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martedì 22 marzo 2016

Il reale e il surreale: quanto siamo capaci di cogliere l'improbabile nascosto nell'ordinario? La recensione de "Il primo uomo cattivo" di Miranda July, con un tocco di Benni e qualche ceffone poco metaforico ben assestato.

 Per un certo periodo della mia vita, diciamo dai diciassette ai ventidue anni, ho avuto la sensazione che le cose attorno a me prendessero una piega surreale.
Re Gustavo di Svezia e la sua consorte

Mi sembrava che i miei amici, compagni di classe, professori, colleghi universitari, nemici e parenti, ce la mettessero tutta per aggiungere a ogni giorno potenzialmente normale, un quid di follia.
 Per fare un esempio che altrimenti sembra stia delirando, ricordo con chiarezza il giorno in cui l'amico sfaccendato e perennemente dormiente (di solito provvisto di barba e sudore a gettito continuo) che tutti noi ci trasciniamo per un periodo nella post-adolescenza, mi chiamò impanicato perché aveva appena investito la statua della Madonna che sua nonna teneva in giardino.
 Le braccia della Madonna si erano staccate e voleva sapere da me un metodo convincente per riattaccare la porcellana. Nel mentre, mia madre mi incitava ad abbandonarlo velocemente al suo destino perché ci stavamo perdendo un imperdibile evento cittadino: per qualche motivo inspiegabile il re di Svezia aveva deciso di fare un giro per le vie del nostro paese (ora, come sapessimo che era proprio il re svedese non chiedetemelo perché non lo ricordo, ma un raffronto su wikipedia aveva confermato la sua identità).
 Questi momenti di follia quotidiana iniziarono a svanire come un sogno quando le asperità della vita si abbatterono su di me più o meno quando, senza un euro in tasca, decisi di andare a vivere da sola. Il pensiero di dover capire come mangiare giornalmente e come pagare le bollette (astronomiche tra l'altro, maledette coinquiline romane mantenute da mamma e papà) mi resero come cieca di fronte a quella dose di improbabile che alberga nella vita di ognuno.
 Se l'improbabile è mai tornato a visitarmi? Ogni tanto negli ultimi anni, da quando la mia vita si è stabilizzata, ma mai con la stessa potenza di prima. Me ne sono sempre rammaricata, ma leggendo il nuovo libro di Miranda July forse ho capito il perché.
Miranda July
 Miranda July è un'autrice/artista/regista americana che rientra nel campo degli scrittori statunitensi amanti della sperimentazione letteraria (un genere che, come sapete, non è che ami molto), avevo visto sia il suo film "Me, you and everyone we know", sia letto la sua precedente raccolta di racconti "Tu più di chiunque altro" e mi erano entrambi piaciuti con riserva.
 Nel senso, a livello generale sentivo che mi stavano comunicando qualcosa, ma non riuscivo bene a capire cosa. Nel nuovo romanzo, ad un certo punto ho avuto l'illuminazione.
 La storia è quella di Cheryl, una donna sulla quarantina che lavora in una sorta di palestra/non si capisce bene cosa (o almeno io non l'ho capito) in cui vengono organizzati corsi di autodifesa femminile. E' lì da una ventina di anni, pensa di avere una cotta per Philip, un sessantenne fascinoso che fa parte del consiglio di amministrazione e, pur non avendo figli, ha un oscuro istinto materno che collega ad un bimbo che aveva accudito per qualche ora da bambino da lei ribattezzato Kubelko Bondy. Ogni volta che vede un neonato e in contemporanea sente di volerne uno, chiama alla sua memoria il piccolo Kubelko.
 Un giorno di una vita piatta e tutto sommato senza sussulti, i suoi due capi le propongono di ospitare per qualche tempo la loro figlia ventenne, Clee, una bionda formosa che non ha ancora ben capito cosa voglia fare della sua giovane vita. Cheryl che tendenzialmente subisce molto e agisce poco in attesa che la vita le accada, accetta e si ritrova in casa una nullafacente sporca e invadente che non sa come cacciare. A questo punto, la trama attraversa una parte centrale discretamente delirante verso una finale molto commovente e poetica. 
 Il delirio centrale è incentrato sul rapporto tra Cheryl e Clee (che non vi dico dove va a parare se no vi rovino il libro).
 Cheryl inizia ad avere dei disturbi psicosomatici e inizia ad andare da una psicoterapeuta a sua volta molto problematica che le suggerisce di mettere in scena una sorta di gioco di ruolo con Clee. Le due decidono allora di picchiarsi in modo estenuante e giocoso prendendo spunto da alcune scene di lotta di alcune vecchie videocassette dei corsi di autodifesa.
  Il terrore da lettrice è che questa lotta sia solamente metaforica o che ad un certo punto, come nel libro di Eggers "L'opera struggente di un formidabile genio", ad un certo punto mi si dica che è solo un abile prodezza dello scrittore che vuole mostrare la sua bravura. Il sollievo arriva nel momento in cui ci accorgiamo che siamo nel campo dell'improbabile, ma non dell'impossibile.
 Ciò che accade a Cheryl prima che un evento la ponga di nuovo davanti alla nuda realtà che offusca ciò che esiste di surreale nella vita di tutti i giorni, è la variabile improvvisamente impazzita.
 Esistono, non per tutti, non sempre, magari una sola volta nel corso dell'intera esistenza, dei periodi in cui lo straordinario irrompe in modo tanto irruento nel nostro ordinario da sembrare inverosimile. Raramente riusciamo ad afferrare il significato di quel momento imperdibile (non sempre sconvolgente, ma comunque incredibile), è come se riuscissimo a percepire la variazione come una sorta di terremoto a scosse ondulatorie. Noi siamo sempre sulla nostra superficie, ma tutto attorno a noi si muove in modo convulso senza che il cervello riesca a capire cosa sia.
 E' questo che accade a Cheryl, un terremoto che le mostra tutto in modo assurdo: il giardiniere che non si fa pagare è così strano da sembrarle un clochard col pollice verde, l'oggetto del suo amore Phil perde la testa per una sedicenne provocante, talmente provocante che probabilmente non esiste, i suoi incontri di lotta libera con Clee le diventano così indispensabile da farla ragionare sulla sua sanità mentale. 
Benni estremizza i comportamenti di alcuni personaggi
peculiari che albergano in provincia. In verità,
e non serve Amarcord a ricordarlo, chiunque venga dalla
provincia sa che spesso non c'è bisogno di estremizzare:
questi personaggi esistono
davvero nella loro forma più pura.
 E' stato quando il libro è rientrato nelle rassicuranti carreggiate della normalità che ho capito cosa non riuscivo ad afferrare nelle opere di Miranda July: lei non propone storie, ma un modo di vedere la vita.
 L'improbabile è una costante che possiamo decidere di cavalcare o di soffocare, ma esiste sempre, siamo noi che di volta in volta siamo in grado di farlo diventare un modo di vedere e di vivere.
 E' un concetto molto chiaro nei libri di uno scrittore italiano, Stefano Benni.
 Il famoso "Bar Sport" non è altro che una versione italiana e di provincia (attenzione, non provinciale) di quello che ci racconta Miranda July: lì c'è un piccolo bar, di un piccolo paese della bassa, dove si incontrano sempre le stesse persone. Eppure non è mai la stessa storia, una pastarella che nessuno compra diventa un personaggio, un vecchio dandy che va per vecchione nelle balere è Rodolfo Valentino, una gita a Bologna sembra l'evento del secolo. Sono tutti eventi plausibili, ma strambi, e, a mio parere, satira sociale a parte, non sono un semplice espediente letterario.
 Se riusciamo a non archiviare come molesta o sciocca o insensata quella dose di follia che alberga nella quotidianità, allora il gioco di Miranda July è fatto. Non si tratta solo di essere travolti dallo straordinario, ma di riuscire a vederlo in ogni momento. E forse, in generale, è anche un modo per essere un po' più felici o un po' meno tristi e annoiati, dopotutto.

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