Avevo iniziato le vacanze di natale con uno spirito a dir poco gioioso e le ho finite col morale sotto le scarpe.
So che non si leggono i blog per trovarsi partecipi involontari delle sventure altrui, ma è difficile celare lo stato d'animo al momento.
Sapevo che questo 2020 sarebbe iniziato in salita, con decisioni importanti da affrontare e problemi di certo non piccini, ma credevo che almeno avrei avuto la carica emotiva necessaria.
Invece no.
E non esiste corso di coaching che tenga, se hai appena preso un ceffone imprevisto in faccia, non sarà certo fingendo che il livido non esista che ti riprenderai.
Per tutti questi motivi, durante queste vacanze, ho preso una decisione forse non molto da lettore forte: non ho praticamente letto.
Avevo in coda tanti fantastici libri che attendevo solo il momento di poter leggere con calma, ma avevo letteralmente il terrore che potessero aprire nella mia mente ancora più finestre di quelle che già si erano spalancate.
Certo, la possibilità che dai libri venisse la risposta a tutte le mie domande era sempre una speranza concreta, ma sappiamo tutti che queste cose nel 90% dei casi avvengono solo nei romanzi o nei film fatti apposta per lettori forti.
Ho quindi resistito eroicamente alla tentazione durante viaggi in treno avanti e indietro per l'Italia, in aereo, persino durante il soggiorno viennese (dove al massimo avrei concesso una possibilità alla biografia di Sissi o Maria Teresa d'Austria se fossi stata abbastanza previdente da procurarmene una), ma ho infine ceduto a un passo dalla fine.
L'aereo ha tardato tre quarti d'ora e mi sono ritrovata a leggere "Canada" di Richard Ford che era uno di quei libri che avevo in progetto di assaltare da parecchio tempo (l'altro che era in coda era "Martin Eden", ma sarà per la prossima volta).
Ovviamente mi sono ficcata nella situazione in cui non volevo trovarmi: pensare di più, girare ancora più attorno agli stessi pensieri.
Mi è sembrato di finire esattamente lì dove non volevo andare: in mezzo ad un libro che avrebbe potuto darmi degli strumenti per interpretare meglio il mio presente esattamente come in un romanzo abbastanza prevedibile per lettori forti.
Questa cosa apre due possibilità.
La prima è che io sia stata effettivamente toccata da una serendipità del destino.
La seconda è che siamo portati a vedere nei libri ciò che desideriamo disperatamente trovare in quel momento.
E' il motivo per il quale ogni lettore, pur leggendo lo stesso romanzo, vede un libro completamente diverso. Ed è sempre lo stesso motivo per il quale, leggendo lo stesso libro in diversi momenti della vita, ci appare ora splendido ora insignificante.
Il libro esiste come contenuto oggettivo e come oggetto, ma siamo noi a riempirlo delle nostre emozioni.
In questo caso specifico credo sia stata una fortuita commistione dei due fattori.
La storia, come è presentata nella quarta di copertina, ci presenta le vicissitudini di un ragazzino, figlio di un'improvvisata coppia di rapinatori di banche.
Ovviamente le quarte di copertina sono nate per sviarci, come anche, in questo caso, la copertina, che suggerisce una storia assai più contemporanea di quella affrontata nel libro che si svolge all'inizio degli anni '60.
Il narratore, Dell, è un ormai anziano insegnante canadese di origini statunitensi e racconta il modo in cui a quindici anni abbandonò forzatamente la sua patria e divenne canadese.
O almeno questo è quello che lui dice di volerci raccontare.
In realtà almeno per la prima parte si dilunga incredibilmente (e a posteriori anche giustamente) sull'evento che cambiò la sua vita all'improvviso: come fu che due persone incredibilmente normali, un ex aviatore bello e simpatico, e sua moglie, una seria insegnante di origine ebraica, decisero di commettere una rapina.
Come spesso accade, le motivazioni che portano a compiere gesti devastanti e stupidi al tempo stesso, hanno premesse altrettanto devastanti e stupide.
Una certa infelicità di fondo dovuta a un matrimonio casuale e insipido, una sensazione di scarsa realizzazione personale da parte di entrambe le parti, e un evento scatenante che col senno del poi avrebbe potuto essere gestito in modo assai più sensato.
Il senno del poi però è la cosa più inutile del mondo e lo sappiamo tutti.
Quando perciò la coppia di improvvisati rapinatori viene arrestata e tradotta in carcere, iniziano i guai per i due figli gemelli: il succitato Dell e sua sorella Berner.
Li aspetta un orfanotrofio del Montana, ma loro decidono altrimenti e ognuno dei due, a quindici anni, prende la sua strada.
Il romanzo assume quindi una piega picaresca e segue Dell nella sua fuga in Canada, ospite improvviso e improvvisato, di un avvenente americano che vive, per motivi apparentemente incomprensibili, oltre confine.
Siamo negli anni '60, ma sembra di essere in un romanzo di Defoe o di Dickens: lo sventurato protagonista alle prese coi rivolgimenti della sorte.
Da romanzo quasi psicologico diventa di colpo una storia d'avventura ottocentesca, per poi tirare le somme in un finale che non rimette tutto al suo posto, ma cerca di dare un significato a una vita che per lunghi tratti è sembrata essere in balia degli eventi e in altri nelle mani del suo proprietario.
Cosa ci promettono sorridenti venditori di illusioni del resto?
Che tutto è davvero sempre nelle nostre mani.
E cosa piace invece credere a chi non ha la volontà neanche di provare?
Che tutto è affidato al caso e alla sorte.
Ma la verità ci dice Ford, sta nel mezzo.
Sta nel non perdere mai il senso nel nostro continuo infrangersi tra i flutti del destino, sta nel tenersi saldi anche quando ogni cosa sembra perduta e tentare e credere sempre che si possa riemergere e trarre un insegnamento.
Non basta crederci intensamente per avere la vita che vogliamo, ma possiamo lasciarla emergere con pazienza nel caos a cui siamo incessantemente consegnati.
Un ragazzino di quindici anni poteva prendere molte decisioni. Poteva, come sua sorella, scappare per vivere di comune in matrimonio fallito, oppure poteva ostinarsi verso il suo obiettivo: andare a scuola. E a questo suo obiettivo sacrificare la libertà e anche l'innocenza.
Non possiamo mai sapere quale prezzo pagheremo per ottenere la vita che vogliamo, ma possiamo comunque ostinarci a rincorrerla.
Anche perché, dopotutto, non c'è un altro modo onorevole per impiegare le nostre esistenze.
"Credo che quello che vedi sia quasi tutto quello che esiste, come ho insegnato ai miei studenti, e che la vita che riceviamo sia vuota. Così mentre il significato pesa, e molto, questo è il massimo che può fare. Quello che c'è sotto quasi non si vede.
Mia madre disse che avrei avuto migliaia di mattine per svegliarmi e pensare a tutto questo, quando nessuno mi avrebbe detto cosa devo sentire. Ormai sono molte migliaia. Quello che so è che nella vita hai migliori possibilità -di sopravvivere- se sopporti bene le sconfitte, se riesci a subordinare, come indicava Ruskin, a mantenere le proporzioni, a collegare le cose diseguali in un intero che protegga quanto c'è di buono, anche se bisogna riconoscere che spesso il buono non è semplice da trovare. Ci proviamo, come disse mia sorella. Ci proviamo. Noi tutti. Ci proviamo."
Un grosso in bocca al lupo
RispondiElimina