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giovedì 10 settembre 2015

La cognizione del dolore di Maurizio De Giovanni. Il commissario Ricciardi, la fredda narrativa italiana e quel misterioso, terribile fiume che è il dolore, il nostro e quello degli altri.

 Qualche anno fa mia madre si appassionò molto ad una scrittrice italiana: Benedetta Cibrario.

 Un Natale le comprai "Sotto cieli noncuranti"  e durante il lungo viaggio in treno verso casa pensai bene di leggermelo e buttai in tal modo ben tre ore della mia esistenza

 La trama aveva tutte le carte in regola per essere una tragedia
molto toccante in forma di 
pseudogiallo: un magistrato con tre figlie perde la moglie, investita una sera mentre porta fuori il cane. 

Nel mentre si trova ad indagare, con l'aiuto di una giovane psicologa (con ascendenze montane, non ricordo esattamente di dove, ma indimenticabile il pezzo in cui porta le bambine in montagna in mezzo a gente che parla poco perché "in montagna sono fatti così"), sul caso di un bambino precipitato da un palazzo: è caduto per sbaglio o ce l'ha buttato qualcuno.

 La trama fila, il finale non si intuisce subito, ma il libro ha un enorme problema: è freddo, freddo, freddo, come l'inverno in cui è raccontato.

 Per incredibile che possa essere, l'autrice è riuscita nella difficile impresa di infilare due morti atroci, tre minori che soffrono, genitori rimasti senza figlio e un vedovo inconsolabile, senza che una goccia di vago dolore trasudi dalle sue pagine.

 Il caso della Cibrario è, per me, forse il più emblematico di quello che è un enorme problema della narrativa italiana: il racconto del dolore.

 Rarissimamente gli autori che si confrontano con una narrazione del genere riescono nell'intento di restituire a chi legge quel flusso di indomito dolore che attraversa i loro personaggi. Il difficile non è tanto farci venire il dubbio su chi ha ucciso quel bambino, se pure qualcuno lo ha ucciso, ma precipitarci nel vortice doloroso di cui sono preda i personaggi, esattamente come ne sarebbero preda le persone coinvolte se fosse un fatto reale.

 Generalmente quando uno scrittore non è capace di gestire il dolore, di farsi da medium tra la tristezza immensa del mondo che crea e i sentimenti del mondo che lo legge, si rifugia in quella grande beffa che è: la negazione del dolore.
Tra l'altro, forse anche per gli occhi verdi in comune, mi è molto
difficile non immaginare il commissario Ricciardi con le
fattezze di De Giovanni stesso

 Questa frase, che io tradurrei anche con "buttarla in caciara", dona allo scrittore l'illusione di una giustificazione del fatto che di quel dolore non si parli e quel dolore non si senta: chi mai vorrebbe provare dolore? Chi mostrerebbe il suo volto affranto? Non ci teniamo sempre tutti a far vedere che non è successo nulla? Che siamo forti? 


 Ebbene, no. Non ci teniamo tutti. Ci sono persone che effettivamente negano il dolore (ma, non possono negarlo per sempre, prima o poi devono farci i conti, è come una ferita che se non curi manda il corpo in cancrena), ma tendenzialmente il dolore si affronta, qualcuno soccombe, la maggior parte, in un modo o nell'altro sopravvive. 

Nei romanzi italiani, invece, quasi sempre i personaggi negano il dolore e via con dio, un giorno si sfogheranno con qualcuno, ricorderanno placidi momenti, capiranno che il dolore è finito o ci faranno i conti trent'anni dopo, come una cambiale che, a quanto pare puoi rimandare all'infinito.

 Ora. Comprendo che ci sono vari motivi per cui non si vuole parlare di dolore. Alcuni di questi sono sociali (il dolore al giorno d'oggi è una cosa brutta, superflua, vivi e vai avanti, chi è morto vorrebbe tu facessi così. chi ti ha lasciato non ti merita ecc), altri sono di pura incapacità scrittoria (descrivere il dolore non è poi questa passeggiata di salute, bisogna avere una cosa chiamata talento e non si compra per strada), altri sono, credo, di inconsapevolezza (è davvero necessario parlare del dolore?).

 Tuttavia, penso anche che la letteratura non abbia motivo di esistere se non parla delle fondamenta dell'animo umano, che, per carità, non deve rotolarsi nelle pieghe della tragedia, ma non deve neanche fingere che basti dire "Nego il dolore poi si vedrà", per chiudere il discorso. 

 Il dolore, spesso, è come un fiume che scorre quieto, ma inarrestabile, attraversa il corpo, le vene, il cervello, e non c'è diga che tenga. Sta lì e la sorgente non puoi bloccarla consapevolmente. Puoi abituarti e aspettare aspettare aspettare. Il tempo prosciuga (quasi) ogni fonte, prima o poi.

Questa introduzione immensa è il motivo per cui dovete leggere Maurizio De Giovanni. 

 Per vari anni ho girato attorno ai suoi libri, indecisa perennemente se gettarmi sull'ennesimo commissario o meno. Poi, questa estate mia sorella mi ha prestato "L'omicidio Carosino", il racconto giallo con cui vinse il concorso che lo gettò, già quarantenne, nel mondo degli scrittori italiani più letti. 

 La storia era semplice semplice, il giallo forse neanche poteva considerarsi tale visto che si risolveva da solo, ma c'era una cosa assolutamente indimenticabile nel suo commissario Ricciardi: quella incredibile, voluta, decisa, sfacciata insistenza sul dolore.

 Il commissario Ricciardi che vede le anime dei morti di morte violenta insistere con la loro vaga immagine dolente sul luogo dove sono stati strappati alla vita, è un uomo a cui il dolore non lascia scampo. 

 E' votato al dolore altrui e, cosa interessantissima per un personaggio italiano, non lo è per una supposta redenzione o per una qualche confidenza col sacro (neanche un sacro privato e gestito privatamente), lo è perché non può fare altrimenti. 

Tentare attraverso le indagini di dare una giustizia ai defunti, pur non credendo ad una vita eterna, pur non avendo nessun dio in cui confidare, rende il suo personaggio disperatamente senza conforto, ma incredibilmente nobile, un essere umano che non ha bisogno della zolletta di zucchero della vita eterna per amare il suo prossimo. 

I suoi fantasmi non spariscono trovando pace dopo che ha trovato il loro assassino, insistono dolenti ripetendo incessantemente le loro ultime parole. E cosa può fare un uomo che vede i vivi e i morti al tempo stesso?

 In un romanzo qualunque andrebbe dal prete o su un eremo, troverebbe un modo per gestire il proprio dolore, magari negandolo, magari inventando mantra a caso per proteggersi.

  In un giallo qualunque salterebbe direttamente il problema: un commissario è abituato a morti, robe violente varie, al massimo ha un singolo caso che lo ossessiona per qualche motivo particolare (non fatemi pensare a Markaris che le vittime a stento le considera esseri umani).

  In un romanzo di De Giovanni no. 

 Questo scrittore lascia che il suo triste commissario si faccia attraversare continuamente dalla corrente del dolore altrui senza trovare scuse, palliativi, negandosi l'amore, l'amicizia persino il risentimento o la rabbia. Porta la sua croce in silenzio, pensando con pietà ai propri simili, che tante altre croci hanno da portare tutti i giorni in una Napoli poverissima e disperata.

 Il vero motivo per cui leggere i romanzi di De Giovanni (almeno quelli del commissario Ricciardi) non è la bella scrittura, le trame fluide, i comprimari benissimo delineati, una Napoli anni '30 incredibile, ma quella cognizione del dolore, quella pietà immensa che non si trova quasi mai nei romanzi e lascia un interrogativo alla fine della storia e non di natura giallistica.

 Quanto, noi tutti, ogni giorno, ci curiamo del dolore degli altri? 

 Sembra una domanda oziosa, ma pensateci mezzo minuto e ditemi se continua ad esserlo.

2 commenti:

  1. Ho avuto centinaia di recensioni, in larghissima parte positive, e molti, molti complimenti spesso immeritati e quasi sempre esagerati. Ma mai parole che mi hanno fatto piacere così tanto come quelle che precedono. Perché è esattamente quello che volevo quando ho inventato il mio Riccardi.
    Grazie. Grazie dal profondo del cuore: il modo in cui riusciamo a ignorare il dolore altrui è il grande stigma dell'inciviltà nella quale viviamo.

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    1. Se davvero è De Giovanni (mi permetta di avere almeno un dubbio visto che internet è un mondo grande e strano), sono io che la ringrazio moltissimo per aver il suo commento e per i suoi libri. Trovo che il dolore sia una grande mancanza dei romanzi contemporanei, probabilmente, come dice, è dovuto al fatto che nella nostra società preferiamo ignorarlo, quello nostro e quello altrui, come se chiudendo gli occhi potesse scomparire. I suoi romanzi hanno una grandissima forza in questo senso e penso che la vera narrativa non racconti solo una storia, ma ci ponga davanti a verità che preferiremmo rifiutare (ma da cui non si può sfuggire). Ultimamente gli scrittori mi sembrano timidi riguardo ai sentimenti forti. Spero di incontrarla a qualche presentazione un giorno!

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