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giovedì 20 giugno 2019

Una storia quasi soltanto nostra. I moti di Stonewall e la nascita del movimento LGBT tra esasperazione, favolosità e il diritto di splendere alla luce del sole

 Il primo pride non si scorda mai.

In realtà io mi ricordo anche il primo pride a cui non sono andata. Correva l'anno 2007 e un mio amico, l'unico gay oltre me che conoscessi bene all'epoca, aveva deciso di prendermi sotto la sua ala protettiva.

 Mi portò con sé qualche volta a Roma nei locali, ma io ero ancora una specie di palla di timidezza e spavento.

 Ricordo che in quel periodo, cercando di farmi forza, leggevo delle orribili raccolte di racconti "Le principesse azzurre", orribili perché i racconti erano quasi tutti davvero brutti (almeno per me), ma assai meritevoli perché era l'unica cosa lesbica che potevi trovare in libreria senza prima fare una ricerca bibliografica preventiva di ore.

 Pensavo, leggendoli, che a me non sarebbe mai capitato di avere un gruppo di amiche lesbiche, che l'amore chissà come avrei mai fatto a trovarlo, che quelle vite, insomma esistevano solo nei libri, nei film o al massimo in America.

 Lo stesso amico cercò, inutilmente, di trascinarmi al Pride, ma io mi vergognavo. 

 Non so dire esattamente ora perché, ma mi metteva un'ansia esagerata, come se, metterci piede volesse dire prendere una posizione definitiva: il mio posto adesso è realmente qui, io sono una di loro.

 E' stata forse la cosa che ci ho messo più tempo a capire: poiché di essere lesbica me ne sono accorta a 21 anni (anche se dei sospetti seri potevano venirmi già dalla preadolescenza, ma vabbeh) ho fatto proprio fatica a fare lo switch mentale. Quella che più comunemente si chiama accettazione.

 La presa di coscienza mi ha lasciato stordita quel paio di annetti in cui cercavo di illudermi che non sarebbe mai arrivato il vero momento di affrontare la questione di petto.
 Così nel 2007 avevo deciso, in preda a un'agitazione che ancora mi ricordo, che proprio no, non ce la facevo.

 Il primo pride a cui andai fu il Pride di Roma del 2009 e fu anche l'occasione in cui conobbi la mia attuale moglie. Lo ricordo come un evento bellissimo, enorme, colorato, mi sembrava di respirare come mai nella vita. Ero felicissima.
 L'unica ombra che ricordo è una vecchia che si prese la briga di fermarci e dirci che "Eravamo due belle ragazze, tanto normali, e allora perché? Perché?".
 E il perché gli etero si preoccupino tanto di quello che fanno gli omosessuali è un po' la grande domanda che aleggia sempre.

 Anche se ultimamente c'è la tendenza a credere che non ci sia bisogno di una sensata motivazione per compiere una determinata azione, in realtà esiste sia un motivo per il quale il pride è volutamente estroso, sia per il fatto che si svolge nel periodo meno adatto a mettere su una manifestazione di massa ossia l'estate (mai dico MAI mi dimenticherò il caldo che faceva al pride di Milano due anni fa, ho avuto una congestione per il caldo).

 Entrambi i motivi risalgono ai famigerati moti di Stonewall, famigerati almeno per chi del movimento LGBT fa parte, molto meno tra chi lo guarda da fuori.

 La notte tra il 27 giugno e il 28 giugno del 1969, cinquanta anni esatti fa, a New York la polizia fece irruzione in un bar gay (frequentato però anche da lesbiche e transgender) per sgomberarlo e chiuderlo, con solita retata, identificazione, manganellamento ecc.

 Era una consuetudine questa, piuttosto diffusa negli Stati Uniti: le retate improvvise nei bar gay per le motivazioni più disparate, dall'indecenza al divieto di servire alcolici agli omosessuali.

 Quella notte però non andò come previsto e la gente presente allo Stonewall Inn si ribellò dando vita a degli scontri con la polizia locale che andarono avanti per cinque giorni.

 Le motivazioni che fecero letteralmente e improvvisamente traboccare il vaso sono rimaste tuttora misteriose.

 C'è chi dice che ormai i tempi fossero maturi perché finalmente avvenisse, chi sostiene che la prima ad essere aggredita fu Stormé Delarverie, una drag king molto conosciuta nell'ambiente all'epoca, chi fantasiosamente dice che fosse collegato alla recente morte di Judy Garland, nota icona gay, che avrebbe dato fuoco alle polveri.

 Nessuno lo sa con certezza.

 In ogni caso, viene ormai ritenuto leggendario momento d'inizio degli scontri, la famigerata scarpa col tacco (o la bottiglia) che Sylvia Rivera, transgender e drag queen, lanciò contro la polizia dopo essere stata aggredita.

 Gli scontri furono un punto di svolta.

 Per la prima volta si capì che non era necessario sopportare tutto, lo sgombero, le retate, l'identificazione, le botte, la derisione, l'umiliazione. Si poteva e si doveva reagire. E si poteva e si doveva reagire solo smettendo di nascondersi.

 Bisognava essere visibili, bisognava mettere la società di fronte a quello che aveva sempre voluto nascondere, soffocare eppure usare quando ne sentiva la voglia.

 I moti di Stonewall sono il motivo per cui il pride si svolge a Giugno e per il quale continua a essere un evento variopinto, divertente, gioioso e anche eccessivo.

 Per secoli omosessuali e transgender sono stati costretti a nascondersi e a vergognarsi per l'ansia di controllo e possesso di una maggioranza eterosessuale che li ha accusati di ogni nefandezza possibile pur di annientarli.

 Ma ciò che rende la comunità LGBT diversa dalle altre minoranze è la sua assoluta casualità. Si nasce omosessuali o transessuali con un'assoluta casualità non predeterminata: si nasce soli in una famiglia composta da membri solamente eterosessuali (o quasi, solitamente c'è sempre uno zio strano che misteriosamente non si è sposato e ha una vita privata oscura), si frequentano scuole, associazioni, sport, piazzette, compagnie, gruppi composti quasi sempre per intero da altri eterosessuali.
Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera

 Non nasci in una famiglia o una comunità che è come te, come accade a tutte le altre minoranze che condividono religione o etnia o lingua.

 E allora cosa può unire persone che nascono ovunque, in ceti sociali diversi, etnie diverse, religioni diverse unite solo da un comune destino?

 Una cultura comune e condivisa. Ed è questo che il pride rappresenta: la sintesi di tutto ciò che siamo, la rivendicazione ad una non omologazione, quell'omologazione che ci è richiesta contro la nostra natura sin dalla nascita.

 Perché chiedere un pride sobrio se non per sentirsi rassicurati nel vedere gli altri "come noi"?

 E perché sentiamo la necessità di saperli esattamente come noi? Perché ciò che devia dalla norma è disturbante, mina le certezze, costringe a guardare le cose da altre prospettive, a prendere in considerazioni questioni che vorremmo solo dimenticare.

 Quando il ministro Fontana dice cose violente come "le famiglie arcobaleno per me non esistono" sa che non sta attuando una magia da Harry Potter che gli permetterà di veder svanire gli omosessuali e le loro famiglie dal pianeta.

 Si sta illudendo di tornare a quel passato ancora troppo vicino nel quale vivevamo nell'ombra, una parte di noi, quella privilegiata, col lusso di potersi permettere una doppia vita infernale: la famigliola etero di giorno e l'incoffessabile verità di notte.

  E la parte non privilegiata, le lesbiche e le transgender prese come barzellette e sogno erotico per uomini etero le prime e come malate da usare per le proprie fantasie sessuali le seconde.

 Ma noi non vivremo più in funzione di qualcun altro, alle leggi di qualcun altro, al sobrio e ipocrita buongusto di qualcun altro.

 Non si è più o meno meritevoli di un diritto se si va in giro vestiti da impiegati statali o coi boa di piume di struzzo, perché i diritti non sono un premio per chi si comporta bene, i diritti sono di tutti e vanno strappati e pretesi.

 Perciò con buona pace di Fontana, di Pillon, di chiunque storca il naso quando vede un seno di fuori, una gonnellina di piume, un crossgender, una lesbica butch o un uomo coi tacchi a spillo, qui nessuno tornerà nell'ombra.

 E c'è ancora molto, troppo, per cui purtroppo combattere per appendere le bandiere arcobaleno al chiodo.

Vorrei consigliarvi qualche libro da leggere sull'argomento, ma, ebbene sì, non esiste praticamente niente in lingua italiana.
  La Bonelli ha appena fatto uscire un fumetto e una trentina (trenta) di anni fa è uscito un volumetto di Massimo Consoli delle ed. Napoleone dal titolo "Stonewall. Quando la rivoluzione è gay".

Vi consiglio però di vedere una bella serie Netflix, "Pose".

 La serie è ambientata negli anni '80, proprio nel pieno dell'epidemia di AIDS.
Racconta in modo molto efficace la diversa stratificazione di discriminazione all'interno dello stesso mondo lgbt e i motivi alla base della costante ricerca di favolositàh del mondo lgbt, disperatamente proteso nel desiderio di splendere nonostante i continui tentativi di emarginazione e umiliazione.

Ps. Sì, ho notato che molte aziende quest'anno si sono arcobalenizzate, sì sono contenta per loro, ma non mi illudo che non ci sia una strategia che preveda qualcosa come "Ehi, i gay non ci hanno ancora dato tutti i loro soldi!".
 I diritti sono una cosa sera, non l'ennesima quota di mercato, ma questa è un'altra storia e un altro post.

1 commento:

  1. Io non vedo l'ora che il Pride non serva più.
    Non vedo l'ora che il mio tenermi per mano con un uomo e il tuo tenerti per mano con una donna siano la stessa, identica cosa, e nessuno se ne accorga nemmeno più.
    Non so quanto tempo ci vorrà, temo che non ci arriverò in questa vita. Ma bisogna arrivarci, e per arrivarci è necessario anche il Pride.
    E finché è necessario godiamocelo, che nonostante il caldo malefico è sempre una giornata spettacolare ;-)

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