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domenica 31 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ahahahaha"

Ed ecco la prima delle due cose realmente avvenute, lo giuro, che posterò in giornata.
 Tornata dalle ferie, sana e riposata, ecco che i clienti mi sollazzano in tutta la loro assurdità. Fortunatamente il riposo mi ha ben disposto nei confronti di tutto ciò, facendomi trovare il vasto mondo assurdo e comico. Vediamo quanto dura.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ahahahaha"!




giovedì 28 maggio 2015

L'estate, i fantasmi e la perdita dell'innocenza. Apprezzare il simbolismo decadente di una stagione estrema leggendo un po' di sano summer goth: Tony Sandoval, i suoi mostri e i favolosi acquarelli.

 Come ogni inizio estate, sono stata presa dalla smania di leggere libri horror. 
"Stand by me" un film assolutamente da rivedere ORA
Non quell'horror splatter
o melenso che va adesso, indeciso se sia più cool descriverti per filo e per segno come vengono estratti gli intestini da uno zombie in crisi d'astinenza da carne umana o il vampiro sexy che si dimentica di essere un non morto e procrea come se non ci fosse un domani. 
Io parlo di quel sano horror gotico di un tempo, di Poe, di Lovecraft e dell''800.
 In un post dell'anno scorso, descrissi com'era nata questa mia passione, ampiamente caldeggiata dall'isolamento a cui vengono costrette le persone recluse in una sezione elettorale.
 C'è chi collega le mostruosità al freddo e chi alla canicola agostana. Io sono della seconda scuola. L'estate infatti, racchiude in sè molte caratteristiche che la rendono facile all'orrore:
1) E' una stagione dalle caratteristiche climatiche estreme, in cui il caldo intenso rende talvolta difficile la concentrazione e facile la confusione, anche tra diversi piani di realtà.
2) E' probabilmente la stagione più simbolica. 
 In realtà tutte le stagioni hanno un loro simbolismo, se ci si fa caso, nella storia della letteratura, ma anche nella nostra vita, ogni stagione, ispira qualcosa di specifico.
I "Goonies", altro classico adolescenza-paura
 La primavera è una stupida e leziosa mezza stagione in cui non puoi ambientare niente di orribile: i prati sono in fiore, i cerbiatti amoreggiano, le ragazze sospirano, i ragazzi s'innamorano. Tutto è uno stupido cuore, amore, sotto un ombrellino che ripara dagli acquazzoni.
 L'autunno ha tutto quel cotè di riflessioni sulla vita, chi sono, dove vado, come sono arrivato qui. Domande esistenziali che o ti cambiano o ti affogano o, generalmente, ti lasciano al punto di prima.
 L'inverno è un'altra stagione estrema in cui generalmente si consuma qualche tragedia. Stare troppo chiusi in casa non ha mai fatto bene a nessuno, quei caminetti e quelle stufe sono il motore di infiniti drammi familiari (ci sarà un motivo se "Anna Karenina" l'ha scritto un russo). A stare troppo in famiglia ci si rimette la salute mentale, per non parlare delle avverse condizioni climatiche che catalizzano sempre qualche incidente che percorre fatale le vite di qualcuno.
 L'estate è una stagione speciale perché ha un simbolismo ambiguo. 
 Tanto è splendente, quanto nasconde una decadenza, tanto è bellissima da vivere, tanto sembra breve e inafferrabile. Mentre febbraio e gennaio hanno una lentezza suicida, luglio e agosto vengono inghiottiti da un gorgo spazio-temporale che non riusciamo a spiegarci. L'estate ospita fantasmi che si agitano in notti abitate da grilli e da calure che ci impediscono di dormire.
 Ci porta in luoghi che durante l'anno possiamo solo sognare, ci distacca dalla rassicurante routine con una violenza che ha dello sconcertante.
Se volete provare una sana inquietudine summer goth ecco a voi il mio suggerimento di fine maggio: Tony Sandoval.
Questo fumettista messicano, pubblicato in Italia da Tunuè, è assolutamente fantastico.
Non solo per i suoi disegni, bellissimi, con acquarelli davvero splendidi, ma per le storie che si dipanano sospese tra la realtà e il fantastico con accenni gotici, in grado di unire entrambi gli elementi con una semplicità che sconcerta.
 Le storie di Sandoval, anche aiutate da un tratto che si presta tantissimo all'onirico goth, raccontano quasi sempre di ragazzini o ragazzi alle prese con eventi mostruosi che non sanno bene come incanalare nella loro vita. Non sanno dare loro una spiegazione, perché, in effetti, è quasi impossibile spiegare il male. E così, invece di comportarsi come gli adulti, che si affannano in spiegazioni complicatissime, o, più spesso, fingono di non vedere, i ragazzini di Sandoval riescono a immettere nel flusso delle loro vite l'elemento mostruoso innestandolo nella loro quotidianità. 
 Non c'è bisogno di spiegare il male, il male esiste e ignorarlo non serve a nulla. Forse può servire a qualcosa combatterlo, ma non per principio, solo quando è necessario. I ragazzini di Sandoval sono diffidenti, ed egoisti, non hanno alti ideali, combattono solo se non possono farne a meno. 
Ne sono un esempio i protagonisti di "Watersnakes" e soprattutto de "Il cadavere e il sofà". 
 Entrambi sono piccoli gioielli, il primo, che descrive una complicata amicizia amorosa tra due ragazzine (di cui forse una è morta) ha un livello visivo straordinario, ma il secondo, seppur meno di livello estetico (è un lavoro precedente, ma insomma stiamo sempre parlando di disegni fantastici), ha una storia molto più forte. 
Una delle tavole più belle di "Watersnakes". Sandoval ha
alcune fissazioni nei disegni: lingue, denti e animali con
tentacoli o striscianti.
 "Il cadavere e il sofà" si innesta in quel filone che unisce l'adolescenza, la perdita dell'innocenza e un elemento horror disturbante. Un filone, se ci si pensa, fiorentissimo e fortunato. 
 Basta pensare all'immensa fortuna che conobbe la serie "Piccoli brividi" (avevo un'amica alle superiori ignorante come una capra, non leggeva niente, ma aveva tutta la collezione di "Piccoli brividi"), a quello splendido film che è "Stand by me", a "Il mio vicino Totoro" o "E.T.".
 Gli adolescenti sono in una fase in cui percepiscono il loro corpo come particolarmente "mostruoso". Non c'è un'altra stagione della vita in cui assistiamo, con consapevolezza, ad un'esplosione fisica così rilevante e incontrollabile. Mutiamo di giorno in giorno e una stagione può fare la differenza tra un bambino e un ragazzo.
 Non è un caso se una delle leggende in materia di fantasmi, vuole che le case in cui abitano degli adolescenti, siano particolarmente magnetiche per gli spiriti. Entrambi, adolescenti e non morti, sono su una linea di confine spaventosa su cui non hanno nessun controllo.
 Sandoval è riuscito a fermare l'inquietudine incerta di quella stagione in questo libro davvero considerevole. Ne "Il cadavere e il sofà", Polo, un ragazzino, annuncia nella prima pagina, che quella è davvero una strana estate, poichè, Christian, un suo coetaneo del paese, è sparito misteriosamente una settimana prima. Che fine abbia fatto lo scopre poco dopo: è morto e il suo cadavere, che gli adulti non sono riusciti a trovare, giace non lontano dal paese.
 Invece di condividere questa scoperta, lascia il cadavere al suo posto, tornando ad osservarlo nei giorni successivi, perplesso sulla possibilità che effettivamente la morte esista (concetto alquanto inafferrabile a tredici anni). In paese, nel frattempo, è arrivata una ragazzina, Sophia, figlia di un professore, che non si mostra a nessuno se non a lui e indossa solo vestiti neri e lenti a contatto che la fanno sembrare una vampira. Polo si innamora per la prima volta nella sua vita ed è a lei che decide di mostrare il cadavere, convinto che saprà capire quella sensazione stupita e paradossalmente viva, che ha lui quando lo guarda.
 Sophia non lo delude e tra di loro inizia una storia d'amore molto dolce, onirica eppure incredibilmente sensuale, fisica. Attorno, un mondo di adulti che sembra alieno e distante, sogni mostruosi, il timore che Sophia non sia mai esistita e la verità sulla morte di Cristian che si svela a loro senza che la cerchino, semplice e terribile.
 Meno potente (secondo me eh), ma molto particolare è anche "Nocturno", opera in cui i protagonisti di Sandoval sono leggermente più adulti.
Un gruppo di ragazzi che appartengono al mondo della musica metal. Il protagonista è Seck, talentuosissimo cantante e musicista, inafferrabile e strano al punto da cercare l'erba per il the da solo, nelle aiuole e nei campi.
da "Nocturno"
 In città c'è un concorso tra band e si agitano attorno a loro, concorrenti malfamati, una bellissima giornalista bionda e fantasmi dai crani lucidi a cui nessuno sa dare un nome. C'è un omicidio, poi un altro, e un regolamento di conti e un volo in un fiume.
 Poi la storia diventa mitica, appartiene ad altri mondi e promette ritorni, perché nel mondo fantastico di Sandoval, la morte non è sempre definitiva, talvolta ci è concesso di tornare, ma non di recuperare gli anni ormai perduti.
 Fidatevi, se volete provare il vero gotico estivo e diventarne psuedodipendenti come me, Sandoval è la via (e il prezzo degli albi vale assolutamente la pena).

Ps. Ci tengo a sottolineare che ho scritto questo post, con sette imbecilli dietro la mia sedia in biblioteca, che hanno preso codesto ameno luogo per il ricettacolo dei loro sghignazzi deficienti.
 Sò vecchia inside, ma ci sta un parco gigantesco fuori dove andarsi a rotolare senza rompere le palle e le ovaie al prossimo, perciò ci vedo della malvagità peggiore di quella dei poveri fantasmi.
 E scusate lo sfogo.

sabato 23 maggio 2015

Avviso ai naviganti! Vacanze primaverili.

Scusate il ritardo
dell'informazione
Post di servizio/avviso ai e alle naviganti.
 Come sa chi segue la pagina fb, sono in vacanza per qualche giorno. Lunedì si torna alla normalitè. Buone giornate di primavera anche tra i monsoni che spazzano il North.
 Nel frattempo ho già finito "Raffles" di E. W. Hornung ed è very faigo (la vicinanza con la mia sorella young adult mi fa male, lo so).

mercoledì 20 maggio 2015

Il resoconto fumettoso della mia visita al salone del libro di Torino 2015! Tra interviste radio, diluvi, piazzisti, guaglione, gesti anni '90 e morali interminabili!

Allora, con estremissima fatica tecnica (sono a casa dei miei e se vi racconto cosa ho dovuto fare con lo scanner, il computer, la ciabatta che non funzionava, le mie sorelle, il fidanzato di mia sorella, la scheda wireless e via dicendo, non finiamo più), sono riuscita a caricare il fumetto del Salone del Libro di Torino 2015.
 Ci sono stata venerdì scorso e mi sono abbastanza divertita. Non ho partecipato a incontri poichè, quando vado un giorno solo, preferisco concentrarmi su stand, libri e altri visitatori.
Ringrazio ancora Greta Pieropan e Radio Jeans per l'intervista (di cui metterò il link appena l'avrò) e insomma, bando alle ciance, buona lettura!
"Il salone del libro di Torino 2015" tutto per voi!














martedì 12 maggio 2015

La matematica come rivolta. La vita struggente di un formidabile genio:"Evariste Galois" di Leopold Infeld, tra rivoluzione, matematica, brindisi minacciosi al re e quella frase terribile, "Non ho tempo".

Come ogni tanto rimembro, qualche anno fa, lavorai per un anno in una biblioteca.
  In quell'occasione, nonostante il contratto iperprecario, venni mandata a fare un corso di aggiornamento sul mitico Sebina, storico programma di catalogazione nazionale.
 Ero piena di belle speranze, perchè si trattava di un corso per bibliotecari professionisti, ma quando vi giunsi, scoprii che era una tre giorni di apprendimento a dir poco base. Dopo venti minuti già dormivo sul banco.
Fortunatamente avevo a disposizione un pc con una connessione, così, iniziai a vagare nell'etere e, non so come, capitai sulla pagina di wikipedia dedicata a Evariste Galois.
 Scoprii che nella Francia post napoleonica, durante gli ultimi colpi di una monarchia ormai avviata verso la scomparsa, era vissuto un matematico che morì a neanche 21 anni durante un duello d'onore.
 Codesto matematico aveva una storia alquanto peculiare. Ben lungi dallo starsene chiuso in casa a produrre formule, era un ferventissimo repubblicano, dall'animo a dir poco indomito e il carattere assai strano. Produsse poco a livello di quantità, ma ebbe intuizioni talmente fondamentali e concentrate, che, sui suoi lavori, venne fondata una branca dell'algebra astratta. 
La storia mi colpì tantissimo. Era a dir poco romanzesca e mi stupì che nessuno ne avesse mai tratto un film. Scartabellando, scoprii invece che, in effetti, negli anni '70, aveva visto la luce un curioso lungometraggio sperimentale di italica produzione che si intitolava: "Non ho tempo" e il regista era Ansano Giannarelli.
 Giannarelli, morto qualche anno fa, era stato mio professore all'università ed era all'epoca ancora il presidente dell'Archivio Audiovisivo del movimento operaio. Gli scrissi chiedendogli dove potessi trovare una copia del suo film e lui, assai gentilmente, me ne preparò una copia apposta da andare a recuperare all'archivio.
Ansano Giannarelli
 A casa, esaltatissima, organizzai una miniproiezione con alcuni miei amici che non comprendevano il mio improvviso entusiasmo verso un oscuro matematico francese e che, dopo la visione, continuarono a non comprenderlo.
 "Non ho tempo" infatti era un film probabilmente troppo cinefilo per le nostre povere menti, intriso di sperimentazioni di regia assai anni '70, con un attore che aveva almeno il doppio degli anni del povero Galois e un sotto testo politico che soverchiava la biografia.
 Scrissi a Giannarelli che mi era molto piaciuto, ma dovetti fare un po' la figura della bimbominkia ante litteram, quando sottolineai che immaginavo Galois assai diverso: ossia più giovane, eroico e possibilmente piacente (in questo senso giocava il fatto che l'attore crudelmente scelto era di rara bruttezza).
 Non mi rispose e mi rammarico tuttora per non essermi spiegata meglio.
 Ciò che intendevo dire è ben spiegato in "Evariste Galois" di Leopold Infeld, fisico prestato alla scrittura che rimase folgorato dall'esistenza di Galois negli anni '60 e ne studiò le gesta dando alle stampe quest'opera, che descrive, in modo un po' romanzesco, la vita in verità assai romanzesca di questo ragazzo.
 Nato in una famiglia benestante e "politicamente impegnata" (suo padre era storico sindaco del suo paese, suicida in tarda età a causa delle calunnie della chiesa locale nei suoi confronti), Galois venne mandato a studiare in collegio a Parigi. Tale luogo era ovviamente intriso di severità e di quella tipica magniloquenza burocratica di cui si ammantano tutti i posti e le persone che si credono grandi quando sono solo pretenziosi.
Il libro, che non si occupa dell'infanzia di Galois (sul quale le fonti storiche sono comunque pochissime), prende le mosse da un grande sommovimento di un gruppo di studenti contro i cosiddetti "gesuiti", modo in cui chiamavano gli istitutori più conservatori.
 Si trattava più o meno di un tentativo di okkupazione che però, all'epoca, aveva conseguenze ben più gravi: i sobillatori vennero infatti scoperti ed espulsi.
 Galois rimase semplice spettatore, pur avvertendo interiormente i primi moti di violenta ribellione che l'avrebbero scosso nella sua breve vita. Convinto perciò, di aver saltato un grande appuntamento con la storia (da giovani sembra tutto irreparabile), piuttosto abbattuto, decide sedicenne, di iscriversi ad un corso di matematica del collegio, materia all'epoca non considerata fondamentale.
 In brevissimo tempo diventa più bravo dei suoi professori, trovando in uno di essi un mentore in grado di spingerlo a spedire i suoi lavori ai grandi accademici dell'epoca, che per ben due volte persero le sue, a quanto pare, assai oscure dissertazioni.
 Passano due anni, Galois tenta l'ammissione al Politecnico, fallendola per due volte di fila: risponde male ai professori e trova assolutamente cretino dover spiegare delle cose che sono ovvie solo perché è così che si fa. Riesce ad essere ammesso ad una scuola meno importante, la Normale, dove continua i suoi studi matematici e accentua la sua fervente attività rivoluzionaria.
 Sono gli anni in cui una rivoluzione popolare tira giù con grande facilità dal trono, il re Carlo X, che va in esilio abdicando in favore di un nuovo ramo degli Orleans, nella figura di Luigi Filippo. Questo nuovo re si attira l'odio dei rivoluzionari che speravano nell'avvento della repubblica e non di un gioco di mano dinastico.
 Galois è tra questi. Inizia a frequentare gli ambienti rivoluzionari fino ad un episodio surreale che lo condurrà ad uno spettacolare processo: durante una sorta di riunione privata in un'osteria, in preda ad un alto tasso alcolico generale, egli brindò al re "Luigi Filippo" con un coltello in mano. A quanto brindare alla salute di qualcuno con un pugnale in mano equivaleva a minacciarlo esplicitamente di morte e così il buon Galois venne buttato in prigione.
 Se la cavò grazie ad un famoso avvocato ingaggiato dai suoi amici, ma ciò non gli impedì di finire di nuovo in galera dopo breve tempo per aver girato in uniforme e armato. In questo caso, minore il reato, ma anche minore la risonanza, perciò paradossalmente finì in prigione quasi un anno, durante il quale comunque si diede da fare: tentarono di ucciderlo a tradimento e assistette ad una rivolta dei detenuti.
 Se non altro ebbe il tempo di elaborare in un senso vagamente più compiuto una sua teoria sulla risolvibilità delle equazioni (che non enuncerò visto che non ne capisco nulla) che andava a completare il lavoro di un altro famoso e sfortunato matematico dell'epoca: il bel norvegese Abel, morto ad appena 27 anni.
Uscito di prigione, la sua vita non durò molto. Poco dopo venne coinvolto in un duello per difendere l'onore di una donna misteriosa dove fu ferito a morte. La faccenda, assai losca, viene da alcuni ritenuta un sordido piano delle spie monarchiche per liberarsi di questo esuberante giovine che morì due giorni dopo tra le braccia del fratello minore Alfred, in ospedale. Era il 31 maggio del 1932.
 La storia, ha un tocco finale che sembra uscito da un film. 
 La notte prima del duello, nel quale Galois era assolutamente convinto di morire, il matematico lavorò per 13 ore filate riempiendo fogli su fogli di teorie e formule, il più delle quali assai nebulose per chi ne decriptò successivamente il lavoro.
 Ai margini dei fogli scritti di corsa, egli scriveva infatti "Non ho tempo".
 Il libro di Infeld soffre un po' dei decenni trascorsi e soprattutto nella parte finale, quella "romantica" in un eccessivo tono enfatico, tuttavia c'è da ricordare che lo scrittore era un fisico che è riuscito a scrivere un libro su un matematico, accessibile a tutti.
   Inoltre, questa biografia, assai partecipata, scritta da un autore che prova una sincera ammirazione per il Galois matematico e ragazzo (Infeld probabilmente si riconosceva nell'irriverenza contro il potere di Galois in quanto fisico contrario alle armi nucleari e attivista per la pace), consente di cogliere in pieno quello che cercai malamente di dire a Giannarelli anni fa.
 Non volevo che l'attore che impersonava Galois fosse un giovane attore belloccio per il mio diletto, ma perché la giovinezza nella storia di questo ragazzo è un'asse portante quanto la matematica. E' evidente, come in poche biografie, quanto l'ansia di fare, le emozioni viscerali, i desideri ciechi e accecanti, l'anelito rivoluzionario possano essere potenti durante la primissima giovinezza.
 Galois, che aveva probabilmente un carattere assai estremo per sua natura, non trovò modo di mitigare questi suoi estremismi con gli anni che non gli furono concessi, ma grazie a questa mancanza di tentennamenti, grazie a questa sua ansia di combattere ogni ordine precostituito (dal re, all'accademia fino al mondo accademico matematico verso cui ebbe parole di fuoco in una sua lunga prefazione che scrisse in prigione) visse in modo ardente una vita brevissima.
 Una biografia che è come un romanzo di formazione portato alle sue estreme conseguenze, senza climax, senza presa di coscienza, senza compromessi, in cui l'algebra diventa un curioso e inedito mezzo per una rivolta interiore.
 In un'epoca in cui si è passati da un prete che asseriva "che l'obbedienza non è una virtù" ad uno stato di obbedienza generale a dir poco inquietante, leggere le gesta di Galois potrebbe ricordarci che dubitare sempre, di tutto, (ma con intelligenza, con uno spirito critico proprio, non seguendo masse pecorone) è un dovere. 

lunedì 11 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Me l'hanno giurato! "Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall'azione cattolica".

Ed ecco la seconda vignetta della giornata!
 Si tratta di un cose realmente avvenute, me l'hanno giurato!
 La sventurata protagonista lavora in una fumetteria ove si è appena tenuta una due giorni di intensi incontri/festeggiamenti per una sorta di festa del fumetto. Ha pensato benissimo di fare un resoconto delle sue sventure sulla pagina fb di codesto blog e questa era una delle perle migliori.
Chi coglierà le fattezze del cliente avrà mille stelle di premio. Peraltro mi è venuto stranamente somigliante.
Cose realmente avvenute! Me l'hanno giurato! "Sono una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall'azione cattolica".


sabato 9 maggio 2015

Ogni tanto si chiude una porta e si spera si apra almeno il famoso portone. Intanto un fumetto per dire "Addio al mio responsabile" (no, non è morto).

Il fumetto di oggi è un po' particolare poichè narra di un tristo (per me) fatto: ho cambiato il mio responsabile.
 Ogni tanto ve lo vignettavo, probabilmente la sua performance vignettistica migliore rimane il Grund Eckhartiano e troppe sue perle sono andate perdute negli innumerevoli foglietti di appunti che mi faccio a lavoro e poi dissemino per casa per la disperazione della mia dolce metà che pensa di essere in balia di Pollicino.
 Ma vabbeh, oh come si suol dire "Si chiude una porta, si apre un portone". Ma addio, mio responsabile, mi mancherai :'(
 Un fumetto di nostalgica tregenda "Addio al mio responsabile".



giovedì 7 maggio 2015

Avere vent'anni per sempre. La talentuosa e sfortunata Marina Keegan e il suo "Il contrario della solitudine", tra lettori onniscienti, speranze, i migliori anni della nostra vita ed enormi meduse luminose che danzano davanti a noi, come un'illusione.

 Quando compii esattamente vent'anni, mi sentii un filino turbata. 
 Pensavo, sinceramente, di dover sentire qualcosa di particolare al raggiungimento esatto di un'età dagli ormai mitici contorni: se era così perdutamente compianto, non farlo avrebbe significato perdere la possibilità che, a quanto sembrava stavo avendo, di viverla, anche se non capivo esattamente quale fosse.
 Così, pur non sentendo nulla di particolarmente diverso, avvertii quasi il dovere di dover sfruttare ogni singolo attimo di quel periodo.
 Dopotutto erano gli anni migliori della mia vita, no?
  Perciò mi diedi molto da fare, spendendo grosse energie in ogni dove, eppure, qualsiasi cosa facessi, io questo attimo fatale non riuscivo proprio a vederlo.
 Per contro, iniziai ad avere dei momenti di perplessità vacante, avvertivo infatti la percezione assai forte di essere un filino meno lucida di quando frequentavo le superiori.
 Intendiamoci, per lucidità non intendo dire che stavo perdendo i colpi, ma, semplicemente ciò che avevo sperato e desiderato con estrema chiarezza al liceo, iniziava a perdere lentamente i contorni. 
 Forse non era davvero tutto raggiungibile, forse il mondo era davvero fatto in modo da schiacciarti, forse tutti quei cinquantenni che sospiravano  quando parlavo di qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare o diventare, che ne so, diventare, banalissimamente, una scrittrice, vivere in Francia, diventare la direttrice della biblioteca nazionale, (condivido la mitomania delle mie aspettative), era una roba che già solo dirla ti qualificava come una mentecatta sognatrice che non capiva niente della vita. 
 Il mantra era: sopravvivenza, se non ce l'hanno fatta gli altri perchè dovresti farcela tu, l'imprescindibile "emigra all'estero", la vita vera è un'altra cosa e altre nobili affermazioni sullo stesso tono.
 Ciò che davvero mi shockò (da quel punto di vista sono sempre stata un po' lenta) fu l'improvviso divario tra ciò che ti era concesso credere e volere prima del diploma e ciò che invece ti era permesso dopo. In pochi mesi della tua vita, dopo anni di meticoloso indottrinamento da parte di adulti che volevano solo che tirassi fuori la parte migliore di te, dopo averti domandato dalle elementari "Cosa farai da grande?", averti preteso interessato alle più alte cause civili e artistiche, ecco che, nell'arco di una sola estate ti veniva detto: guarda, è tutto molto bello, ora però la storia è un'altra. 
 Mi sentii da una parte truffata e da una parte grandemente irritata e, devo dirlo, non sono mai riuscita completamente ad adeguarmi a "la storia ora è un'altra" conservando un effetto straniante generale che mi impedisce di prendere sul serio troppe odierne stronzate.
 Comunque, per puro caso, visto che a furia di mettere donne coi capelli rossi in copertina, qualcuna alla fine ti sfugge, ho letto una decina di giorni fa un articolo su Marina Keegan, giovane promessa della letteratura statunitense, allieva di Harold Bloom, morta a 22 anni in un incidente stradale esattamente cinque giorni dopo della laurea. Alle stampe era stato dato un collage di suoi racconti, alcuni esercizi letterari dell'università, e articoli che pubblicava per il giornale del college ad Harvard, talmente brillanti da averle fruttato non so quanto mille migliaia di mila condivisioni e uno stae al New Yorker che non ha mai fatto in tempo ad iniziare. Titolo: "Il contrario della solitudine".
 Ora, generalmente io diffido sempre di: giovani talenti anglosassoni che sfornano imperdibili raccolte di racconti (le quali raramente si rivelano davvero imperdibili) e scrittori vittime di una qualche tragedia. Penso sempre che l'industria editoriale mi stia fregando battendo il tasto ovvio del caso umano.
 Eppure l'idea che una ragazza di 22 anni con tutta tutta tutta la vita davanti fosse morta così improvvisamente lasciando in sospeso una tale quantità di cose così fantasticamente avviate (tra cui un'opera teatrale di successo), mi tarlava il cervello.
 Non so, il mio sesto senso mi suggeriva con forza che forse, Marina Keegan, non era solo un tragico caso spinto dai media, ma nascondesse davvero qualcosa di prezioso. Ho cercato alcuni suoi articoli su internet e ho scoperto che era anche appassionata di politica e non aveva mancato di scrivere un veemente articolo dal titolo "Non fidarsi è meglio" in cui rimproverava ai suoi coetanei di farsi sedurre con un po' troppa facilità alle sirene della finanza abbandonando i propri sogni precocemente, senza neanche provare a lottare.
 E mi ci sono subito riconosciuta, perché anche io conservo con doverosa stupefacenza il ricordo di quelle ragazze che al secondo anno di università già gallineggiavano dicendo che "Ok, laurea, poi ci si sposa e fine così", oppure ragazzi che ammettevano "Sì mi piace quello che studio, ma tanto se mi va male lavoro con mio padre". 
 Farmacisti con figli stranamente con la vocazione di massa per la farmacia, avvocati con figli che sperano solo di fare avvocati e notai, medici con eredi magicamente attratti solo dall'amato Esculapio e via dicendo. Intendiamoci, nulla di male a seguire le orme familiari, ma quello che la Keegan aveva evinto con numerose interviste era che lo scarto tra il desiderato e ciò che si finiva a fare, si doveva nella maggior parte dei casi, ad una straordinaria voglia di non lottare. Era la strada più facile e meno spaventosa, strada in cui si perdevano migliaia e migliaia di talenti che non avrebbero mai reso davvero migliore il mondo perchè troppo impegnati a far fare soldi a qualcun'altro.
 L'articolo aveva una carica d'energia e di sdegno coinvolgente. Marina scriveva di cose sempre esistite, ma lo faceva con una tale convinzione, con così poco manierismo, che sembrava di leggerle per la prima volta. Mi sono innamorata di lei. Era da un tempo infinito che non leggevo una ventenne che scriveva ciò che ci si aspetterebbe da una ventenne.
 Ho preso perciò il suo libro e ho scoperto che Marina Keegan parla spessissimo del sentimento che si prova quando finisce qualcosa. Si potrebbe dire che è il filo conduttore di tutte le sue storie, diversissime tra loro. Tutti i personaggi sono in bilico cercando di elaborare il conflitto tra una vita che sta finendo e una che sta, spesso contro il loro volere, per iniziare. Talvolta è il doversi fare forza quando, alla morte del tuo fidanzato, scopri che è sempre rimasto innamorato della ex e non sai come accettarlo, né come ricordarlo. Altre volte è rimanere intrappolati per vent'anni nel ricordo del primo amore, idealizzato e irraggiungibile al punto da non far spazio neanche a quello per un figlio
 Nel racconto, secondo me, migliore del libro, "La fossa delle Marianne", un gruppo di ricercatori rimane intrappolato nei fondali di questo inaccessibile luogo, dentro un sottomarino che diventerà anche la loro tomba. Tutti sono terrorizzati, ma, in qualche modo, sentono di doversi preparare a morire. Solo una di loro non può accettarlo in nessuno modo: è Helen, che vuole disperatamente vivere per rivedere l'amore della sua vita e che sarà proprio colei che pagherà il prezzo più alto.
 Nei racconti della Keegan chi non si arrende, non può ricominciare, e questo senso di possibilità, che la percorre e che cita esplicitamente nell'articolo "Il contrario della solitudine" è ciò che intendo quando dico che è una ventenne che scrive come una ventenne. 
 Ha idealismo, speranza, forza, ha ancora quella lucidità che vedo morire in me di anno in anno, la capacità di vedere le cose per quelle che sono, non contaminate dalla stanchezza o dall'amarezza, dalle delusioni o dalla tristezza. Il tutto meravigliosamente incanalato in una potenza nella scrittura che è agghiacciante pensare non vedrà mai un'evoluzione.
 In un certo senso la sua prematura scomparsa rende questo libro ancora, purtroppo, più bello. Generalmente lo scrittore è onnisciente e il lettore no, non lo è né lo sarà mai completamente. In questo caso c'è la curiosa e terribile sensazione che, per una volta, siano i lettori ad essere per sempre più onniscienti dello scrittore.
 Quando Marina Keegan ci racconta del ragazzo innamorato della sua ex morto improvvisamente, il pensiero del lettore corre a lei e lei non potrà mai sapere di questa sfumatura impercettibile, quando scrive nei suoi articoli  "un giorno i miei figli penseranno o vedranno", noi sappiamo che quei figli non esisteranno mai, che il futuro che lei immaginava è scomparso per sempre.
 Ne "La fossa delle Marianne" gli scienziati intrappolati sott'acqua, per pochi secondi, pensano di aver iniziato una prodigiosa risalita: qualcosa splende, perlescente, oltre i vetri del sottomarino.  Ma è solo un'illusione, sono splendide meduse luminose, accorse in massa a formare una sfera di luce.
 Questo unico libro suscita la stessa illusione di tanto in tanto. Accade quando dimentichi che Marina Keegan è scomparsa e non vedi proprio l'ora di leggere di nuovo qualcosa di suo. Poi ricordi.
 Che peccato.

 "La cosa che più mi spaventa non è trovare il lavoro, la città o il compagno giusto, ma l'idea di perdere questa rete che ci circonda. Questo sfuggente, indefinibile contrario della solitudine, la sensazione che provo in questo momento. 
Ma chiariamo una cosa: gli anni migliori della nostra vita non sono dietro di noi. Fanno parte di noi, e sono destinati a ripetersi quando cresceremo, quando ci trasferiremo a New York e ce ne andremo da New York, quando desidereremo vivere o non vivere a New York. A trent'anni vorrò dare delle feste. Vorrò divertirmi quando sarò vecchia. La nozione stessa dei MIGLIORI anni si basa su formule stereotipate del tipo "avrei dovuto...", "avrei voluto...", " se solo avessi...". 
Certo, ci sono cose che vorremmo aver fatto: le nostre letture, quel ragazzo in mensa, Siamo i critici più severi di noi stessi e ci vuol poco a deluderci. Basta dormire troppo. Procrastinare. Prendere scorciatoie. Più di una volta ho pensato a me stessa al liceo e mi sono detta: come facevo? Come riuscivo a impegnarmi tanto? Le nostre insicurezze private ci seguono e ci seguiranno sempre . Il fatto è che siamo tutti così. Nessuna si sveglia quando vorrebbe. Nessuno ha fatto tutte le letture assegnate. Abbiamo questi standard irraggiungibili e probabilmente non saremo mai all'altezza della versione perfetta di noi stessi che fantastichiamo per il futuro.
 Ma non ci vedo niente di male"

mercoledì 6 maggio 2015

"Anime baltiche", una recensione a base di saune, streghe, rivoluzioni bolsceviche, conflitti sociali irrisolti, paesaggi lunari e tragiche morti in diretta tv. Un libro per affacciarsi su un mondo.

 Qualche anno fa, mi capitò di leggere un articolo su una sorta di fenomeno carsico considerato assai magico nella lontana Estonia.
Si trattava del Pozzo della Strega, una specie di fontanamento di acqua sotterranea che le leggende vogliono frutto di una sauna estemporanea di alcune streghe che si ritrovano sottoterra (sì sauna). 
 Correlato a questo simpatico articolo di folklore c'era un dato per me completamene inaspettato: l'Estonia risultava essere uno dei paesi più atei d'Europacol 75% della popolazione che dichiarava di non aderire a nessuna confessione (e quelli che aderivano si dichiaravano adepti, tra gli altri, di una sorta di culto precristiano, il (o la) Taraa).
 Questo dato, almeno per me, stupefacente, si può dire con cognizione di causa che fosse quasi l'unica cosa di cui ero a conoscenza sulle Repubbliche Baltiche. Il resto erano vaghe informazioni sul fatto che erano repubbliche ex-sovietiche e si erano staccate dalla Russia negli anni '90.
 Anche per questa mia indegna ignoranza ho accettato il consiglio di molti miei colleghi di leggere "Anime Baltiche" di Jan Brokken ed. Iperborea, per quanto, come fumettai l'anno scorso, chiedere consiglio da libraio a libraio è sempre una questione spinosa, irta di pericoli e di insidie.
 "Anime baltiche" mi era stato perciò consigliato in modo festante, come un libro indimenticabile. Diciamo che SI -con riserva. Ossia, io lo consiglierei e lo consiglio perché è un libro davvero ben fatto, ma c'è una cosa di fondo che mi ha disturbato.
 Ma andiamo con ordine.
 I PRO (numerosi):
 Come premesso, la mia colpevole ignoranza nei confronti della storia del baltico era un vuoto che andava almeno iniziato a colmare. Ampliare gli orizzonti e conoscere le storie e soprattutto la storia a noi vicine, è ampiamente consigliabile. In questo senso codesto libro riesce nel suo intento.
Foto by me
 La struttura infatti è quella di un diario di viaggio dell'autore a far da cornice ad una serie di piccole biografie di artisti, politici e personaggi di fama mondiale accomunati dal fatto di essere originari delle tre repubbliche.
 C'è lo scrittore Roman Gary, nato Kacew, unico figlio di un padre (che Gary preferì dimenticare) che abbandonò la famiglia quando era bambino e di una donna che fece qualsiasi cosa per garantirne la sopravvivenza.
 Paventando il dramma nazista si trasferì con lui da Vilnius in Francia, sempre sognandogli, nonostante la miseria, un futuro principesco da ambasciatore.
  Non sapevo né dell'assurda sorte scrittoria che gli toccò (il suo libro di maggior successo uscì a nome del nipote per permettergli di partecipare ad un premio, negandogli la gloria) né che fosse una sorta di bugiardo patologico per quel che riguardava la propria biografia, abbellita e infiocchettata con aneddoti falsi ad hoc.
 C'è la tragica storia di Loreta Asanaviciute, l'unica donna, giovanissima e in procinto di sposarsi, tra i 14 civili uccisi durante la difesa della torre della televisione in Lituania dai russi, nel periodo della proclamazione dell'indipendenza delle tre repubbliche a inizio anni '90. La sua morte venne ripresa letteralmente in diretta durante il ricovero disperato in ospedale, quando i medici cercarono di salvarle la vita dopo che una gamba le era finita sotto un cingolato russo.
 Tutta la nazione la sentì dire "Potrò ancora ballare alle mie nozze?" per poi vederla spirare. Un evento che sarebbe devastante e di incredibile impatto emotivo nel nostro mondo iperconnesso, figurarsi nella Lituania del 1991. 
Ho scoperto grazie a questo libro che dopo anni di soprusi, l'indipendenza baltica venne rivendicata nel modo più pacifico possibile con manifestazioni che hanno dell'incredibile, come "La via baltica" quando si formò una catena umana lunga 600 km lungo i confini delle tre repubbliche quale rivendicazione di indipendenza dall'Urss.
 E poi ancora, io assai ignorante in musica, mi sono appassionata alla vita crepuscolare del compositore estone Arto Part, costretto a rifugiarsi in Germania ovest dopo il debutto un po' troppo colmo di doppi sensi politici (stile "Va pensiero" di Verdi, ma rivolto ai russi) di un canto teoricamente religioso. Sono venuta a conoscenza della voglia di rivalsa, quasi ingestibile, dell'artista Rothko, nato in Lettonia, e dell'incapacità di amare di Ejzenstein che rincorse per tutta la vita l'affetto di una madre che lo abbandonò fino a pochi mesi prima della sua morte.
 Senza contare che il libro nasconde la straordinaria capacità di rievocare paesaggi quasi lunari, il buio precoce del nord-Europa, la sterminata campagna silenziosa, le fiorenti capitali prima del nazismo e dell'occupazione sovietica. In genere le descrizioni sono proprio ciò che mi fa detestare la narrativa di viaggio, ma in questo caso sono brevi, non stancanti, usano pochi aggettivi perfettamente evocativi senza dilungarsi su albe, tramonti, pensieri edificanti su paesaggi maestosi o palazzi intarsiati. Pochi accenni forti ed essenziali, adatti a queste terre non barocche.

CONTRO:
 Non so esattamente chi sia Brokken, di certo è olandese. Questa sua olandesità è incredibilmente citata in ogni dove e raggiunge il suo acme nella lunghissima issima issima biografia di un personaggio molto noto in Olanda e assolutamente sconosciuto a noi: Lotti  Von Wrangler, se ho ben capito storica direttrice di una sorta di "Rakam". La sua biografia oltre che decisamente noiosa è anche quella in cui viene fuori il più grosso difetto di questo libro: una lettura della storia poco imparziale e per questo contraddittoria in più punti.
 In una sorta di rivolgimento storico, dopo la proclamazione dell'indipendenza ora sono i russi che  vivono lì da decenni ad essere discriminati e, da quanto si evince, ad avere diritti civili limitati.
Brokken parla molto dell'attuale irrisolto scontro sociale tra i cittadini delle repubblica originari del luogo e i numerosissimi russi che negli anni dell'occupazione si trasferirono a scopo colonizzazione formando una specie di élite, impedendo ai locali di studiare la propria storia e addirittura di parlare la propria lingua.
 Ma Brokken parla anche molto della presenza ebraica nelle tre repubbliche che, prima del nazismo, pare fosse elevatissima. Poi, tra pogrom, deportazioni, distruzioni sistematiche di sinagoghe e conseguenti migrazioni volontarie all'estero o in Palestina, ormai il tasso di ebrei presenti è diventato irrisorio. Soprattutto nelle prime biografie questo dato ebraico è fortissimo.
 Poi ad un certo punto Brokken sembra essersi trovato in difficoltà perché non sapeva decidersi se fondamentalmente erano più cattivi i nazisti o i sovietici. Il risultato è stato che: quando si trattava di ebrei i nazisti erano il male maggiore, ma quando non si trattava di ebrei, ma di sovietici, allora i nazisti erano meno cattivi e lo erano di più i russi.
Nella biografia della direttrice estone-olandese tale lettura della storia a proprio uso e consumo viene fuori in tutta la sua grandezza: Lotti era ricca e nobile in Estonia fino alla rivoluzione bolscevica. A causa anche della conseguente migrazione forzata, i fratelli rimangono fortemente attratti dal nazismo, nonostante l'opposizione del padre. Alla fine Claus, il fratello più amato, si arruola volontario e combatte per molto tempo tra le fila naziste mandando numerose lettere, alcune riportate, in cui non sembra vivere in conflitto con fatto che i nazisti deportavano o pogromavano ebrei.
 L'autore ci dice quindi che tale era l'odio per i sovietici che Claus aveva preferito arruolarsi coi nazisti.
 I conti però non tornano: o i nazisti sono quelli che hanno ammazzato come un cane il padre di Roman Gary o sono i giovani arrabbiati che volevano solo vendicarsi dell'occupazione sovietica. O sono entrambi e allora non si tratta la storia come un romanzo d'appendice, ma col distacco che le è dovuto e permette di non contraddirsi in un'improbabile hit parade della malvagità in cui non esistono sfumature o responsabilità. 

Morale di questa lunga favola: consiglierei questo libro? Yes, ma tenendo ben presente che è una solo la prima finestra per un mondo gigantesco.

martedì 5 maggio 2015

"Quelli che...", divertissement sulle note di Enzo Jannacci per sfogarsi delle frustrazioni librarie di una giornata un pochetto no.

Oggi stavo preparando una recensione, ma in giornata i clienti, forse ispirati dalla primavera che non c'è, sono stati così molesti da ispirarmi questo omaggio a Enzo Jannacci.
 Ero lì davanti alla sezione di psicologia a mettere a posto dei libri dopo che una cliente era stata lievemente maleducata e nella mia mente agitata ha preso forma una frase canticchiata sulla sua celeberrima "Quelli che...".
Cosa non si fa per rimanere zen.
Divertissement notturni, aggiungete pure tutti quelli che volete nei commenti!


Quelli che se non abbiamo il libro che cercano loro, la libreria fa schifo, oh yeah!
Quelli che “Può consigliarmi le ultime novità in materia di psicologia transazionale"? Oh yeah!
Quelli che “Ho un reclamo da sporgere”.
Quelli che vengono a chiederti un libro di cui non sanno nulla e si irritano se neanche tu lo sai, oh yeah!
Quelli che “Signorina io so che questo libro esiste, il titolo e l'autore sono già troppo” oh yeah!
Quelli che voglio un libro con la parola Amore nel titolo oh yeah!
 Quelli che si addormentano sulle poltrone e devi svegliarli all'orario di chiusura oh yeah!
Quelli che non leggono romanzi scritti da donne oh yeah!
Quelli che vengono a vedere se il libro che hanno scritto è esposto, oh yeah!
Quelli che si arrabbiano se il loro libro non è esposto!
Quelli che vomitano in mezzo al negozio, oh yeah!
Quelli che rendono un libro dopo 6 mesi che l'hanno comprato oh yeah!
Quelli che cercano il manuale per un concorso che c'è il giorno dopo, oh yeah!
Quelli che cercano di rimorchiare il libraio.
Quelli che “io non leggo perché non ho tempo” e chattano per tre ore sul treno oh yeah!
Quelli che entrano in libreria solo a Natale e ci tengono a sottolinearlo oh yeah!
Quelli che la vigilia di Natale si presentano con una lista di 40 libri e si arrabbiano se c'è fila al punto info!
E pure alla cassa, oh yeah!
Quelli che limonano addosso agli scaffali!
Quelli, quelli che si sdraiano sul pavimento a leggere come se fossero su un prato, oh yeah!
Quelli che “Signorina posso essere maleducato quanto voglio e lei no, pappapero” oh yeah!
Quelli che Paolo Brosio è un teologo!
Quelli che “Cerco un libro scientifico, può indicarmi la sezione sugli angeli?”, oh yeah!
Quelli che leggono solo quello che consiglia Fabio Fazio, oh yeah!
Quelli che non leggono la saggistica (e non sanno neanche bene cosa sia).
Quelli che “mi serve questo libro fuori commercio da trent'anni per domani”, oh yeah!
Quelli che dicono “Mi sono ridotto all'ultimo per il mio esame, è tra tre ore e il libro mi serve asap”, oh yeah!
Quelli che organizzano i gruppi di lettura, oh yeah!
Quelle che Jane Austen Jane Austen Jane Austen (e mio marito non è mr. Darcy)!
Quelli che leggono solo Fabio Volo.
Quelli che “Twilight” mi ha cambiato la vita, oh yeah!
Quelli che amo il profumo dei libri, li snifferei tutto il giorno, oh yeah!
Quelli che “Signorina le pare il momento di stare al telefono?”, e sei al telefono con un altro cliente, oh yeah!
Quelli che a 39 anni mandano i nonni a cercagli i libri per l'università.
Quelli che “mi dia “La dieta del dottor Mozzi”, oh yeah!
Quelli che se non è casa editrice indipendente non leggo, oh yeah!
Quelli che riescono a distinguere le copertine della Garzanti e i titoli della Newton oh yeah!
Quelli che Hemingway è sopravvalutato!
Quelli che il premio Strega è tutto un magna magna, oh yeah!
Quelli che aspettano il prossimo libro de “Il trono di spade”.
Quelli che “Perché i libri costano così tanto?” e poi hanno la borsa di Gucci oh yeah!
Quelli che ho sentito la recensione alla radio, ma non ho fatto in tempo ad appuntarmi il titolo, oh yeah!
Quelli che leggono i libri della libreria e non ne comprano mai uno che è uno, oh yeah!
Quelli che le librerie e le biblioteche sono la stessa cosa ,oh yeah!
Quelli che vengono in libreria e comprano solo cartoleria oh yeah!
Quelli che “Che bello lavorare in libreria, state sempre a leggere”.
Quelli che vengo a vedere il libro da voi e poi me lo compro su Amazon (e te lo dicono ridendo), oh yeah!
Quelli che non leggono e se ne vantano, oh yeah!
Quelli che “Ho una saga fantasy nel cassetto”.
Quelli che hanno tutta la bibliografia di Papa Francesco, oh yeah!
Quelli che non mancano la presentazione di un libro, dovessero chiedere le ferie a lavoro, oh yeah!
Quelli che entrano per comprare un libro ed escono con dieci, oh yeah!
Quelli che “Signorina è bravissima, come fa a conoscere questo libro?” e quel libro è “Anna Karenina” oh yeah!
Quelli che pensano che i librai possano fornire informazioni su tutte le librerie esistenti in città, oh yeah!
Quelli che non leggono scrittori viventi oh yeah!
Quelli che cercano i libri appena lo scrittore è morto oh yeah!
Quelli, quelli che ti pigliano per la pro loco.
Quelli che cercano i libri in swahili.
Quelli che ne sanno sempre già più di te e ti domandi per quale caspita di motivo vengano a chiederti informazioni, oh yeah!
Quelli li’…(quelli che non mi va nemmeno di prendere in giro)

domenica 3 maggio 2015

Il Nulla che si propaga come una malattia, la perdita di senso e il disperato tentativo di trovarlo, ad ogni costo. Una recensione di "Dio odia il Giappone" di Douglas Coupland.

 Qualche anno fa Sofia Coppola, che, lo confesso, è una regista che mi piace un sacco sacchissimo, vinse il Leone d'Oro con un film che non piacque a molti. Si trattava di "Somewhere". 
Il protagonista di "Somewhere"
Lo ignorai per un po', poi vittima di un qui pro quo con una mia amica (molto semplice: credevo le piacesse mentre le faceva schifo).
 Lo comprai fiduciosa dopo averlo trovato ad una bancarella, ma essa rifiutò il regalo e io lo accantonai in un polveroso angolo. 
 Poco dopo mi trasferii in una cittadina nordica chiusa e bigotta che definire cittadina è anche un complimento.
 Aveva piuttosto le dimensioni e la popolazione di una cittadina combinati con un'estenuante mentalità da paese di 200 abitanti isolato dal mondo su una comunità montana (senza offesa per le comunità montane). Tale era l'ingerenza della locale diocesi che in tutto il centro era quasi impossibile trovare un pub, non parliamo dei locali. Gli abitanti, che di giorno si davano molto da fare lavorativamente a testa bassa, non condividevano che qualcuno potesse farlo dopo le otto di sera. Ragion per cui alle dieci i poveri gestori di pub si ritrovavano con una volante della polizia fuori dalla porta a prescindere dal casino (assai poco) fatto dai loro clienti.
 Il concetto era: che cazzarola devi uscire a fare.
 Inutile dire che in quel periodo mi depressi non poco. Sola, in un posto dove l'accoglienza degli autoctoni era inesistente, cercai in ogni modo di trovare qualche contesto in cui inserirmi, un gruppo di conoscenze, un'associazione, qualsiasi cosa.
 Fallii su tutta la linea e io, che ero sempre stata una persona molto attiva, precipitai in una sorta di limbo in cui mi convinsi che impegnarmi fosse diventato ormai inutile. I miei sforzi precipitavano nel vuoto con una tale ostinazione che smisi di credere che un giorno avrebbero di nuovo avuto un qualche effetto. Mi stupii persino della facilità con cui, fino a poco prima, riuscissi a trovare appassionanti cose che, a posteriori, sembravano sciocche. Persi gran parte delle mie energie e mi ritrovai a far parte di quel gruppo di persone che per lungo tempo avevo compatito: coloro che non si appassionano a nulla e si trascinano insensatamente. In quel periodo vidi molti film e recuperai anche "Somewhere", in cui mi ritrovai moltissimo.
 Riassumo la trama per chi non l'ha visto nè lo vedrà mai: un attore famosissimo vive solo in un albergo, ha amici che non sono veri amici, amori che non sono veri amori e si annoia da morire. Vorrebbe uscire dal senso di noia che ha la sua vita,  ma tutto è ormai insapore.
 Poi, la sua ex moglie lo chiama annunciandogli che deovrà lasciargli per un po' la figlia preadolescente che hanno in comune. Lui oppone una vaga resistenza, ma poi prende con sé la ragazzina e si rivela un buon padre a tempo pieno: la figlia gli riempie le giornate, con lei si diverte e vede il lato luminoso e sensato di un mondo che prima era solo grigio e opaco. Una nuotata in piscina diventa un gioco, una surreale serata ai Telegatti in Italia è doppiamente spassosa e persino una semplice colazione sembra migliore. Poi la ragazzina torna dalla madre e lui ripiomba nel vuoto: Perché tutto quello che fa risulta inutile? Dov'è finita la passione per la vita? La capacità di coglierne il gusto nascosto?
 Mi ricordo che quel film fu una delle pochissime cose che mi fecero sentire compresa, ma dopotutto il senso di vuoto è una cosa tanto difficile da spiegare quanto complicata da descrivere. E' difficile far empatizzare qualcuno con un sentimento che è fondamentalmente composto da una grande solitudine.
 Ed è ciò che attanaglia il protagonista di "Dio odia il Giappone" di Douglas Coupland ed. Isbn. L'avevo preso perché volevo leggere qualcosa ambientato in Giappone e trovavo invitante che nel libro ci fossero molte illustrazioni tanto pop quanto estremamente inquietanti nella loro poppaggine. 
In effetti la storia ha un protagonista giapponese nonostante l'autore americano e attraversa il malessere di una generazione che a fine anni '90 inizio 2000 prese in pieno la bolla economica e la conseguente grossa crisi del Giappone. Hiro ha 17 anni quando nella sua scuola accade una cosa strana: tre compagne di classe conoscono dei missionari mormoni e si convertono. 
 Una addirittura rimane incinta di uno di loro e si sposa trasferendosi in Canada facendo grande sensazione in tutto l'istituto e lasciando perplesso un Hiro che fatica a capire come nella vita si possa prendere una decisione tanto netta. Per lui, adolescente un po' complessato, senza ottimi voti e senza particolari interessi, la vita si presenta come una sorta di deserto emozionale che non sa bene come affrontare.
 Una volta terminato il rassicurante periodo delle superiori che in un qualche modo ti organizza il tempo e le aspirazioni, con l'università iniziano i dolori. Si ritrova a vivere col suo migliore amico in una palazzina disabitata in città, studia una materia scelta a caso e non ha successo con le ragazze.
 Inizia perciò una sorta di fallimentare percorso a ostacoli nel disperato tentativo di incappare nell'illuminazione che gli cambierà la vita: si veste supergriffato attirando finalmente le donne, ma a lavoro risulta un fallimento, si innamora della sorella del suo migliore amico (studente promettente che finisce per fare il barista), ma lei lo ridicolizza. I suoi genitori lo considerano un idiota e sua sorella, un vero modello di virtù consumistica nipponica, si sfoga acquistano solo oggetti Burberry.
  Hiro è fondamentalmente immerso in un crogiolo di destini che non trovano un senso compiuto, ma ciò che lo rende diverso dagli altri è il suo disperato desiderio di trovarlo.
 Dal giorno in cui la sua compagna di classe prese la straordinaria decisione di convertirsi e trasferirsi in Canada con uno straniero, Hiro è convinto che si possa influire potentemente sul corso delle proprie vite, crede che un qualche ardore possa rivestirle di significato.
 Peccato che il mondo non lo aiuti in nessun modo a trovarlo.
 Io generalmente odio i libri su persone che buttano la propria vita in una lamentazione continua, attribuendo le proprie disgrazie ad una serie di sfortunati eventi, alla famiglia, agli amori finiti male o chissà che altro (assai probabilmente perché detesto anche le persone così).
  Ma Hiro non è uno di loro.
 Lui vorrebbe disperatamente essere tra gli altri, quelli che viaggiano non tanto sulla carreggiata giusta, ma almeno su una qualche carreggiata, ma tutto e tutti lo rimbalzano. La cosa ammirevole è che lui si lascia rimbalzare, ma riprova e riprova, instancabile, anche se sa che si farà male, tanto che sublima questo suo malessere in un modo tanto folle quanto simbolico: si lancia contro le vetrine (sì avete letto bene).
 Passano gli anni e qualcosa succede in un Giappone con sempre meno lucidità, sempre più preda del consumismo e dall'arrivismo, popolato da individui che sfogano il loro desiderio di senso in modi completamente psicotici. La mancanza di desideri può diventare una malattia composta da solitudine, noia, voglia di rivalsa e perdita di razionalità, una sorta di composto chimico-emotivo che può avere esiti letteralmente letali.
 "Dio odia il Giappone" non è un romanzo nè d'amore nè da fine del mondo, come dice il sottitolo.
  E' un romanzo che indaga un vuoto senza giudicarlo, perché la perdita di senso è esattamente come il nulla che avvolge Fantasia ne "La storia infinita", può propagarsi ovunque, senza rimedio, come una malattia e nessuno ne è immune. 
Basta smettere di guardare il mondo per un attimo e il mondo smetterà di guardare te.