginario collettivo, perchè Shori lo è? C'entra forse con quello che le è accaduto? I vampiri conoscono il razzismo?
 Il secondo è il tema della sessualità. La Butler immagina i vampiri non come ex-umani che hanno subito una mutazione, ma come un'altra specie che vive in simbiosi con gli esseri umani. Immagina perciò costrutti sociali completamente diversi molto simili alle comuni poliamoriste. Ogni vampiro ha un numero di umani, maschi e femmine, di cui si nutre e a cui allunga artificialmente la vita. Questi umani non possono più vivere senza i vampiri perché il morso crea in loro una sorta di dipendenza che, quando viene a mancare, li conduce alla morte. I vampiri, dal canto loro, sono in grado di procreare con altri della loro specie (le regole per trovare marito e moglie sono abbastanza complesse), ma non con gli umani con cui tuttavia condividono ampie case, la loro vita e molto sesso. La parte iniziale è abbastanza disturbante visto che Shori ha 53 anni, ma ne dimostra 10 e l'intera storia mette seriamente alla prova la nostra flessibilità verso forme sociali  non convenzionali. Tuttavia è la cosa che, da un certo punto di vista, rende più interessante il libro. Quanto siamo davvero elastici verso ciò che va contro tutto quello che consideriamo normale? La nostra apertura mentale è davvero così forte come crediamo? E come reagiremmo davanti alla scoperta di un mondo che vive nascosto nelle ombre del nostro? Da leggere orasubitoadesso.

L'UNICA VOCE di Tiziano Agri ed. Coconino Press:
 Avevo letto la trama di questa graphic novel su un qualche sito. Me la presentavano come una storia di trista provincia in cui due ragazzi Yuri, affetto da semisordità, e Irene, aspirante trans MtF erano uniti da un destino misterioso fino al gran finale. Fiduciosa l'ho letto. Madonna mia.
 Dunque, chiariamo. Il tratto è molto weird, molto bizzarro e tipico di un certo tipo di moderne graphic novel che amano disegni un po' disturbanti, particolari al limite (secondo me) del mostruoso. Sicuramente ci sono dietro uno studio e una riflessione su ciò che si desidera comunicare tramite uno stile del genere, sicuramente al contempo a me non piace. Se c'è una cosa che non sopporto è leggere belle storie disegnate apposta in modo inquietante. Quindi vabbeh, ahimè punto a sfavore, ma di natura personale.
 Per quel che riguarda la trama, eh, non lo so.
 Nel senso che è molto interessante l'ellissi della storia che vede un personaggio iniziale come vittima e ce lo fa scoprire solo sul finale un carnefice (anche pazzoide tocca dire). Tuttavia io sarà che dalla provincia ci vengo, ho sempre problemi con la rappresentazione funesta di un certo tipo di provincia che sarà pure veritiera, ma mi pone sempre un dubbio: perché piuttosto che patire, questi personaggi non prendono un treno e scappano?
 Yuri è parzialmente sordo dopo un trauma imprecisato che ha funestato la sua infanzia, Irene sta racimolando i soldi per cambiare sesso e si prostituisce in campagna per giungere più rapidamente al suo obiettivo.
 - In ogni caso, da quel che so io almeno, in Italia il servizio sanitario nazionale paga tutti gli interventi, quindi non c'è bisogno di ammassare denaro, il motivo per cui molte transgender sono costrette alla prostituzione è che in un paese burocratico come l'Italia non puoi ottenere il cambio dei documenti fino ad uno stato avanzato della transizione. Nel mentre, siccome molti datori di lavoro non ti assumono se in parole povere risulti uomo e sembri donna (e viceversa) e siccome c'è una forte transfobia trovare e mantenere un lavoro risulta difficilissimo e si finisce per vivere di espedienti (ovviamente non è la regola) -
 I due non si conoscono e non hanno niente a che vedere tra di loro, o forse, in realtà ce l'hanno, ma non è quello che pensiamo noi.
 Troppo sangue, momenti onirici molto azzeccati e altri eccessivamente confusionari e, ripeto, una strana visione della transizione di genere, un po' da film americano. 
 Non lo so, originale nel panorama, ma con molte cose che non mi hanno convinto. Consiglierei la lettura solo ai veri appassionati di fumetto (e giammai alle MtF di provincia).

martedì 19 gennaio 2016

Perché gli esseri umani costruiscono uomini elettrici? Cyborg, automi e robot nella storia dell'umanità tra fantascienza e "Identità cyborg", Erone, miti, cyberspazio, papi scienziati, teste parlanti e anatre.

 La fantascienza è uno dei miei generi preferiti per molti motivi.
 Il principale è che, essendo stata considerata (ed essendo ancora considerata da molti), un genere per ragazzini, assolutamente secondario rispetto all'Alta" letteratura (conosco librai che considerano sconveniente mettere Huxley nella sezione di fantascienza perchè "merita" di finire in narrativa generale), ha sempre potuto sperimentare e trattare argomenti scottanti senza che benpensanti, conservatori o chi per loro ci mettessero eccessivamente bocca. 
 Devo dire che personalmente la branca che più mi affascina sono le ucronie e le distopie, mentre non ho particolare passione per gli alieni e manifesto un contenuto entusiasmo per i robot nonostante abbiano avuto un ruolo involontariamente importante nella mia vita universitaria.
 Eppure, di tutte le creature futuribili finora prodotte dall'immaginazione umana, i robot sono probabilmente quelle su cui l'umanità intera dovrebbe riflettere di più, come dovrebbe farlo tutte le volte che deve vedersela con tutto ciò che rappresenta un suo doppio e, in tal modo, un suo Altro.
 Ultimamente mi è capitato di leggere due libri curiosamente gemelli. Il primo è un grande classico della fantascienza, "Sogni di robot" di Asimov, il secondo "Identità Cyborg" di Daniela Gulino ed. Albo Versorio, un saggio sulla storia degli automi.
 In realtà il libro di Asimov non si concentra tanto sui sogni dei robot quanto sull'impatto che la tecnologia avrà sulla storia umana sempre più dipendente da computer onniscienti, sempre più ossessionata dalla riduzione del margine di rischio in qualsiasi decisione.
 I racconti in cui l'uomo demanda il proprio libero arbitrio ad un computer sempre più intelligente sono indubbiamente i più profetici e spaventosi della raccolta, tuttavia nell'introduzione Asimov dimostra di credere assai più nelle sue profezie robotiche.
 Un giorno, pensava lui, i robot cammineranno con noi e faranno onore al nome (dal ceco robota "schiavitù") datogli dallo scrittore e drammaturgo ceco Karel Capek nel testo teatrale "R.U.R. I robot universali di Rossum" che immaginava per loro un futuro da schiavi dell'umanità. Al contrario di Capek che parlava in realtà di cyborg, ossia di costrutti non meccanici, ma organici, simili ai replicanti di blade runner, Asimov non si avventura nella coesione organica tra uomini e robot, ma rimane nell'ambito della tecnologia.
 Nel suo immaginario i robot sono talmente simili agli uomini da poter sviluppare una coscienza e pensieri  che sfuggono alla programmazione impostata. Eppure Asimov li percepisce non come parte dell'umanità, ma come specie altra, tanto da avere la necessità di creare un bellissimo personaggio, quello di Susan Calvin, una robopsicologa che viene chiamata ogni volta che i suoi superiori si piegano all'inaccettabile ammissione che esista una psiche nelle loro creature di ferro.
Se per i costruttori i robot non sono altro che macchine da smerciare in un'ottica capitalista (e più volte è ripetuta la frustrazione di non riuscire a smerciarli sulla terra per la diffidenza della popolazione), talvolta devono piegarsi all'evidenza e chiamarla per comprendere quello che per loro è qualcosa di assolutamente incomprensibile: una serie di variabili assai simili al libero arbitrio e ad una coscienza che alcuni robot finiscono per sviluppare contro il volere dei loro creatori.
 Nel libro di Daniela Gulino, un saggio veloce e molto chiaro, che affronta un excursus storico della figura del robot, si evince come Asimov possa aver anche inventato le leggi della robotica e Capek il nome, ma la fantasia di un essere artificiale creato dall'uomo a sua immagine e somiglianza (o a immagine e somiglianza di altre creature viventi) è sempre esistita, e ha assunto valenze e terrori diversi a seconda del rapporto del momento tra esseri umani, religione e scienza.
Questo perché il tema del doppio, del replicante, del robot, del cyborg come creatura frutto del genio umano, a lui sottoposta e al contempo passibile di rivolta, rappresenta sin dagli albori della conoscenza un grande e terribile desiderio dell'umanità: la possibilità di essere creatore al pari degli dei, o della natura.
 Il punto è che il terrore degli esseri umani rimane ancorato alla limitatezza della loro stessa umanità: se non abbiamo niente di divino, chi ci garantisce che un giorno queste creature non ci diverranno superiori? Senza contare che se c'è proprio una cosa per cui l'umanità tutta non ha mai brillato è sempre stata la comprensione e accettazione dell'Altro. L'altro, il diverso da noi pur pacifico, pur ammesso alla nostra cerchia, rimane sempre per noi fonte di turbamento e timore. E deve essere controllato, e, all'occorrenza, allontanato ed eliminato. L'altro non siamo mai noi.
 Sto riuscendo a spiegarmi? Non ci sto riuscendo? Per chiarire quello che dico riprendo gli episodi più gustosi di questo piccolo e densissimo libro, scoprirete cose che noi umani..


ERONE: 
Il sistema di apertura automatica delle porte dei templi
Se i komplottisti fossero un po' più colti e un po' meno pecoroni (ma in quel caso, immagino, non sarebbero komplottisti) probabilmente ambienterebbero gran parte delle loro fantasie komplottare in quello straordinario periodo che è stata l'antichità in Grecia.
 Gli antichi Greci, e in misura minore i loro cugini romani, hanno sviluppato conoscenze straordinarie che abbiamo opportunamente dimenticato in quasi blocco durante i terribili secoli bui.
 L'idea del robot (costruzione completamente artificiale) e del cyborg (costruzione in parte artificiale e in parte organica) esisteva già nei loro miti: Dedalo costruiva esseri antropomorfi che si muovevano autonomamente (e di cui Socrate discute brevemente nel "Menone"), mentre Efesto, dio del fuoco, aveva una serie di aiutanti forgiati da lui stesso. Più simile ad un cyborg per via della sua vena vitale era il gigante Talos.
Se volete approfondire
Forgiato da Efesto, fu donato a Minosse per difendere Creta, cosa che faceva con solerzia lanciando giganteschi massi verso le navi non gradite attorno all'isola. Fu ucciso dagli argonauti che approfittarono del suo unico tratto, e perciò debolezza, umano: la vena che si rendeva visibile sulla caviglia. Trapassata da una freccia ne causò la morte istantanea.
 L'idea perciò dell'esistenza di esseri antropomorfi, ma artificiali, era perciò già presente nell'immaginario greco e i valenti scienziati e tecnici dell'epoca, liberi da molti dei pregiudizi che caratterizzarono l'infausto medioevo, si sentirono liberi di sperimentare in tal senso.
 I risultati più celebri che molto avevano a che vedere con lo studio della pneumatica, furono la colomba di Archita e i marchingegni di Erone. La prima era opera di Archita, tarantino, politico e seguace di Pitagora, amico di Platone considerato il fondatore della meccanica, e consisteva in una colomba di legno in grado di volare di ramo in ramo grazie ad un gioco di contrappesi ed aria compressa (non chiedetemi, io per quel che riguarda fisica e matematica sono a livello degli uomini preistorici). 
 Il secondo, Erone di Alessandria, vissuto probabilmente nel I sec. a. C. , fu un inventore talmente straordinario da assumere caratteri mitici. A lui si devono molteplici automi semoventi da usare nelle rappresentazioni teatrali e fontane spettacolari, la pompa idraulica e l'eolipia, un marchingegno che tramite il vapore riusciva ad aprire e chiudere automaticamente le porte dei templi (altro che elettricità), inoltre creò dei teatrini in grado di mettere in scena rappresentazioni teatrali autonome e, una sorta di distributore di acqua nei templi che si azionava inserendo una moneta. Proprio come un distributore automatico.
 Paura eh?

PAPA SILVESTRO II:
 Di tutte le storie inquietanti  avvenute nel medioevo, quella che coinvolse il povero papa Silvestro II, conosciuto anche come il Papa Mago,  si è guadagnata senza dubbio il mio amore.
Una delle macchine descritte nel compendio di Al-Jazari
sulla teoria e pratica delle arti meccaniche
Nel medioevo trafficare con automi o creazioni antropomorfe di qualsiasi genere era molto malvisto  in quanto, voler replicare l'operato divino era non solo sconsigliabile, ma anche segnale di malvagità quasi certamente di radice demoniaca. Di automi nel medioevo si occupavano o gli arabi (nella loro concezione, tentare di imitare il creato era visto non come emulazione, ma come omaggio verso il creatore) o alchimisti. In qualsiasi caso gente ritenuta non raccomandabile.
 Il risultato, almeno in Europa, fu che, anche a causa della perdita di molte delle tecniche scoperte dagli antichi, le ricerche sugli automi assunsero connotazioni di stampo esoterico che finirono per ammantare di una patina magica alcuni sofisticati automi del passato.
 Un esempio per tutti le mitiche teste parlanti.
 A quanto sembra questi marchingegni a forma di testa umana esistevano nell'antichità classica e venivano usati come oracoli in nome di antichi miti che vedevano teste vaticinanti quali protafoniste (il principio di funzionamento aveva le sue origini sempre nell'eliopilia anche se non so immaginare come). Ovviamente una testa in grado di rispondere sì o no era quanto di più demoniaco potesse partorire una mente medievale, ma la scienza araba aveva continuato a produrre degli automi molto realistici e riuscì a diffondere parte delle sue conoscenze tecniche almeno in Spagna dove probabilmente il futuro Silvestro II le apprese.
Silvestro II simpaticamente in compagnia del
demonio
Per farvi capire il livello a cui gli arabi erano giunti, basti pensare che Al-Jazari, considerato il padre della meccanica e degli automi d'oriente, costruì una barca su cui si muovevano suonatori e vogatori e creò, tra gli altri, una donna automa che aiutava i convitati a lavarsi le mani versando loro l'acqua, oltre a meravigliosi orologi e ad una fanciulla che serviva il the caldo.
 Gerberto d'Aurillac, salito al soglio pontificio come Silvestro II, è stata una figura estremamente stravagante e mai più ripetuta nel parterre di papi che può vantare il cattolicesimo. Si trattava infatti di un papa scienziato, versato nell'astronomia, inventore ed estremamente colto in ambito scientifico, tanto che si prodigò (lo so, questa sembra vera fantascienza) per la diffusione di molte conoscenze perdute in occidente in ambito filosofico, matematico (reintrodusse l'abaco) e astronomico.
 Era insomma, un papa molto molto strano e la Gulino ipotizza potesse essersi dedicato anche alla costruzione di automi, precisamente di una testa parlante.
 Ovviamente non potevano non nascere su un personaggio del genere credenze e leggende di ogni tipo. Così, nell'immaginario comune, una probabile testa meccanica divenne un essere demoniaco e si attribuirono queste sue conoscenze ad un'improbabile unione con una maga musulmana in combutta col diavolo.
 L'avreste mai detto?

AUTOMI DI VAUCANSON:
 Col passare dei secoli, anche il medioevo finì e si raggiunsero epoche più razionali in cui divenne nuovamente possibile un approccio di tipo scientifico alla meccanica degli automi. Smessi i terrori demoniaci si iniziò a percepire la costruzione di robot come una sfida tecnica e fu così che la prese anche Vaucanson, rimasto celebre per aver costruito tre marchingegni particolarmente sofisticati. 
Anatra di Vaucanson
 Il buon Vaucanson era quel che si direbbe un ingegnere in piena regola, creò infatti la catena senza fine, il tubo di gomma e il telaio per tessere. La sua grande passione furono però gli automi meccanici su cui lavoro con estrema perizia cercando di imitare alcune funzioni proprie dei viventi.
 Le sue tre opere più famose rimangono il flautista, il tamburino e un'anatra.
 I tre automi, che venivano portati in giro dal loro creatore come fenomeni della tecnica, erano straordinari per l'epoca: il primo era un suonatore di flauto traverso che muoveva lo strumento riproducendo melodie, il secondo era in grado di suonare due strumenti diversi e la terza aveva un complesso apparato digerente visibile grazie al petto trasparente.
 L'anatra era quella dei tre che si potrebbe più definire un cyborg perché nelle intenzioni del suo creatore c'era quella di farle compiere una vera e propria azione naturale: la digestione. In effetti apparentemente l'obiettivo fu raggiunto, ossia l'anatra beccava cibo ed espelleva una sorta di rifiuto. Tuttavia, anni dopo venne scoperto l'inghippo: il bolo espulso era una finzione che passava per un secondo canale. L'anatra non digeriva e gli studi pseudobiologici di Voucanson che cercò anche di produrre un automa con un apparato circolatorio funzionante, una truffa.

IL CYBERPUNK:
 E poi venne la rivoluzione industriale, i terrori di Capek, le nuove frontiere dell'automazione.
 In epoca contemporanea, dopo aver impiegato per il lavoro industriale macchine sofisticate, ma ben lungi dall'essere antropomorfe, l'automazione sta prendendo altre vie orientandosi verso quello che è stato definito un transumanesimo. I cyborg siamo noi. Sempre più simbiotici con le nuove tecnologie, iniziamo ad avere innesti non umani (viti nelle ossa, pacemaker o anche solo lenti a contatto) che migliorano la nostra vita ed entrano a far parte del nostro corpo. Le nostre stesse relazioni umani sono ormai mediate in larga parte da oggetti che di umano hanno assai poco.
 Lo stesso termine cyborg è nato non in ambito letterario, ma medico. I primi ad usarlo furono i medici Manfred Clynes e Nathan Kline a proposito di una sorta di potenziamento genetico degli esseri umani in previsione di loro eventuali viaggi spaziali.
 Non era l'idea che Asimov si era fatto della nascita dei robot (a me la cosa che stupisce di più leggendo i suoi racconti ora è il pensiero che gli esseri umani potessero viaggiare nell'universo e creare robot pensanti, ma continuassero a parlare per ricetrasmittenti), e fa un po' sorridere che l'abbia creduta la sua più grande intuizione quando pochi anni dopo scienza e tecnica hanno lasciato che il mito dell'automa si intersecasse in modo imprevedibile alla storia degli esseri umani.
 Anche la letteratura a quel punto ha dovuto cercare nuovi punti di riferimento e lo ha fatto col cyberpunk. Nel 1984, una data stranamente profetica e ricca di eventi determinanti, William Gibson manda alle stampe "Neuromante", sorta di distopia in cui si immagina un futuro in cui la vita avviene in uno spazio reale e al contempo in un gigantesco spazio virtuale, il cyberspazio, dove si può anche non morire mai. Come dice Gulino nel cyberpunk l'idea di base è che il progresso non si possa bloccare in alcun modo, nel bene (nel senso che proseguiremo verso un'evoluzione tecnologica costante) e nel male (le eventuali derive infauste di questa evoluzione non avranno rimedio). Perciò nella trilogia di Gibson, che comprende anche "Laggiù nel cyberspazio" e "Monna Lisa cyberpunk" il mondo è un posto impregnato di tecnologia,  ma socialmente liquefatto. Non ci sono più stati, ogni individuo è estremamente solo e usa il cyberspazio per sfuggire ad una realtà su cui non ha nessun potere.
 La lessi all'università, è una lettura molto particolare e ammetto di non aver sempre capito quello che Gibson cercava di comunicare, ma alla luce della crescente confusione in cui versa il nostro mondo, direi che è un passaggio obbligato.

 Ebbene, spero di avervi dato spunti di lettura fantascientifica e non. Il libro della Gulino può essere una buona introduzione per stilare una buona bibliografia su un argomento che all'apparenza sembra in genere di puro intrattenimento.
 Sembra, e continuiamo a fingere che lo sia, prima che qualche benpensante si svegli con vari decenni di ritardo e inizi a metterci i bastoni tra le ruote.