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lunedì 29 aprile 2019

Buona Pasqua (in straritardo)!!

Ehm pardon a tutti, non sono sparita, sono solo andata in vacanza per una decina di giorni.
Credetemi quando dico che ne necessitavo come mai da anni. Ero talmente stanca da aver dimenticato di preparare una vignetta di auguri.
Chi mi segue su fb o instagram sa che ho postato la seguente vignetta riparatrice prodotta estemporaneamente.


 Dopo Pasqua mi sono poi involata in Grecia, ad Atene, dove devo dire, mi sono riposata bene, ho dormito come non riuscivo da settimane e ho assistito alla Pasqua ortodossa involontariamente (nel senso che ignoravamo fosse in questi giorni prima di essere travolte dai festeggiamenti). 

Farò in settimana un fumetto resoconto delle mie avventure greche e mi auguro vivamente che i prossimi mesi siano più rilassati, tranquilli, felici e pieno di post.

Ah, ovviamente ho letto anche un bel po'! Sono stata fortunata perché sono incappata solo in bei libri, in particolare in un biopic straordinario: "Vita segreta della bambola solitaria" di Jean Nathan ed. E/O, di cui scriverò il post il prima possibile. Bellissimo-issimo-issimo.





domenica 14 aprile 2019

Piccole recensioni tra amici! Tra gialli malriusciti e emigrazione italiana anni '60: "Oltre l'inverno" di Isabel Allende e "Il figlio prediletto" di Angela Nanetti

Mentre vedo le prime vacanze dai tempi del viaggio di nozze avvicinarsi finalmente col cuore in tumulto (penso di non essere così stanca da secoli e la mia cervicale non mi dà nessuna tregua sigh), finalmente ecco a voi qualche nuova recensione di libri letti nei mesi scorsi.

 Sono stati mesi di letture tra alterne vicende: alcune molto gustose (tipo "Dracula e io" di Morozzi, il prossimo che vorrei recensire bene) altre passabili, altre proprio no (una è in questo post).


Bando alle ciance! E buoni spunti di lettura e non lettura!





OLTRE L'INVERNO di Isabel Allende ed. Feltrinelli:

Come tutti coloro che seguono la Allende (anche non spasmodicamente, tipo me) sanno, è solita iniziare tutti i suoi nuovi romanzi l'otto di gennaio, data in cui iniziò il famoso "La casa degli spiriti".

 E' un bel gesto scaramantico e, volendo, anche un buon metodo di autodisciplina per uno scrittore, ma si potrebbe anche aggiungere che non sempre le idee venute a furia di spremersi le meningi (come ammesso dalla stessa Allende nei ringraziamenti), si rivelano poi buone idee.

"Oltre l'inverno" è uno strano papocchio di tante idee mescolate in modo poco organico, spacciato inopinatamente per thriller e un finale assolutorio e surreale che definirei imbarazzante.

 Il libro che, specifico, non è scritto male (la Allende sa sempre il fatto suo), inizia durante una terribile bufera natalizia che si abbatte su NY causando vari disastri tra i quali l'accidentale tamponamento tra un ipocondriaco professore universitario, Richard, e un'immigrata irregolare del Nicaragua, Evelyn.

 Qualche ora dopo, Evelyn si presenta a casa di Richard perché non può tornare a casa: l'incidente ha danneggiato la macchina aprendone il cofano posteriore e, a quanto sembra, dentro c'è un cadavere.
 La macchina appartiene ai suoi datori di lavoro, un ex campionessa di nuoto ora depressa e in preda ai farmaci e all'alcol e al marito, un violento tizio con qualche losco affare in ballo.
 In tutto ciò, nella taverna di Richard vive una sessantenne cilena dall'incontenibile vitalità che vorrebbe tanto portarselo a letto nonostante lui la privi del riscaldamento.

 La storia è raccontata dai tre diversi punti di vista e in verità ignora il giallo fino all'improbabile finale, concentrandosi invece sul passato dei tre protagonisti.

 La parte migliore è quella dedicata ad Evelyn, probabilmente perché è l'unica che ha un'idea di fondo: lasciata assieme ai suoi fratelli maggiori in Nicaragua dalla madre emigrata negli Usa (sta storia che gli Usa non hanno il ricongiungimento familiare è assurda, ma non la più assurda del loro assurdo sistema), vive in povertà, ma serenamente assieme alla nonna finché il fratello maggiore non si unisce a una violentissima banda.

 Da quel momento in poi ci saranno tragedie a catena intrecciate al dramma dei migranti che dal Sudamerica cercano di attraversare il confine per agguantare il sogno americano.

 Gli altri due personaggi, la professoressa cilena Lucia e Richard, professore americano, sono piuttosto piatti.

 La prima con la solita storia che affonda le origini nella dittatura per poi virare verso una sorta di dramma amoroso di mezz'età, il secondo con una storia fatta da stereotipi sul Brasile e tragedie a catena che a un certo punto l'idea di fare un pellegrinaggio a Lourdes diventa l'opzione più sensata.

 Stendo un velo pietoso sul modo in cui la storia del famoso cadavere nel cofano procede: neanche in un libro per tredicenni ci si permetterebbe una faciloneria simile, con tanto di assoluzione morale a destra e a manca sul finale.
 Sconsigliato. Mi spiace Isabel, sarà per un'altra volta.


IL FIGLIO PREDILETTO di Angela Nanetti ed. Neri Pozza:

 Candidato allo Strega dell'anno scorso, avevo quel dubbio perenne del "lo leggo o no" causato sempre dai miei conflitti di gusto: è una storia lgbt e racconta anche della Londra degli anni '60 vs oddio l'ennesima storia del sud deprimente e reprimente da cui una coraggiosa donna scappa.

 Trovato all'usato, ho potuto fugare tutti i miei dubbi.

 La storia ha un che di originale, ambientata in un periodo che ci piace dimenticare: quando i migranti interni europei che arrivavano, poveri e con una mentalità retrograda, in nazioni avanti anni luce, eravamo noi.

 Il racconto scorre su due binari paralleli: da una parte la storia di Nunzio Lo Cascio ambientata negli anni sessanta tra la Calabria e Londra, la seconda, quella di Annina, sua nipote, una ventina di anni dopo (mentre la prima è più contestualizzata, la seconda è connotata in un presente vago).

 Tra le due, la storia di Nunzio è quella più riuscita, più originale, più struggente e più sentita anche dall'autrice (almeno così mi è sembrato da lettrice), la seconda, forse anche per il finale un po' boh, ha meno tensione e sembra, a un certo punto, mettere troppa carne al fuoco assolutamente non necessaria all'economia della trama.

 La parte dedicata a Nunzio però vale interamente il libro. 

 Ragazzo, s'innamora, ricambiato, di un suo compagno della squadra di calcio. Sono felici, poi un giorno arrivano i fratelli, affiliati di una cosca locale, e per lavare l'onta gli ammazzano il compagno come un cane, in mezzo alla campagna, e lo spediscono a Londra a sparire.

 Nunzio arriva in Inghilterra, traumatizzato e sconvolto.

 Inizia a giocare a calcio, ma un infortunio lo costringe a cambiare rotta e diventa cameriere in un ristorante italiano. Per anni vive in Inghilterra, ma è come se non ci vivesse.
 Impara la lingua male, non conosce nessuno, non riesce ad affrontare dentro di sé la tragedia che gli è accaduta.
Sul tema e per ricordarci "Come eravamo" ASSOLUTAMENTE
da vedere "La ragazza con la pistola" se ancora non lo avete fatto

 Poi un giorno decide di iscriversi ad un corso di lingua e conosce un giovane professore di origini nobili e dalle idee marxiste.

 Non è amore, ma è amicizia, un'amicizia che salva dal baratro della solitudine e accompagna verso una vita nuova e ricca che però...che però non posso raccontarvi perché il libro va assolutamente letto.

 La parte dedicata alla nipote Annina è meno forte forse perché assai rivista: unica figlia, per giunta femmina, per giunta bellissima, di un fratello di Nunzio, assurto alla gloria di piccolo boss locale, vive una vita da reclusa che manco all'oratorio può mettere piede perché maschi e femmine giocano insieme.

 Scopre l'amore per il teatro e il ballo, ma le ali vengono tarpate seduta stante perché l'idea è farne una giovane sposa d' 'ndrangheta appena compiuti diciotto anni.

 Anche lei dovrà fuggire a Londra, sulle tracce dello zio Nunzio di cui nessuno, misteriosamente vuole mai parlare dai tempi in cui tornò in una cassa da morto dalla terra d'Albione.

 Ripeto, se la storia si fosse concentrata solo su Nunzio, a mio parere, ne avrebbe guadagnato. C'erano molte più cose da sapere, legami da indagare, solitudini da raccontare, ma il libro, a parte il finale, funziona anche così.
Superconsigliato!

giovedì 11 aprile 2019

Gli anime sono finalmente una cosa seria! Intervista a Enrico Cantino sui suoi saggi sul fantastico mondo degli anime giapponesi della nostra infanzia!


 Un paio di anni fa circa, in libreria, mi sono imbattuta per caso in una serie di piccoli saggi dedicati al mondo degli anime giapponesi

 Mi colpirono molto perché era il genere di libri che sognavo di leggere da adolescente quando mia madre mi buttava i manga e mi impediva di vedere Ranma perché "poteva confondermi le idee" (poi si è redenta, madre non prendertela se leggi questo post).

 Immagino che molti altri attualmente trentenni abbiano covato questo desiderio di veder trattata la propria passione per manga e anime come una cosa seria, degna di saggistica seria con cui poter approfondire tutte le cose (molte) che ci sfuggivano totalmente quando ingurgitavamo ore di cartoni animati giapponesi.

 I nostri genitori vedevano combattimenti e ragazzette dalle gonne corte prefigurando per noi immani traumi infantili, noi vedevamo solo un mondo simile al nostro eppure lontanissimo. 

 Nomi che Mediaset si premurava di tradurre, ma neanche sempre (mi rimane ancora impresso che nel bel mezzo di un fiorire di Tinette e Sabrine in "E' quasi magia Johnny", la cugina continuava a chiamarsi Akane, così de botto senza senso), cibi ignoti, robottoni, un'etica del sacrificio per noi incomprensibile, gente che a 18 anni ancora non trovava il coraggio di guardare in faccia la ragazza che le piaceva, matrimoni combinati, dojo, arti marziali.

 Era come guardare cartoni animati di fantascienza, solo che quella era la vita vera di qualcuno dall'altro capo del pianeta su cui avremmo voluto saperne molto di più!

 Perciò i saggi di Enrico Cantino, piccoli, agilissimi ed economicissimi volumetti editi da Mimesis sono un sogno che dopo tanti anni si avvera e sono molto felice di avergli fatto questa intervista!

Grazie ancora per avermi risposto e per il tempo dedicato, e che si possa mangiare un onigiri insieme prima o poi!!



Ciao Enrico, ti ho scoperto per caso in libreria e sono rimasta folgorata dai tuoi piccoli saggi, quelli che ogni persona cresciuta a onigiri, anpan e cartoni giapponesi vorrebbe leggere.
Com'è nata l'idea?

In realtà l'idea è venuta ai miei amici, non a me. 

 Mi dicevano: perché non scrivi un libro sui cartoni giapponesi, visto che ne sai un sacco? E io mi sono lasciato convincere. 

All'inizio pensavo – ingenuamente – di poterlo scrivere in soli sei mesi. 

Invece ho impiegato quattro anni. Perché mi sono reso conto di una verità fondamentale: per poter parlare dei cartoni animati giapponesi bisogna conoscere la cultura che li ha prodotti. 

Allora ho iniziato una “immersione folle” nel Sol Levante, documentandomi su sistema scolastico, condizione delle donne, Shintoismo, Buddhismo, Taoismo, Bushidō e chi più ne ha, ne metta.
 Il risultato è stato un corposo saggio sulle tecniche narrative degli anime giapponesi degli anni Settanta-Novanta, suddivisi per argomenti: guerrieri, robottoni, sportivi, eroine e coppie.


Si pensa comunemente che gli anime facciano parte di una sorta di sottocultura e raramente li si include nella “cultura alta” invece tu sei stato pubblicato da Mimesis, editore molto autorevole nel campo della saggistica. È stato difficile per te trovare un editore? Com'è nata la vostra collaborazione?


Trovare un editore è stato più semplice di quanto sperassi. 

Nel 2012 sono andato con un gruppo di amici al Salone del Libro di Torino. Fra gli stand ho notato proprio quello della Mimesis, perché nel loro catalogo erano presenti diverse pubblicazioni riguardanti la cultura giapponese. 

 Dopo il Salone li ho contattati tramite mail, spiegando che avevo scritto questo saggio sulle tecniche narrative dei cartoni animati giapponesi. Nel giro di una settimana ho ricevuto una risposta dal vicedirettore della casa editrice. 

Ci siamo sentiti per telefono e ci siamo accordati in questo senso: avrebbero pubblicato, come esperimento, due capitoli del mio libro (quelli dedicati a robottoni e guerrieri) come fossero volumi a sé stanti (con tutto quel che ne consegue: tagli, adattamenti e quant'altro). L'esperimento è andato bene. E i libri da due sono diventati sei.


Com'è nata la tua passione per gli anime? Ce n'è qualcuno che ti ha segnato particolarmente?

Qui è necessaria una premessa. Io sono del 1965. Di conseguenza ho 53 anni. Ho sempre amato i cartoni animati. Guardavo quelli trasmessi dalla Rai, quando la Rai aveva soltanto due canali (quindi andiamo indietro e mica poco). 

Gli anime mi hanno colpito fin dal loro primo apparire sugli schermi televisivi nostrani, perché completamente diversi da quelli – cecoslovacchi, ungheresi, americani, francesi, ecc. – cui ero abituato fino a quel momento. Hanno letteralmente ammaliato la mia fantasia, che non ha più potuto farne a meno. 

Diciamo che in generale qualche cambiamento su di me lo hanno operato, così come i libri che ho letto in tutti questi anni.


Quali sono i tuoi anime preferiti in assoluto e cosa ti sentiresti di consigliare al momento?


Ah, gli anime che preferisco in assoluto sono quelli robotici (con Goldrake – Grendizer per i puristi – in testa), quelli fantascientifici (Capitan Harlock su tutti) e quelli guerrieri (Polymar, Kyashan, i Cavalieri dello Zodiaco…). 

Però ho guardato veramente di tutto. Anche serie francamente imbarazzanti, come quella dedicata a Ippotommaso… 

I cartoni animati odierni mi piacciono meno: li trovo molto cerebrali e contorti. E poi durano un'eternità. Io consiglierei, soprattutto ai ragazzi, gli anime che andavano per la maggiore quando ero ragazzo (li stanno anche ripubblicando tutti in DVD). 

Disegni e animazioni non erano impeccabili, ma le storie ti prendevano tantissimo. Per lo meno, prendevano me.


Potresti dire qualche parola su ognuno dei volumetti che hai pubblicato?


Troppe sarebbero le cose da dire, ma proverò a essere acrilico.

 Quello cui tengo di più è Da Goldrake a Supercar Gattiger
 Ed è anche quello che mi ha fatto soffrire maggiormente. Perché il capitolo da cui è tratto conta più di sessanta cartelle in Word. Quindi sono stato costretto a operare molte dolorosissime esclusioni. Però ho salvato almeno due robottoni (i più importanti e conosciuti) per ciascuna categoria. 

 Da Kenshiro a Sasuke ha comportato esclusioni meno dolorose, ma anche lui mi ha fatto sanguinare un po' il cuore. 

 Da Mimì Ayuhara a Oliver Hutton è circoscritto agli sport di gruppo, perché mi ha permesso di sviluppare il concetto di squadra, fondamentale nelle serie robotiche e non solo. 

 Da Lamù a Kiss me Licia è il più breve, credo. Perché in effetti le serie sentimentali sono quelle che ho seguito meno in assoluto. 

Da Heidi e Lady Oscar riguarda gli shojo, cioè gli anime che hanno per protagonisti delle fanciulle. Dall'Incantevole Creamy a Pollon è incentrato su una particolare categoria di shojo: i majokko. In sostanza, si parla delle maghette (o streghette).

Vi ho incluso Pollon, anche se è un'aspirante dea, perché dall'episodio numero 23 la Dea delle Dee dona alla protagonista il Miracolo Bonbon, un fermaglio a forma di farfalla che le conferisce poteri magici. Li amo tutti, comunque. Perché li ho fatti io. E contengono una parte di me.

Hai in progetto di scriverne altri?

Per adesso, no. Più avanti, chissà.


Nei tuoi libri parli anche dell'aspetto sociale raccontato in alcuni manga, come i rapporti di coppia che, come ben sappiamo, sono lontani dalle regole occidentali e un po' frustranti ai nostri occhi, quando proprio non assurdi. 

Pensi che gli anime abbiano influito anche dal punto di vista sociale sui rapporti delle persone che sono cresciute guardandoli assiduamente?


 Guarda, io non sono un sociologo e non mi intendo di dinamiche sociali. 

 Però posso dirti cosa ho notato. Fino all'avvento degli anime, noi non sapevamo praticamente nulla del Giappone.
 Ci hanno permesso di accostarci a una cultura profondamente diversa dalla nostra.

 A me sembra, comunque, che abbiano esercitato una certa influenza sul cinema e sull'animazione occidentali, i quali ne hanno mutuato tecniche registiche (inquadrature, effetti speciali…) e narrative (sottotrame, colpi di scena…). E poi parliamoci chiaro: senza le streghette nipponiche, la saga italiana delle Winx non sarebbe mai nata…


Gli anime giapponesi restituiscono protagoniste femminili di tutto rispetto, Lady Oscar su tutte, impavide, indipendenti, piene d'inventiva.
 Per contro, la società giapponese rimane molto conservatrice per quel che riguarda i ruoli di genere. 
Come spieghi questa dicotomia?

È vero: le eroine degli anime sono ben diverse dalle donne giapponesi, che ci sono state dipinte come remissive e sottomesse (anche se economia e casa le mandano avanti loro). Io posso solo formulare due ipotesi. 

 La prima è che molti shojo sono ambientati in Occidente. Quindi ha abbastanza senso che le loro protagoniste abbiano caratteristiche occidentali. La seconda è che forse, gli shojo, essendo ideati da donne, potrebbero anche esprimere l'aspirazione delle donne giapponesi a una maggiore indipendenza e intraprendenza. Ma le mie, ripeto, sono solo ipotesi. E come tali, confutabilissime.

Grazie mille a Enrico!!


sabato 6 aprile 2019

La scrittrice, il ragazzo e il grande equivoco. Una riflessione sull'insensato intervento di Elena Stancanelli a proposito di Simone di Torre Maura

 In occasione della mia comunione, implorai un amico di una delle mie zie di non regalarmi il solito monile d'oro che mai avrei messo (per mai intendo che non li metterò proprio mai) o qualche altro ammenicolo perfettamente inutile alla vita di una undicenne media.

 A lui chiesi, se proprio doveva spendere dei soldi, dei fumetti di Mafalda.

 Fui esaudita. Mi regalò un'opera omnia di Mafalda che tuttora posseggo semidistrutta e rabberciata con scotch e che lessi ardentemente per anni. 

 Mi rivedevo molto in Mafalda, un po' per il carattere, un po', soprattutto, per il fisico: ero anche io bassa, non una silfide e avevo una massa di capelli che detestavo con tutte le mie forze (e infatti a 16 anni mi sono rasata a zero).   Avevo persino un amico identico a Felipe nel corpo e nello spirito: secco, denti di fuori, pauroso pure della propria ombra.

 Non afferravo tutto quello che diceva, devo dire che particolarmente oscuro mi era il personaggio di Libertà e anche Miguelito non lo capivo del tutto.

 Detestavo cordialmente Susanita, l'amichetta perfettina di Mafalda la cui aspirazione principale era un giorno sposarsi, avere dei bebè e diventare ricca. 

 Mi ricordo che però proprio lei mi diede una grandissima lezione di vita.

 C'era una striscia in cui Susanita diceva di voler organizzare, una volta grande, una festa di quelle a cui sarebbero andate tutti i ricchi mangiando robe raffinate (vado a spanne) per raccogliere soldi con i quali avrebbero potuto comprare farina e altre robe proletarie ai poveri.

Me l'hanno chiesta in molti, quindi ho vinto la pigrizia e ho ritrovato la striscia sul mio "Tutta Mafalda"











La domanda sorgeva spontanea: per quale motivo i ricchi non avrebbero dovuto donare direttamente quei soldi ai poveri? Perché buttare denaro in cene che venivano più della donazione?

 Poi capii che i poveri erano parte dell'intrattenimento di una certa parte dell'umanità.

 La striscia mi è venuta in mente a proposito della polemica della scrittrice Elena Stancanelli a proposito del coraggioso ragazzino di Torre Maura, Simone.

  Il quindicenne, come ormai sanno anche i sassi, invece di stare zitto a testa bassa è andato a chiedere a un gruppo di fasci di Casapound che stavano aizzando una cagnara allucinante contro un gruppo di Rom, con tanto di razioni di cibo calpestate e via discorrendo, il motivo di tanto odio.

 In quattro battute ha rimesso a posto un tizio grande e grosso di cinquanta e passa anni e i suoi amichetti (che si sa, il fascio è talmente coraggioso che senza almeno dieci amichetti non si muove).

 La scrittrice Elena Stancanelli ha notato quello che proprio non sembrava il primissimo dettaglio di tutta la questione: il ragazzo parlava in dialetto.


 Le risposte a tale riflessione sarebbero molte:

1) Perché dovrebbe farci impressione? Io personalmente parlo ovviamente un italiano corretto, ma so parlare anche dialetto e anzi, ci parlo più che volentieri.
  Inoltre come credo capiti a molti, più sono nervosa, stanca o arrabbiata più parlo dialetto, inoltre mi regolo pure a seconda del contesto: a lavoro a Milano parlo italiano, a Bracciano con le mie sorelle parlo braccianese (che posso assicurarvi è abbastanza identico al romano), se litigo con qualcuno a Bracciano o a Milano ci sono buone possibilità che parli dialetto in entrambi i casi.
 Immagino ci siano millemila studi linguistici su questo doppio registro, ma io ho abbandonato il corso di dialettologia (non sto scherzando, avevo iniziato a seguirlo davvero) alla terza lezione e non li so. 
Questo ci porta però alla seconda domanda.

2) Come sappiamo che Simone non sa l'italiano? 
 Come ce doveva parlà Simone con dei fasci durante uno sgombero a Torre Maura? In fiorentino antico? Con l'eloquio forbito riservato alla gran soirè del premio Nobel? Cioè, non è difficile comprendere che si cambia registro linguistico a seconda dell'interlocutore.

3) La pezza COME SEMPRE è stata peggio del buco. 
Poiché la Stancanelli è stata attaccata su questa minuscola gaffe, ha risposto dicendo che "Ma quale piedistallo, ma quale spocchia, cosa c’entro io? Non lo capite che quel ragazzo verrà schiacciato dal mondo se non trova parole vere, comprensibili fuori dal suo quartiere? La spocchia è di chi crede che l’ignoranza sia fica, potente, gagliarda"

Ve lo giuro ha risposto così.
Tipo che Susanita si è materializzata davanti ai miei occhi chiedendomi se volevo essere invitata al Gran Ballo della Rosa.
Sostanzialmente siamo nel campo vittoriano del giovane di periferia, di istruzione bassa, incapace di esprimersi in un modo non barbaro ergo ignorante (il dialetto in fondo chi lo parla? Solo quelli che non hanno studiato, no?).
Una sorta di fantasia che certe volte per carità corrisponde a realtà, ma non in modo sillogistico: può capitare che corrisponda, come può capitare sia un incredibile abbaglio.

Non avendo noi altra informazione su Simone mi pare sia azzardato prefigurargli un futuro di povertà solo perché ha risposto in romanesco a un fascio.

Il nesso logico con la spocchia dell'ignoranza fica però denota, a mio avviso, la vera chiave di lettura di questa polemica delirante.

Mi piace provare a pensare che la Stancanelli abbia preso una cantonata mostruosa dettata dalla serie di nevrotici eventi che hanno portato la cultura in Italia ad essere additata come la radice di ogni male.

Ho perso il conto delle volte in cui ho litigato con ggggente che mi additava quale radical chic perché avevo una laurea o perché osavo scrivere in italiano commenti su fb.

Litigate che io placo sempre con:

1) La laurea me la sono pagata lavorando.

2) Mi dai della radical chic solo previa visione del CUD perché mi sono sfrangiata le ovaie di sentirmi dire che non capisco i problemi della genteblablabla perché sono ricca blablabla. Prego confrontiamo i CUD poi ne parliamo.

3) Mia nonna ha la quinta elementare scrive un italiano perfetto, quindi se tu non sei in grado il problema non è della società crudele, ma di te che non hai seguito cristianamente le scuole dell'obbligo (poi possiamo parlare della qualità della scuola in Italia, come possiamo anche parlare della voglia di impegnarsi individualmente verso piccoli traguardi personali raggiunta l'età della ragione).

Quindi voglio immaginare la Stancanelli in una specie di trappola mortale in cui si vede accerchiata in un mondo in bianco e nero in cui se parli dialetto sei un ignorante che va fiero della sua ignoranza e grida morte ai radical chic.

C'è da dire che se la prima cosa che ti viene in mente guardando il video di Simone è "Parbleu! Codesto giovine non favella gagliardo nell'italico idioma!", un problema c'è.
E si chiama problema di comunicazione/percezione della realtà che rende l'effetto Susanita lampante.

Vedi qualcosa che succede nelle periferie romane e pensi che il problema sia per forza e comunque la cultura e la mancanza di essa e non il fatto che OGGETTIVAMENTE si possa campare male.
Certo, il motivo è anche quello, e portare la cultura, come ho letto che la Stancanelli fa in prima persona con l'associazione "piccoli maestri" è importante, ma ci sono altre cose che sono importanti: è importante dare l'idea alle persone che non sono sole, non sono abbandonate a loro stesse, che magari se crei qualche involontario esperimento sociale devi farlo in modo sensato e soprattutto seguito e strutturato, non "vabbeh poi ci pensiamo", che è necessario far passare l'idea che la cultura è importante perché serve a qualcosa.

Sembra una bestemmia ma qualcuno deve dirla: non basta dire "la cultura è importante" perché la gente la percepisca come tale.

Non basta neanche portare esempi logici sul fatto che "se studi, migliorerai la tua vita" perché diciamocelo non è più vero.

L'ascensore sociale è bloccato, studi, ma poi a meno che tu non sia un genietto (e non possiamo confidare nel fatto che tutti abbiano l'intelletto superiore per essere ammessi con borsa di studio a Cambridge), andare avanti è esponenzialmente difficile.
Se vieni da una famiglia in cui non si legge e in cui nessuno ha studiato, farti venire l'idea di fare l'una o l'altra cosa è assai difficile e se non hai un buon motivo per interessarti beh, arrivederci e grazie.

C'è stato un momento, evidentemente, in cui la cultura ha smesso di essere comunicativa: non solo non riesce a raccontare bene la società, ma non riesce proprio a entusiasmarla.

Non è più neanche una questione di cultura alta e cultura bassa, è proprio una questione che la cultura per come è comunicata e vissuta al momento è una questione per pochi intimi o per iniziative in stile Susanita.

Bene, che ci siano, ma non sono quelle che, a piccolissimi passi cambieranno giganteschi problemi (li miglioreranno e faranno molto, ma non sono la soluzione, sono un analgesico).

Il tweet della Stancanelli sembrano dimostrare in toto la teoria: un mondo alto che vive una sorta di assedio da parte del mondo basso. "Ci vogliono far diventare come loro mentre loro devono diventare come noi!"

Grazie tante, non credo che nessuno di loro sia così stupido da non desiderarla una vita migliore, ma quando quella vita ti appare irraggiungibile allora ti dici che dopotutto ti fa schifo e non la vuoi veramente.

Il punto è fare in modo che sia di nuovo raggiungibile, dare una speranza che tutto ciò possa succedere.

La cultura non può risolvere questo problema, non ce n'è. L'idea che basti una laurea per avere una vita migliore è letteralmente trapassata. Ci sono tanti di quei mestieri che uno vorrebbe fare, ma poi anche se ti laurei o passi anni e anni a fare stage, lavoretti, tirocini, stage, contrattini mentre qualcuno ti mantiene, oppure rinunci e il lavoro va a chi sta meglio di te e può stringere la cinghia quella decina di anni mantenuto da qualcuno.

Oh, non è la regola eh, io stessa ne sono la dimostrazione e non è manco una scusa per non alzare una paglia perché "Tanto è tutto inutile" (certo che a non fare niente non solo non si sbaglia, ma manco succede niente).
Ma io so che l'eccezione non può essere presa quale esempio e chi lo fa è in malafede.

Quello che la cultura (parlo della Cultura con la C maiuscola, quella che crea e forgia l'immaginario popolare) può fare però è tanto ed è un'altra cosa: la cultura può e DEVE entusiasmare.

Non parlo dell'entusiasmo alla Gardaland fine a sé stesso, parlo dell'entusiasmo fattivo: quello che ti fa bruciare le mani dalla voglia di tentare, di sperare, quello che per ora, a quanto sembra, hanno conservato, per pietà dell'età i quindicenni.

Deve farti venire la voglia di farci qualcosa a Torre Maura, deve farti fare il click che ti porta a capire che se ci metti tre cazzarola di ore ad andare a lavoro il problema non sono i rom e forse manco l'atac, il problema è che forse una città come Roma va ripensata alla base e TU puoi ripensarla (la mia personale idea, ad esempio, è che una città non può essere grossa come un quarto di regione, c'è proprio qualcosa che non può funzionare mai).

Deve farti venire la voglia di avere una passione, una qualunque, deve farti sentire una parte di un qualcosa, deve salvarti dalla solitudine e dalla miseria del quotidiano, e dall'idea che l'unica cosa che tu possa fare di concreto per sfuggirle sia prendertela con qualcuno che sta messo esattamente come te e che, in qualsiasi caso, non c'entra NIENTE con la specifica questione.

Deve farti tornare la voglia di passare le serate come nel finale di "C'eravamo tanto amati", quando dopo una lunga giornata di lavoro si piantonava per un posto all'asilo nido TUTTI insieme e non si elemosinava frignando qualche concessione.
Tutti sono sempre stati stanchi, non è che prima non si lavorava, la differenza è che prima si teneva conto che combattere per una vita migliore poteva far parte della giornata come tutto il resto.

Ecco, se la cultura riuscisse a far passare questo piccolo messaggio, magari avremmo meno incaxxature random facilmente manipolabili e meno gente che si dedica a problemi inesistenti mentre la vita gli passa davanti.
Comunque, per la cronaca, pare che Simone poi se ne sia andato a Romics e anche questo particolare, alla luce della discussione sulla cultura alta, immaginario e pregiudizi, potrebbe insegnare tanto a molti.

mercoledì 3 aprile 2019

Svanire, annegare, forse sognare. "Tutto chiuso tranne il cielo" di Eleonora Caruso un romanzo sui grandi pesi che certe volte la vita adulta toglie e non aggiunge.

Circa un anno fa è uscito un libro abbastanza insolito per il panorama editoriale italiano: "Le ferite originale" di Eleonora Caruso.

 Era insolito per tanti motivi, dal modo in cui era scritto alla rara volontà (rara per gran parte della narrativa italiana non di genere) di uscire dai soliti rassicuranti schemi editoriali fatti di libri molto costruiti che ormai sembrano seguire una sorta di ricetta: una spolverata di amica geniale, un pizzico di Volo, un po' di pepe alla cinquanta sfumature, un filo di malinconia anni '80, qualche lamentatio generazionale o sui genitori che ci sta sempre bene, passati fatti da traumi che sono traumissimi gravi o robette da niente che ti chiedi sta gente dove ha vissuto se ancora si ricorda del giorno in cui un cugino gli ha strappato il braccio al bambolotto preferito.

 Ma comunque.

 "Le ferite originali" raccontava di uno splendido modello bisessuale e bipolare e della sua vita completamente frammentata a confusa.
I suoi tre amanti, Dafne la fidanzata storica, Dante il bel quarantenne solido e dal sangue freddo e Davide, sexy dottorando in materie scientifiche che non sa di essere sexy, ruotavano attorno alla sua disperazione con una certa inquietudine, incerti se farsi catturare e distruggere o dar retta all'istinto di conservazione.

 Tra le cose insolite c'era anche l'inedito prevalere dell'istinto di conservazione, materia da sempre rara nei romanzi che amano invece passioni assolute e distruttive.

 Cristian che a fatica e quasi mai con successo tiene assieme i suoi pezzi impazziti, fa molto sesso.
 Lo fa per calmarsi, lo fa per calmare, lo fa perché lo pagano, perché gli piace, perché non percepisce più il sesso come una parte di un tutto, ma come il tutto.
 La chiamano la trappola della sineddoche, quando prendi una parte per significare il tutto, ed è quello che diventa il sesso per lui, una gigantesca trappola che imprigiona tutti, o quasi, coloro che finiscono nel suo raggio d'azione.

 Non sfugge a questo incantesimo neanche il suo unico fratello, Julian, etereo diciassettenne che avrebbe già parecchi problemi di suo senza un ingombrante e debordante fratello a peggiorare drasticamente la situazione.

 Questo secondo libro, "Tutto chiuso tranne il cielo", è dedicato proprio a lui.

 Lo ammetto, nel primo libro non era un personaggio che mi avesse colpito particolarmente.
 Sapendo che ci sarebbero stati altri libri con protagonisti personaggi apparsi nel primo romanzo, avevo sperato, come molti, che la Caruso si sarebbe concentrata su Dante o Davide, invece ecco Julian, fratellino minore la cui principale preoccupazione nella vita è scomparire (cosa che narrativamente gli era riuscita benissimo visto che ricordavo poco o niente delle sue apparizioni ne "Le ferite originali").
 La storia inizia più o meno un anno dopo il libro precedente. 

 Julian è stato un anno a Tokyo dove, oltre a imparare la lingua, ha appreso la straordinaria arte di scomparire completamente in una grande città.

 E' una cosa che soffrono molto tante persone quando, per ragioni di studio o lavoro, se ne vanno da paesi o cittadine piccolissime per approdare in megalopoli più o meno mega: nella grande città non sei nessuno, non sei importante (quasi) per nessuno, nessuno ti conosce e, tendenzialmente, è interessato a farlo. Sei solo in mezzo a milioni di persone che se la passano quasi come te.

 Ad alcuni questa cosa fa impazzire, ad altri piace da morire. Julian fa parte della seconda categoria visto che ha passato una vita a cercare di fondersi col paesaggio nel tentativo disperato di diventare il collante trasparente della sua dissennata famiglia.

 Eppur c'è della vita in quel suo esilissimo corpo che non nutre quasi mai, impegnato a trascinarsi in giro fingendo di non cercare niente e in realtà sempre alla disperata ricerca di non andare mai sotto il pelo dell'acqua. Devo andare sott'acqua, si dice, ma poi sa che non ci andrà mai, perché vuole sparire, ma non vuole morire.

 Il libro scorre via veloce, tra incontri fugaci in un'estate milanese che solo chi ha passato un'estate a Milano sa quanto sia terrificante (ragazzi, il caldo, il caldo che fa in questo posto in estate mi terrorizza per tutti i restanti mesi dell'anno): trentenni che si lamentano (mai nessuno fu più specialista di noi), padri che non capiscono bene quale genetica abbia assegnato loro determinati figli (non solo i figli si chiedono perché hanno certi padri), webstar sull'orlo della dissociazione, amici multietnici in una Milano futuristica.

 Ecco, Milano, a leggere questo libro sembra il posto fantastico dove qualunque giovane italico assetato di futuro vorrebbe vivere: multietnico, quartieri favolosi, celebrità web ad ogni angolo, architettura siderale con la periferia e il centro che distano venti minuti di tram (anche mezz'ora, ma se venite da Roma mezz'ora di tram è praticamente centro città).
 Il posto dove vorresti vivere, poi realizzi, come me, che ci vivi e, beh, si sta benissimo (a parte d'estate dove ti maledici per la tua sconsiderata scelta), ma non siamo ancora alla Tokyo italiana (ma bisogna lavorarci).

 E' un libro solo all'apparenza leggero che racconta un enorme peso interiore, la voglia di potersi permettere di essere sé stessi e il dramma di non riuscire a concederselo.

 Julian non si odia, la sua non è una storia di generico malessere giovanile dovuta al male di vivere o a una famiglia disastrosa. Dà l'impressione che anche senza di essa non avrebbe avuto una vita semplice perché non se la sarebbe permessa.

 E' una di quelle persone perennemente protese verso un'ideale di felicità perpetua generale irrealizzabile: nessuno deve ferirsi, nessuno deve essere infelice, tutto può essere riparato. E siccome ogni cosa ha un prezzo, il sacrificio sarò io.

 Ma la vita non accetta (sempre) sacrifici volontari, non ne ha bisogno, perché ha una direzione che non possiamo governare da soli.

 Il libro racconta l'estate di questa consapevolezza, l'idea di un'onnipotenza adolescenziale che fa i conti con l'età adulta incalzante.

 E certe volte, anche se ce l'hanno spesso raccontata in un altro modo, non è per forza un male.

lunedì 1 aprile 2019

Una nuova fumettosa rubrica: "Tirocinanti collection figure #1": "Serenella"!

Ed ecco a voi, finalmente, una nuova rubrica che terrò nel tempo.
 Al nuovo lavoro ho fatto la conoscenza di una nuova specie che in verità non mi era del tutto ignota: i tirocinanti a cui dedicherò una, credo lunga, raccolta di figurine da collezione.
 Cosa mi insegneranno questi placidi compagni di viaggio per brevi tratti? Quali avventure vivremo?
 Chi può dirlo?
 "Tirocinanti collection figure": "Serenella".