Durante il mio quarto anno delle elementari, le maestre della mia scuola (uso il femminile perché non ricordo l'esistenza di un maestro maschio e pure ce ne fosse stato uno, in questo caso, la maggioranza era così schiacciante da vincere) concepirono un progetto a dir poco monumentale.
Per un intero anno, con eserciti di madri e qualche padre, allestirono una gigantesca recita collettiva delle quarte, dedicata alle tradizioni popolari italiane.
Funzionava così: si prendevano due o tre bambini da ogni classe e li si assegnava a una scenetta riguardante la tradizione regionale. Ora, non ricordo se ci fossero proprio tutte tutte le regioni, ma molte di esse furono coperte.
I più invidiati erano coloro che si erano beccati la Campania e le streghe di Benevento: avevano una sorta di rito alla Macbeth con tanto di finto paiolo e finto noce e recitavano formule magiche che, in un'epoca pre-Harry Potter, ci affascinavano incredibilmente.
Quelli più compianti erano le vittime della Lombardia: c'era una sorta di scenetta con un falegname vessato dal padrone e una canzoncina di risposta di cui non capivamo bellamente niente. Si trattava di "Sciur padrun dali beli braghi bianchi, forà li palanchi fora li palanchi" (vado a memoria, io poi coi dialetti nordici sono una frana, sembro un giapponese che cerca di parlare inglese). Ci era completamente ignoto di cosa stessimo parlando e solo anni dopo scoprimmo che stavamo pretendendo denaro (e non assi di legno).
A me e alla mia allora (e ancora) migliore amica toccò una storia misteriosissima: "L'ultimo covone".
Sostanzialmente eravamo un gruppo di contadini che si svegliavano molto prima delle sei (e noi, increduli ci fosse un orario precedente all'alba, pensammo per mesi si trattassero delle sei del pomeriggio) e andavano a mietere l'ultimo campo di grano di uno di noi.
Mieti e mieti arrivavamo ad un ultimo covone, che, per gentile concessione del padre di uno di noi, era davvero un gigantesco e biondo covone di grano. Tra l'altro, con alta probabilità, essendo il nostro un paese anche con campagna, ma non di campagna, il primo che molti di noi toccavano.
A quel punto dovevamo mettere in scena una cosa che francamente mi è rimasta assolutamente misteriosa finché ieri, nella noia del seggio, un bel libro di Eraldo Baldini e Alessandro Fabbri me ne ha svelato il senso: dovevamo dare la caccia a uno di noi.
Sostanzialmente un ragazzino, che per il resto dei suoi anni scolastici venne soprannominato "il capretto", doveva essere travestito da capra e noi dovevamo fingere di cacciarlo dietro al covone, ucciderlo e portarlo infine in trionfo.
Ve lo giuro provammo questa scena per mesi e mesi (ancora ricordo le battute), fui persino costretta a mettere in scena un assurdo balletto popolare, ma nessuno capì che caspita stessimo facendo e perché.
Ci voleva
"Quell'estate di sangue e di luna" più di vent'anni dopo a dare un senso a quell'anno di capretti e covoni scolastici.
Un libro che si inserisce con successo in un filone poco esplorato o esplorato malissimo nella narrativa italiana: le inquietanti estati dei ragazzi.
La scorsa estate ci avevo scritto un post su questo genere fortunato e in molte parole dicevo quello che Alison Bechdel ha tradotto in una sola frase:
"Si dice che le case in cui abitano degli adolescenti, attirino i poltergeist".
Il motivo è presto detto: i fantasmi, il perturbante e lo straordinario, si insinuano nelle pieghe dell'esistenza e non c'è piega più profonda di quella che attraversiamo durante l'adolescenza, persi in una terra che è quella conosciuta e confortevole in cui siamo cresciuti e al contempo inizia a mutare forma in modo velocissimo lasciandoci sconcertati e, per la prima volta, impotenti.
I 4 ragazzini protagonisti del libro di Baldini-Fabbri stanno per vivere quello che pensano sarà il momento più emozionante delle loro esistenze: è il 1969 e l'uomo stava per mettere piede sulla luna.
Siccome c'era ancora un vago concetto di sogno collettivo, non si strillavano cose inconsulte come "Aaaaah tutti quei soldi per andare sulla luna, pensate ai pampini e alle famigghie che moiono di fame!!", l'atmosfera è elettrica. Non si parla di altro, i giornali seguono le vicende degli astronauti, si pronosticano pesti spaziali, improbabili virus lunari e quarantene fantascientifiche a causa di sconvolgimenti causati dall'eventuale polvere lunare portata sulla terra dai prodi avventurieri.
Ed è in questa settimana che in un paesello dell'Emilia Romagna si scatena letteralmente l'inferno.
La natura inizia a mostrare segni di sovvertimento, gli uccelli migrano fuori stagione, la terra puzza, le mele si deformano, i cocomeri si riempiono di vermi, strane morti devastano la popolazione, i cani impazziscono, i bambini scompaiono...
Cosa sta succedendo?
Chi ha letto Lovecraft saprà riconoscere l'idea primaria: un omaggio assolutamente non velato ad uno dei suoi racconti più belli: "Il colore venuto dallo spazio".
Se non lo avete letto, recuperatelo, è un capolavoro.
Nella storia, il terreno di una fiorente fattoria viene colpito da un meteorite (o una qualche "cosa" proveniente dallo spazio) e numerosi studiosi accorrono a studiarlo. Nel frattempo però i proprietari impazziscono lentamente e la terra mostra segni di putrescenza e quasi malvagità.
Cos'è davvero quel "colore" venuto dallo spazio?
Un alieno, una materia incompatibile con la nostra terra, quella che oggi chiameremo una bomba radioattiva, un mostro o qualcosa di più profondo, inafferrabile, incomprensibile?
Baldini e Fabbri riescono in una doppia impresa:
1) Omaggiare un racconto senza stravolgerlo o scopiazzarlo, ma arricchendolo.
Quante volte davanti a un racconto ben riuscito ci prudono letteralmente le mani perché avremmo voluto leggerne di più? Quanto malediciamo il, secondo noi, pigro scrittore che non ha avuto voglia (sempre secondo noi) di allungare il brodo?
"Il colore venuto dallo spazio" che è opera non di un grande, ma di un grandissimo, faceva un po' parte del gruppo.
E' ovviamente misurato, ottimo e soddisfacente, ma l'idea di fondo era così potente da farti dire: "Lovecraft che caspita! Un romanzo!".
Probabilmente Baldini e Fabbri se lo sono detti e se lo sono scritti, inserendo l'evento in un contesto rurale più popolato e a noi italiani ben più familiare e riconoscibile.
2) La seconda impresa è essere riusciti a domare un racconto cosmogonico.
Baldini e Fabbri sanno di non essere Lovecraft e, consci dei propri mezzi, pare si siano detti a monte: "Ok, ci è impossibile riprodurre quella sensazione di vuoto e terrore universale che lo scrittore americano riusciva a trasmettere, preda a sua volta di un terrore verso qualsiasi cosa gli fosse sconosciuta (che poi fosse reale, immaginaria, probabile o estremamente improbabile non importava, tutto era sullo stesso terrificante piano). Tentiamo di afferrarne almeno un piccolo frammento alla nostra portata".
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Comunque mi sono resa conto di non aver mai scritto
un post su Lovecraft. Considerando che sento un sacco
di lettori forti dirmi "Ah, mai letto, non mi piace molto
il genere", penso sia giunta l'ora di convincervi che non
si tratta di "narrativa di genere" ma di "narrativa geniale" |
Il punto di vista non è più quello adulto, ma di un gruppo di ragazzini, gli unici, assieme agli anziani, a trovarsi sulla soglia di qualcosa: i primi su quella della propria esistenza, i secondi su quella della morte.
Sono loro, uniti come si dice spesso, da una curiosa somiglianza, le uniche persone di un paese impazzito per il dolore a capire dove si annidi il male e come porvi rimedio.
Ci saranno molte vittime, una particolarmente predestinata, perché l'universo ha da sempre una grande costante: quando qualcosa è inspiegabile, la colpa la si deve comunque attribuire a qualcuno e quel qualcuno è sempre chi non rientra negli schemi.
Solo chi non si adegua all'ordine, a quanto pare, è la causa del disordine.
Ed è quello il frammento che Baldini e Fabbri sono riusciti ad afferrare nella grandezza di Lovecraft.
L'idea che possa esistere una massa oscura e incontrollabile al genere umano, di una colpa che non ha una forma umana, ma appartiene ad un mondo che potremmo dire magico, oscuro, religioso, sacro, demoniaco, incomprensibile. L'idea che la paura abbia sede in qualcosa di più esteso, tentacolare, impossibile da combattere se non con i suoi stessi, oscuri, mezzi.
Ho visto che in questi giorni è presa ai blog e ai giornali la smania dei "consigli per l'estate", io sono ancora un po' indietro, ma prendete questo come primo dei miei suggerimenti.
Assicuro che non c'è una stagione migliore per leggerlo e magari fatemi sapere!
Ps. Sì sono sopravvissuta a brevi ferie particolarmente elettorali e ai seggi. Stavolta l'incubo dello scrutinio è stato assai più contenuto: alla fine eravamo così stupefatte della nostra velocità che avevamo quasi voglia di andare a bere per festeggiare!