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giovedì 8 ottobre 2015

Chi ha rinchiuso davvero la strega nel bosco? Il topos dell'essere solitario e strano tra gattare, drammi odierni, Shirley Jackson ed Harper Lee. E' il diverso ad isolarsi o siamo noi che ne abbiamo bisogno?

Non molto tempo fa, a Roma i carabinieri hanno trovato morta una ex professoressa nella casa dove viveva da sola. Era deceduta da due anni.
 Nessuno l'aveva cercata, nessun parente l'aveva reclamata. I vicini, sentendo l'odore provenire dall'appartamento avevano chiamato pare l'amministratore, ma non avevano risolto nulla, così, nel dubbio avevano imbottito la porta per fermare almeno in parte l'afrore. Il padrone di casa, ad un certo punto, finalmente decide di sfrattare l'anziana che, a quanto pare, non paga l'affitto da un bel po'. Si reca lì coi carabinieri e niente, l'anziana era cadavere da anni, caduta a terra e mai più rialzatasi. 
 Sembrerebbe una storia di solitudine come ce ne sono altre, ma, in questo caso, c'è una variante: la signora in questione non era solo sola, era, a detta di tutti gli inquilini del palazzo e degli ex colleghi di scuola, una persona molto strana. 
Era, questa signora, stando alle parole dei giornali e dei pochi che la conoscevano anche solo di vista, un personaggio da romanzo: solitaria, religiosissima, inseriva eserciti di santini nelle buche delle lettere e sui parabrezza, lanciava oggetti dalla finestra. molto fragile, senza parenti stretti, proveniva da un sud Italia che non l'ha mai più reclamata ed era stata mandata in pensione anticipata a causa di un suo problema alle gambe. Questo ovviamente è il racconto dei vicini, non necessariamente la realtà, ma spesso i ricordi che riguardano una persona possono dirci molto non tanto della persona quanto su chi ricorda, sulla sua percezione degli eventi.
L'archetipo dello strano solitario è così forte che esiste persino
un personaggio dei Simpson che, tra l'altro, si scopre, ha una
storia triste e complessa
 Mi ha fatto tornare alla memoria questa signora, la vicina di casa di cui mi raccontava un mio collega: una donna che lasciava le finestre spalancate per far entrare orde di piccioni, non puliva mai e viveva con una dozzina di gatti in un bilocale, lasciando che il pianerottolo brulicasse di animali disgustosi. Il collega aveva dovuto cambiare appartamento.
 E mi ha ricordato quando, alle scuole medie, (età infelice durante la quale dovremmo essere tutti presi per la collottola e sgrullati), dopo gli scrutini andammo con altri della mia classe a scampanellare insistentemente a casa della professoressa di educazione tecnica, una donna che mal sopportavamo e trovavamo stranissima.
 Anni dopo seppi che non era strana, aveva solo un marito in casa che le stava morendo sotto gli occhi.
 La vita e i libri sono pieni di questo personaggio ricorrente, una sorta di archetipo fiabesco: l'essere solitario di cui nessuno sa nulla e che si rintana tra quattro mura, (o nel bosco) inseguito da dicerie e pettegolezzi sempre crescenti che crea una sorta di leggenda nera senza fonti. 
 Un topos che risponde a quello della strega solitaria nel bosco, ricettacolo di molti nostri timori, che infatti ha sempre avuto grande fortuna nei film e nei libri a tema horror  (ricordate "Il mistero della strega di Blair" o la strega di Hansel e Gretel?).
 Oppure, una sua interessante variante sul tema trova  la sua più completa realizzazione in uno dei più bei romanzi americani che affrontano il tema del diverso, del pregiudizio e dell'emarginazione con una maestria difficilmente replicabile: "Il buio oltre la siepe" di Harper Lee.
 Questo libro bellissimo presenta una serie di personaggi peculiari, accumunati da una serie di varianti dalla realtà comunemente accettata a partire da Atticus, rispettabile avvocato bianco certo, ma padre single di due bambini scalmanati, soprattutto la femmina, non certo signorina come la morale comune vorrebbe. 
 Poi c'è il diverso per eccellenza, il cattivo predestinato dalla società: Tom Robinson, uomo di colore, accusato di stupro da una ragazza bianca, e automaticamente colpevole. Tom non è neanche un essere umano, è un pregiudizio che cammina, qualcuno che non ha dignità di persona o possibilità di dimostrare davvero chi sia, lui è presignificato dal suo colore di pelle.
 E infine c'è lui Boo Radley, un uomo solitario che vive chiuso in casa e che i ragazzini dileggiano convinti che sia pazzo o strano o cattivo. Non hanno un motivo preciso per crederlo, se non una serie di considerazioni che li portano a quella conclusione: perché Radley si comporta in un modo così poco socialmente accettato? 
 Una persona che non si adegua ha per forza qualcosa che non va. Del resto, il modo in cui non tutti comunemente viviamo è talmente bello, così imperdibile e favoloso che chiunque non accetti di farne parte non può che avere qualche rotella fuori posto. O no?
 Boo Radley e l'anziana morta a Roma sono accomunati da una stranezza inaccettabile: non vivono come noi. 
E questo è qualcosa che si paga in qualche modo nella nostra società così crudele, così rigida, così bisognosa di contenere tutti in un ruolo preciso per sentirsi in qualche modo rassicurata. A nessuno interessa cosa abbia spinto queste persone a prendere una decisione del genere, se un evento drammatico, una fragilità interiore, una volontà precisa e inaccessibile. 
 Per questo diventa doppiamente interessante un libro come "Abbiamo sempre vissuto nel castello" di Shirley Jackson, un horror che non meriterebbe questa classificazione perché, dal mio punto di vista, nella sezione horror andrebbero messi i libri in cui la crudeltà appartiene al sovrannaturale non agli esseri umani.
 Non è un libro che dà risposte semplici quello della Jackson, nessuno dei personaggi coinvolti è innocente, però descrive bene in che modo possono crearsi leggende nere, superstizioni, crudeltà di branco che i singoli non ritengono tali perché parte di un sentire comune. Se tutti sono crudeli infatti distinguere il bene dal male diventa doppiamente difficile. Lo abbiamo visto nella storia, lo vediamo nella società, lo vedono doppiamente i discriminati dalla società.
 Cosa crea un odio profondo e di massa?
La prima traduzione italiana del titolo
"Così dolce, così innocente" dava una
chiara misura del fatto che non si era
capito di cosa parlava davvero il libro
 Il libro della Jackson si apre con un'esca narrativa fenomenale: un'intera famiglia, pochi anni prima, è morta avvelenata mentre cenava. Unici sopravvissuti: uno zio da allora invalido e due sorelle, Constance, bellissima e all'epoca accusata del delitto, e Mary Katherine, una creatura stranissima, vaga e poco presente a sé stessa, non si capisce se per sua natura o per il trauma subito anni prima.
 Il paese, nonostante non abbia subito alcun danno da quella che fu una tragedia familiare, le odia e le dileggia, le copre di insulti e vorrebbe che si allontanassero dalla cittadina. Le due rispondono all'odio rintanandosi in una vita idilliaca composta da cibo delizioso, rituali sempre identici e un forte affetto reciproco. L'atmosfera del libro è quella di un'attesa cattiva, un silenzio carico di odio.
SPOILER
 L'equilibrio, fragile, si rompe quando irrompe un cugino arrivista, avido e perfido a sua volta, Charles, interessato ai beni di famiglia e al denaro che le due nascondono.
 E poi ecco un grande incendio, un linciaggio di massa, un paese che impazzisce in preda ad un odio senza motivo, verso qualcosa che percepiscono come sbagliato, una frattura nella tranquillità cittadina che non possono tollerare, e accade l'irreparabile.
 Le due ragazze si sbarrano letteralmente in casa, sbalzate con violenza fuori da una società in cui si sentivano in grandissima difficoltà già prima di viverne l'odio. Resistono ai vaghi accenni di pentimento di alcuni, agli amici dei genitori che tentano, per dovere, di aiutarle e pian piano il loro silenzio parla agli abitanti. Se si sono rinchiuse lì dentro hanno qualcosa da nascondere: segreti, denaro, riti magici.
 Il male compiuto su di loro viene dimenticato e da vittime diventano di nuovo invisibili carnefici. 
FINE SPOILER
 Chiunque non si adegui, ha qualcosa da nascondere, chiunque devii dalla normalità è una mina nelle nostre certezze, chiunque ci ponga un interrogativo su noi stessi è un pericoloso sovvertitore di quella che altrimenti sarebbe una vita tanto tranquilla.
 Una vita tranquilla, in un palazzo tanto tranquillo, con persone che preferiscono bloccare porte che sanno di cadavere invece di spalancarle, con segreti che devono rimanere sigillati , dolori che non bisogna lasciar trapelare dietro una facciata di tranquillità.
 Altrimenti, se gli altri si accorgono che qualcosa non va, che non siamo come loro, la strega nel bosco, Boo Radley, Constance e Mary Katherine rischiamo di diventarlo noi. 
 E forse anche per questo ci fa comodo caricare queste persone di una serie di significati spaventosi, inenarrabili stranezze: sono lo spettro di quel che temiamo, un nostro fantasma, da prendere a sassate, dimenticare, bruciare, sperando che in qualche modo svanisca.

8 commenti:

  1. Ecco... Ciao, anzi salve. E' il primo post che leggo sul tuo blog e devo dirti per forza, complimenti. Tutto qui :)

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  2. Probabilmente odiamo le nostre debolezze, quelle che cerchiamo di nascondere in tutti i modi, mentre loro le vivono alla luce del sole. Siamo più condizionati di quanto crediamo.
    "Il buio oltre la siepe" è davvero bellissimo. Andrebbe letto mentre ancora si va a scuola. Per me la scuola dovrebbe essere un po' più dialogica e catartica, ma credo sia molto difficile.

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  3. Davvero interessante questo articolo. Alzi dilemmi di non poco conto, sin dal titolo. Forse ha ragione Lucrezia, odiamo le nostre debolezze e le nascondiamo, ma spesso siamo anche aiutati a superarle. C'è chi invece questo aiuto, per una serie di circostanze non volute, non ce l'ha. Che poi le stranezze, la diversità, saranno davvero delle debolezze? Andrebbe riletta tutta la letteratura novecentesca probabilmente per trovare risposta a questo interrogativo. O per non trovarla affatto, ma quanto meno rispecchiarci in circostanze, persone e personaggi che ci riguardano più da vicino di quanto pensiamo.
    Non conoscevo il libro di Shirley Jackson, sono molto curiosa di leggerlo.

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    1. Secondo me la storia dell'anziana, per come si evince dall'articolo, e quella raccontata dalla Jackson hanno un dilemma doppiamente interessante perché queste persone, da come sono descritte, sono vittime non piacevoli (anzi, nel caso della Jackson sono in parte anche colpevoli). E' difficile provare empatia per persone che rappresentano qualcosa che non solo non capiamo, ma non ci ispira neanche bontà, anzi ci ricorda quello che potremmo diventare "se". Ma insomma,per fare una citazione biblica (che certa gente farebbe meglio a ricordare): "Se amate quelli che via amano che merito avete? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli cosa fate di così straordinario?"

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    2. Certo, è chiaro. Certe volte più che di empatia è necessaria anche della simpatia, nel suo senso etimologico, che ci porta non solo a capire i sentimenti e la persona altrui, ma anche a condividere con quella persona determinati sentimenti. Nella condivisione del positivo e del negativo sta la reale comprensione.

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  4. Che bel post interessante!E che voglia di leggere questi due libri,che mi hai fatto venire!!!!

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  5. Il post secondo me sviluppa temi molto interessanti e condivido quello che è il suo messaggio di fondo, però non mi ritrovo in quanto dici del rapporto che si viene a creare tra i bambini e Boo ne "Il buio oltre la siepe", un libro che ho letto da poco e mi è molto piaciuto. Non direi che lo dileggiano, anzi. Cercano di trovare un canale di comunicazione, sebbene in parte lo usino come spauracchio, ma nei giochi tra loro, per sfidarsi, senza mai cercare di farsi gioco di lui, piuttosto tentando di vederlo, conoscerlo, scoprirlo. Ma magari è solo una mia impressione.

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