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mercoledì 3 aprile 2019

Svanire, annegare, forse sognare. "Tutto chiuso tranne il cielo" di Eleonora Caruso un romanzo sui grandi pesi che certe volte la vita adulta toglie e non aggiunge.

Circa un anno fa è uscito un libro abbastanza insolito per il panorama editoriale italiano: "Le ferite originale" di Eleonora Caruso.

 Era insolito per tanti motivi, dal modo in cui era scritto alla rara volontà (rara per gran parte della narrativa italiana non di genere) di uscire dai soliti rassicuranti schemi editoriali fatti di libri molto costruiti che ormai sembrano seguire una sorta di ricetta: una spolverata di amica geniale, un pizzico di Volo, un po' di pepe alla cinquanta sfumature, un filo di malinconia anni '80, qualche lamentatio generazionale o sui genitori che ci sta sempre bene, passati fatti da traumi che sono traumissimi gravi o robette da niente che ti chiedi sta gente dove ha vissuto se ancora si ricorda del giorno in cui un cugino gli ha strappato il braccio al bambolotto preferito.

 Ma comunque.

 "Le ferite originali" raccontava di uno splendido modello bisessuale e bipolare e della sua vita completamente frammentata a confusa.
I suoi tre amanti, Dafne la fidanzata storica, Dante il bel quarantenne solido e dal sangue freddo e Davide, sexy dottorando in materie scientifiche che non sa di essere sexy, ruotavano attorno alla sua disperazione con una certa inquietudine, incerti se farsi catturare e distruggere o dar retta all'istinto di conservazione.

 Tra le cose insolite c'era anche l'inedito prevalere dell'istinto di conservazione, materia da sempre rara nei romanzi che amano invece passioni assolute e distruttive.

 Cristian che a fatica e quasi mai con successo tiene assieme i suoi pezzi impazziti, fa molto sesso.
 Lo fa per calmarsi, lo fa per calmare, lo fa perché lo pagano, perché gli piace, perché non percepisce più il sesso come una parte di un tutto, ma come il tutto.
 La chiamano la trappola della sineddoche, quando prendi una parte per significare il tutto, ed è quello che diventa il sesso per lui, una gigantesca trappola che imprigiona tutti, o quasi, coloro che finiscono nel suo raggio d'azione.

 Non sfugge a questo incantesimo neanche il suo unico fratello, Julian, etereo diciassettenne che avrebbe già parecchi problemi di suo senza un ingombrante e debordante fratello a peggiorare drasticamente la situazione.

 Questo secondo libro, "Tutto chiuso tranne il cielo", è dedicato proprio a lui.

 Lo ammetto, nel primo libro non era un personaggio che mi avesse colpito particolarmente.
 Sapendo che ci sarebbero stati altri libri con protagonisti personaggi apparsi nel primo romanzo, avevo sperato, come molti, che la Caruso si sarebbe concentrata su Dante o Davide, invece ecco Julian, fratellino minore la cui principale preoccupazione nella vita è scomparire (cosa che narrativamente gli era riuscita benissimo visto che ricordavo poco o niente delle sue apparizioni ne "Le ferite originali").
 La storia inizia più o meno un anno dopo il libro precedente. 

 Julian è stato un anno a Tokyo dove, oltre a imparare la lingua, ha appreso la straordinaria arte di scomparire completamente in una grande città.

 E' una cosa che soffrono molto tante persone quando, per ragioni di studio o lavoro, se ne vanno da paesi o cittadine piccolissime per approdare in megalopoli più o meno mega: nella grande città non sei nessuno, non sei importante (quasi) per nessuno, nessuno ti conosce e, tendenzialmente, è interessato a farlo. Sei solo in mezzo a milioni di persone che se la passano quasi come te.

 Ad alcuni questa cosa fa impazzire, ad altri piace da morire. Julian fa parte della seconda categoria visto che ha passato una vita a cercare di fondersi col paesaggio nel tentativo disperato di diventare il collante trasparente della sua dissennata famiglia.

 Eppur c'è della vita in quel suo esilissimo corpo che non nutre quasi mai, impegnato a trascinarsi in giro fingendo di non cercare niente e in realtà sempre alla disperata ricerca di non andare mai sotto il pelo dell'acqua. Devo andare sott'acqua, si dice, ma poi sa che non ci andrà mai, perché vuole sparire, ma non vuole morire.

 Il libro scorre via veloce, tra incontri fugaci in un'estate milanese che solo chi ha passato un'estate a Milano sa quanto sia terrificante (ragazzi, il caldo, il caldo che fa in questo posto in estate mi terrorizza per tutti i restanti mesi dell'anno): trentenni che si lamentano (mai nessuno fu più specialista di noi), padri che non capiscono bene quale genetica abbia assegnato loro determinati figli (non solo i figli si chiedono perché hanno certi padri), webstar sull'orlo della dissociazione, amici multietnici in una Milano futuristica.

 Ecco, Milano, a leggere questo libro sembra il posto fantastico dove qualunque giovane italico assetato di futuro vorrebbe vivere: multietnico, quartieri favolosi, celebrità web ad ogni angolo, architettura siderale con la periferia e il centro che distano venti minuti di tram (anche mezz'ora, ma se venite da Roma mezz'ora di tram è praticamente centro città).
 Il posto dove vorresti vivere, poi realizzi, come me, che ci vivi e, beh, si sta benissimo (a parte d'estate dove ti maledici per la tua sconsiderata scelta), ma non siamo ancora alla Tokyo italiana (ma bisogna lavorarci).

 E' un libro solo all'apparenza leggero che racconta un enorme peso interiore, la voglia di potersi permettere di essere sé stessi e il dramma di non riuscire a concederselo.

 Julian non si odia, la sua non è una storia di generico malessere giovanile dovuta al male di vivere o a una famiglia disastrosa. Dà l'impressione che anche senza di essa non avrebbe avuto una vita semplice perché non se la sarebbe permessa.

 E' una di quelle persone perennemente protese verso un'ideale di felicità perpetua generale irrealizzabile: nessuno deve ferirsi, nessuno deve essere infelice, tutto può essere riparato. E siccome ogni cosa ha un prezzo, il sacrificio sarò io.

 Ma la vita non accetta (sempre) sacrifici volontari, non ne ha bisogno, perché ha una direzione che non possiamo governare da soli.

 Il libro racconta l'estate di questa consapevolezza, l'idea di un'onnipotenza adolescenziale che fa i conti con l'età adulta incalzante.

 E certe volte, anche se ce l'hanno spesso raccontata in un altro modo, non è per forza un male.

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