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lunedì 7 settembre 2015

Perché non usciamo dalla casa stregata? "L'incubo di Hill House" di Shirley Jackson tra lezioni di ballo, tensioni erotiche imprevedibili e l'insondabile mistero della cattiveria umana.

Forse non tutti sanno che, alla scuole medie, non è obbligatorio studiare flauto. 
Il programma di educazione musicale, infatti, prevede che si possa dare sfogo ad un'attività musicale pratica anche attraverso il canto e il ballo.
 Al culmine della pigrizia studentesca, la mia classe, pur di non prendere uno strumento musicale in mano, implorò la vegliarda professoressa di musica prima di dedicarsi al canto, poi, per due anni, al ballo. Pensavamo che ciò ci avrebbe messo al riparo da studi casalinghi supplementari (con tutto il bene, nessuno può verificare che tu abbia ballato con solerzia a casa).
 La cosa ovviamente ci si ritorse contro: fomentata dall'insperato evento, la vegliarda tirò fuori un'assurda coreografia ispirata ad un canto popolare piemontese (perchè? non si sa) e pretese che provassimo un pomeriggio ogni due settimane in previsione di un saggio di fine anno. 
 Le ultime prove dovettero essere fatte ove tale saggio avrebbe avuto luogo: una chiesa sconsacrata su cui generazioni di writers avevano dipinto vari insulti innominabili. Un pomeriggio la prof si dimenticò di noi, così ci trovammo, un branco di tredicenni, alle tre del pomeriggio nel niente a fissare un portone. Dopo mezz'ora fu chiaro che costei non sarebbe arrivata, ma, visto che i cellulari ancora non erano tra noi e ci avrebbero recuperato solo un'oretta dopo, decidemmo di fare una gita alla casa dell'impiccato.
 Tale casa era una palazzina sfitta da svariati anni che si diceva fosse in tale stato a causa di una serie di impiccagioni seriali dei padroni di casa (leggenda senza alcun fondo di verità). Presi da euforia commettemmo un'effrazione e iniziammo a girare per la magione che si rivelò non abbandonata poi da così tanti anni (c'erano ancora mobili, malgrado i vetri e la porta rotti). Dopo una mezz'ora inquieta, uno di noi strillò e ci precipitammo tutti fuori in preda ad immotivato panico. La colpevole del grido aveva visto un topo, ma di fantasmi di impiccati neanche l'ombra.
 Terminammo il nostro momento Stephen King inseguiti dal vicino di casa, a quanto pare esasperato dalle continue incursioni di ragazzini nella casa abbandonata. Tacemmo il reato, in fin dei conti, una volta ispezionata, la palazzina non aveva questo gran fascino fantasmagorico e la sensazione di essere entrati in casa altrui (per quanto abbandonata), si rivelò alquanto spiacevole. Per la cronaca la prof non arrivò mai, aveva sbagliato giorno.
 Tutta questa pappardella è per introdurre un bel libro di Shirley Jackson, maestra dell'horror amatissima da Stephen King e Dorothy Parker, che, negli anni '50 (prima di morire prematuramente), scrisse una serie di romanzi di successo che ponevano le basi per una delle pietre miliari del perturbante cinematografico: la casa infestata dalla quale, la gente dentro, per qualche motivo non scappa mai.
 La quarta di copertina de "Gli incubi di Hill House" (che in una prima traduzione era intitolata "La casa degli invasati" non so bene perché) si apre con un interrogativo che tutti, prima o poi, nella vita ci siamo posti: "Per quale motivo, se non l'insipienza degli sceneggiatori, nei film horror la gente non trova la via della porta delle case stregate (se non di notte, col buio e generalmente in un bosco)?".
 Il libro della Jackson con garbo estremo, un'atmosfera da film d'antan, personaggi magnificamente doppi e persino una grossa dose di autoironia, ce lo spiega in questo libro che ebbe suo malgrado una terrificante trasposizione cinematografica ("Haunting- Presenze") in cui nessuno degli attori scelti era calzante per il ruolo.
 La storia inizia con la trentenne Eleanor "Nell" Vance che riceve l'invito da uno stimato antropologo appassionato di paranormale, a passare un certo periodo di tempo in una casa che lui ritiene profondamente infestata da spiriti, "Hill House". Eleanor ha accudito la madre malata per anni, una donna di cui si intuisce essere stata profondamente succube e la cui morte l'ha molto segnata. I lunghi anni che le ha passato accanto l'hanno resa una persona fragile, introversa, ma anche un filino paranoica, invidiosa e fondamentalmente quel che a Roma si definirebbe un accollo.
 Perché l'ameno prof ha scelto proprio lei per indagare il mistero che avvolge l'orrida casa, costruita volutamente male da un signorotto morboso con le figlie e ossessionato dall'inferno? Perché dopo la morte del padre lei e sua sorella erano state vittima di un fenomeno paranormale peculiare: per tre giorni erano state investite da una pioggia di pietre rotolanti dalle pareti di casa.
Quando giunge sognante al maniero incontra i suoi compagni di avventura: la bella e volitiva (e un filino prepotente) Theodora, una ragazza lesbica con poteri vagamente telepatici e Luke, il nipote della proprietaria di Hill House. I tre, assieme al prof, e successivamente alla sua invadentissima moglie, abitano per una settimana Hill House in un crescendo ansioso che si risolve in un finale tanto tranquillo quanto terrificante.
 Due sono le cose estremamente interessanti di questo libro:
Ve lo giuro un cast scelto peggio rispetto ai personaggi del libro,
era difficilissimo caparlo
1) I personaggi del romanzo, nonostante l'evidente infestazione, non scappano in effetti da casa e il motivo viene spiegato: la casa, in qualche modo, è un'entità che non solo li corrompe, ma li ammalia. Il terrore si fonde ad una strana euforia dalla quale gli abitanti diventano dipendenti, in un misto di terrore e piacere molto sottile.
2) I fantasmi non sono la cosa più terrificante della trama. Essi, assieme alla forzata clausura, fungono da catalizzatore a ciò che esiste di veramente orribile a questo mondo: la cattiveria degli esseri umani nei confronti dei propri simili.
 Come avviene in tutti i piccoli gruppi, individuare l'elemento debole, quello nei confronti del quale indirizzare tutte le accuse, gli scherzi, le battutine e frecciatine, (per poi, davanti alla sua ribellione accusarlo di paranoia o di voglia di attirare immeritate attenzioni), è un attimo. Talmente tanto semplice che individuarlo, anche per il lettore, è facilissimo.
 Luke è il classico ragazzotto allegro, amato e ricco (malgrado le mani bucate), il professore funge da classico adulto che considera stupide le schermaglie tra ragazzini fino a quando non è troppo tardi, Theo è la bella, vincente, con un appartamento suo, una vita indipendente, il guardaroba bellissimo e la battuta avvelenata pronta. L'amica, insomma, che davanti è uno zucchero, poi ti giri e ti fa apparire un mostro agli occhi degli altri.
 Quello che scombina l'ovvio piano narrativo è la tensione erotica che si crea tra i personaggi che crea un triangolo ben lontano da quello prevedibile.
"La lotteria" è il racconto che dà il titolo
alla raccolta, e narra di un piccolo ameno
paesino dove è in corso una lotteria tra tutti
i bravi abitanti del paese. Ma perché?
 Nell è profondamente affascinata per la prima volta in vita sua da una persona e quella persona non è Luke, ma Theo a cui tenta di accollarsi giurando che vivranno insieme e che, al termine dell'avventura, diventeranno coinquiline. Theo prima la stuzzica (principalmente per dare polpette di manzo al proprio ego), poi quando capisce che ha davanti una persona un filino emotivamente instabile cerca di respingerla con garbo/cattiveria. 
 Nel frattempo la casa trama nell'ombra ed esaspera animi già parecchio esasperati di loro ponendoci davanti un interrogativo: potrebbe la casa avere un qualche effetto sui suoi ospiti se essi non nascondessero nel profondo un qualche tipo di meschinità?
 Ovvero, è la casa ad essere malvagia o semplicemente essa attecchisce dove trova un fertile terreno? Forse non basta correre via da una casa per sfuggire alla cattiveria che nascondiamo nell'animo, a quella voglia di umiliare il prossimo, a quella crudeltà che non sappiamo riconoscere e che è prevaricazione del prossimo, gratuito scherno, desiderio profondo di dimostrare che altri sono inferiori per sentirci superiori. 
 Shirley Jackson sapeva bene che ci sono mura dalle quali non si può uscire, quelle che costruiamo noi e non vediamo, mura invisibili che diventano invalicabili e da cui sfuggire può diventare uno sforzo superiore alle nostre forze, naturali e sovrannaturali.

Ps. Di Shirley Jackson ho letto anche la raccolta di racconti "La lotteria" e sono alla ricerca di "Abbiamo sempre vissuto nel castello". I racconti confermano la sensazione dell'horror usato come mezzo per dimostrare il perturbante presente nella società.

5 commenti:

  1. haunting e' stato uno dei miei primi horror, da allora adoro liam neeson, avevo 10 anni...circa due anni fa ho trovato il libro: inutile dire che l'ho amato

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    1. Ma dopo aver letto il libro dimmi in tutta sincerità: non avresti visto ben altri attori a interpretare i personaggi? Io trovo la Zeta-Jones considerevolissima, ma devo dire che era davvero poco in parte.

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  2. Ho visto la pellicola al cinema e mi fece un certo effetto. Rivista in tv, ho riscontrato uno smalto inferiore. Terrò conto del suggerimento per il libro.
    Un sorriso per la giornata.
    ^___^

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  3. Haunting l'ho visto secoli fa,non lo ricordo tanto bene.
    Cmq sono d'accordo,la cosa + brutta altro che mostri e fantasmi,sono le cattiverie dei nostri simili(sopratutto quelli che si fingono nostri amici)!!!
    Sei nel mio blogroll!non mi ricordo se te l'avevo già detto :)

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  4. in questi giorni, fra una traduzione di Shakespeare in pillole e l'altra, sto leggendo il suo libro di racconti 'Come along with me' (biblio ameircana, ignoro se sia mai stata tradotto in italiano)
    . In ogni caso, è molto interessante: credevo fosse anche questa di genere fantastico-orrifico, invece la si potrebbe definire minimalista; piccole storie di piccola gente nella provincia (o città) americane fra le due guerre o nell'immediato dopoguerra/anni '50; credo che Carver la conoscesse molto bene, anche se a me, più che Raymond Carver, ricorda l'amatissima Katherine Mansfield....

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