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giovedì 11 dicembre 2014

Un instant post sullo sciopero contro il Jobs Act di domani. Tra Gramsci, il Sulcis, Zola, Minatori e dignità: pensiamo davvero al futuro quando prendiamo una scelta? E soprattutto la scelta la prendiamo o abdichiamo solamente addossando le colpe al destino?

Questo post ha bisogno di una premessa morale.
Ho lungamente pensato se scriverlo o meno  (e ancora adesso che lo sto scrivendo mi chiedo se lo pubblicherò), perché in qualche modo, questo blog che scrivo e gestisco da sola, coi mesi è diventato in qualche modo un po' meno mio e un po' più di chi lo segue, con mia grande gratitudine, perciò un po' più pubblico.
Lo statuto dei lavoratori data il 1970, anno in cui l'economia italiana sarà
pure stata in crescita, ma certo si era meno ricchi di adesso e il mondo e
l'Italia non erano agitati da presagi meno funesti dei nostri (solo che noi poi
sappiamo com'è andata a finire e non ci immedesimiamo nelle angosce e nel
coraggio che ci volle all'epoca per affidarsi ad un futuro che nessuno poteva
vedere).
Tuttavia, credo che proprio perché sono io a sedermi tutti i santi giorni per un'ora e mezza o due a produrre un post degno di essere letto da qualcuno, posso concedermi questo sviamento dal naturale corso degli eventi libreschi, pur in realtà appoggiandomi ad uno dei nostri amati tomi.
 Domani ci sarà lo sciopero generale contro il Jobs Act. 
 Accade in un momento piuttosto travagliato della nostra storia economica e geopolitica in generale. Non sono una statista ovviamente e neanche un'economista, tuttavia sono una cittadina e una lavoratrice e ci tengo a sottolinearlo non una lavoratrice che proviene da una famiglia ricca. Non sono tra coloro che se rimangono senza lavoro hanno madre e padre danarosi a sostenerli, non ho casa di proprietà, ma pago l'affitto, non ho gruzzoli di sostentamento, se dovessi fare quello che suggeriscono in troppi con molta sicurezza (ossia andare all'estero), dovrei indubbiamente implorare qualcuno di prestarmi soldi del viaggio e sopravvivenza per i primi tempi, che comunque volare altrove (cosa che francamente non ho intenzione di fare), un minimo di investimento iniziale lo chiede. 
Faccio questa premessa da libro "Cuore" per dire che non sono una che vuole fare una predica seduta su un ammasso di denaro o con le spalle ben coperte.
 Il mondo lavorativo di cui parlano ormai giornalmente non corrisponde a quello che conosco io.  O meglio, quello che conosco io non sopravvivrebbe indenne al Jobs Act. Io, come tante altre persone che conosco, non riuscirebbero a cavarsela se passasse una scure così pesante nel campo dei diritti.
 La battaglia contro il Jobs Act mi ha posto davanti ad una delle più grandi mancanze del nostro tempo, di cui proprio non riesco a farmi una ragione: la mancanza totale di solidarietà sociale. Sembra ormai che curare il proprio personale interesse sia superiore ad un bene generale, eppure è stato proprio il bene e il benessere generale che ha permesso (tra le altre cose) all'Italia di fare quel salto miracoloso che fece, in tutti i campi, dall'economia ai diritti. 
 Forse, voi che siete più fortunati di me, questa cosa non la sentivate nell'aria, ma se foste una persona che da anni chiede diritti elementari e si vede rispondere perennemente che "Non è il momento, ci sono cose più importanti a cui pensare (sottintendendo "le mie")", avreste capito molto prima che aria tira.
 Alle superiori la mia professoressa d'Italiano ci diede da leggere un libro odiato da molti che invece mi colpì moltissimo: era "Germinal" di Zola.
 La storia, a metà tra il verismo e il melodramma sindacale, vede Etienne, giovane operaio con idee rivoluzionarie (per rivoluzionarie si intende di uguaglianza sociale e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori), venir licenziato dal suo precedente impiego per poi emigrare a lavorare in alcune poverissime miniere nel nord della Francia. Qui, scopre un piccolo mondo antico e viene accolto dalla comunità locale, poverissima, ma dignitosa che lavora quasi interamente in miniera in condizioni miserevoli e ovviamente senza alcun diritto. Ad un certo punto, i padroni delle miniere decidono di ridurre il già misero salario ai lavoratori ed Etienne riesce a convincerli a scioperare. La descrizione dei patimenti sempre maggiori di questa povera gente che sciopera per mesi (non per un giorno), a costo della fame, di morti, di qualsiasi tipo di dolore, occupa lungamente la parte centrale del libro. Lo stillicidio della lotta è talmente terribile che ti verrebbe voglia di dire ai minatori: "Lascia perdere, non vedi che stai morendo?", poi ti rendi conto che loro lo vedono benissimo, combattono non solo per quello stipendio, ma per un minimo di dignità in più. E sono disposti per quello non solo a morire, ma a veder morire i propri figli, perché che futuro consegnerebbero loro arrendendosi?
 Quando sento persone che, con la pancia piena, si muovono nel terrore di combattere per il minimo diritto, terrorizzati da chissà cosa, penso sempre a questo libro. E ho una sola risposta davanti all'inerzia dei singoli che si rintanano nelle loro case, (e non mi riferisco solo a questo sciopero, ma al modo di vivere la vita pubblica in generale): non c'è ancora abbastanza fame. Non c'è la vera fame.
 Il film di Annaud su "L'amante" di Marguerite Duras, diceva che "La ricchezza porta alla debolezza". E' vero, siamo deboli perché siamo stati a lungo troppo ricchi, o almeno molti di noi lo sono stati. 
 Stanno uscendo molti libri sulla lotta di classe, e non rievocano Marx, ma dicono tutti una sola cosa che dà il titolo all'instant book di Marco Revelli: "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi" ed. Laterza. 
 E' vero, la stanno vincendo. Divide et impera si dice no?
  E allora hanno diviso tutti, hanno addirittura avuto il coraggio di dire che esistono lavoratori di serie A e B (giustissimo che un precario non vive mica la vita di un indeterminato a meno che non sia un libero professionista di alto livello), proponendo come soluzione non di estendere diritti ai lavoratori B, ma di toglierli agli A. E ripeto non sono un'economista, ma mi chiedo: in che modo dare ancora meno diritti aiuterà l'economia? Le banche non concedono mutui a chi è senza diritti, i padroni di casa vogliono le buste paga e non si fidano se qualcuno non ha l'indeterminato o genitori che garantiscono (lasciamo stare gli ulteriori problemi a cui vanno incontro le categorie discriminate per cui non è mai ora di fare qualcosa, tipo le coppie gay), non puoi concederti spese straordinarie, sei costretto ad ammassare risparmi, per quel che puoi, attendendo di far passare la buriana. 
 E allora mi chiedo: a chi giova questo gioco della sedia, in cui si crea lavoro rendendo il lavoro non solo più incerto, ma più arbitrario, meno tutelato? Davvero serve a far girare l'economia?
 I minatori di Zola erano povere persone, gente senza nessuna istruzione che viveva con ritmi rurali (ben descritti anch'essi), senza particolari aspirazioni personali. Eppure, davanti alla possibilità di agguantare assieme allo stipendio pieno (e comunque misero) una dignità maggiore, sacrificano tutto, la vita, i figli, la casa. Hanno una lungimiranza che in noi sembra ormai scomparsa. Noi siamo mediamente molto più istruiti, abbiamo possibilità di informazione (vera, non quella presa a caso in giro) infinitamente maggiori, eppure la maggior parte di noi sembra non riuscire a pensare criticamente in autonomia, a prendersi una responsabilità.
 Ciò che si avverte nella strana paralisi generale, è che esista solo il presente, l'ora, che il passato sia un peso immane da cui liberarsi (vecchiume che ce serve?), ignorando il futuro (ce penseremo). Il risultato è che si piantano solo piante rachitiche che non daranno mai frutti e quindi la domanda ritorna: a cosa e a chi serve realmente tutto questo?
 Il libro di Zola non finisce col trionfo, anzi. Non ve ne svelo la fine perché è bellissimo e ve lo straconsiglio, ma insomma non è che i veristi francesi o italiani fossero allegri, probabilmente perché erano veristi. Tuttavia, è difficile pensare che per i protagonisti tutto sia stato inutile perché la storia ha insegnato che in quel momento contingente la loro lotta forse aveva fallito, ma sul lungo periodo aveva vinto, piantando alberi enormi.
 Faccio una postilla, per gli eventuali commenti. 
 Sulla pagina di fb, ho pubblicato un articolo di "Internazionale" in cui si parlava di una sorta di boicottaggio ad Amazon perché i lavoratori di questo adorato distributore non hanno diritto al salario minimo (e se volete vedere in che condizioni lavorano leggete pure "En Amazonie" di Jean-Baptiste Malet). Un commento è stato che insomma chi glielo faceva fare a questa gente di lavorare lì? Potevano alzare il sedere e cercare un posto migliore. 
Chissà quale misterioso masochismo spinge le minatrici
del Sulcis non solo a lavorare in miniera, ma a difendere
con le unghie e coi denti i loro posto di lavoro: sarà la dignità?
Sarà lo stipendio per sfamare la famiglia? Non comprendo
proprio perché non espatrino ad occupare posti di dirigenza che
le stanno sicuramente aspettando in tutta Europa.
Ecco, io penso che sia questa la trappola più grande: pensare che se nella vita non hai raggiunto un livello lavorativo degno la colpa sia solo tua e non devi lamentarti, non devi chiedere, non devi pretendere un trattamento migliore.
 Il lavoro che hai, ma soprattutto le condizioni lavorative in cui versi vengono passate come una scelta che noi facciamo e di cui meritiamo le conseguenze. Ma che scelta ha un lavoratore di 40 anni licenziato con una famiglia a carico? Un ventenne con i genitori che contano su di lui? Un ragazzo a partita Iva che non ha la famiglia dietro a coprire spese che non riesce a sostenere?
 Bisogna pensare e leggere e studiare, ma soprattutto fare qualcosa di ciò che leggiamo, pensiamo e studiamo. Le scelte è vero, sono personali, anche fregarsene però, anche l'indifferenza al proprio destino e a quello degli altri che magari sono meno fortunati di noi, è una scelta con delle conseguenze.
 Concludo con un celebre pezzo di Gramsci che vale sempre, perchè non esistono periodi della storia in cui essere indifferenti diventa meno grave di altri momenti.
 Il presente influenza sempre il futuro:
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. 
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. 
Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. 
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? 

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
 
Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Ps. Ovviamente non considero chi non aderirà allo sciopero un indifferente. Considero chi non pensa alle conseguenze e in coscienza e informandosi se aderire o meno a questo sciopero, se leggere il Jobs Act, se vivere nel paese reale, un indifferente. Lo sciopero è solo la circostanza in cui ho scritto questo post, domani torno a parlare di regali di Natale.

4 commenti:

  1. Bellissimo post! Condivido tutto. Ed è verissimo che:

    non c'è ancora abbastanza fame. Non c'è la vera fame. [...] "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi"

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  2. Mi fa piacere che ci sia ancora qualcuno che cita Gramsci. Oltre che la citazione, condivido in toto.

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  3. La risposta te la sei data già: non c'è abbastanza fame. Non siamo ancora arrivati a quel livello, non tanti almeno. Per arrivare al livello dei nostri nonni, i miei almeno che vivevano senza acqua corrente, fognature e in due stanze, ce n'è di strada da fare.

    Io lo so che la solidarietà sociale è ormai andata, ormai viviamo in un modo surreale dove c'è quello che ti dice che ha studiato e un lavoro diverso da quello dei desideri non lo farebbe mai, quello che lavora a 3,00 euro lordi l'ora, senza diritti grazie ai co.co.co. e co.co.pro., quello che fa un part-time decente, ma che si lamenta perché non può comprarsi una borsa da Louis Vuitton, gente licenziata a 50 anni che non sa come mantenere i figli e altri che sono andati in pensione alla stessa età o che restano ancorati al posto di lavoro, senza far spazio a chi aspetta, perché vogliono prendere una pensione più alta.

    Capisci che in tutto questo la solidarietà sociale passa in ultima istanza. Tutte queste categorie non hanno più niente in comune, non riescono a dialogare.

    Non so se a scuola hai scioperato per protestare per ragioni varie. Se non si è compatti, non si riesce ad avere alcun peso. Durante la scuola, ho ottenuto di più entrando ogni mattina nell'ufficio del preside, con i verbali dell'assemblee, richieste scritte. Lui mi ripeteva "Signorina, di nuovo qui?" e io rispondevo che sarei tornata tutti i giorni, finché non avessimo risolto il problema. Ci manca un capoclasse decente.

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    1. Sì, ho fatto numerosissime manifestazioni dal liceo fino all'Onda (poi sono andate scemando perché mi sono trasferita in una parte del nord che è lievemente dormiente, ma i gay pride e altre cose molto importanti non le perdo mai). Tuttavia, il mio liceo non faceva testo, era molto grande, molto politicamente impegnato e a dirla tutta il preside non era un osso così duro.

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