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martedì 29 marzo 2016

Quello che è davvero l'amore. La recensione de "La cartella del professore" di Hiromi Kawakami, una storia dolce, delicata e carica di rispetto tra office lady, solitudine, vecchiaia e parecchio cibo.

 Come avrete notato, non recensisco spesso libri che abbiano trame amorose.
 Anche a San Valentino ho dei seri problemi a dare consigli perché, in genere, le trame incentrate unicamente sul sole cuore amore mi annoiano sempre. Il caro vecchio lui ama lei (o le sue rari varianti lgbt) ha su di me scarso fascino.
Mmmm mmmm mmmmi faccia pensareee mmmm mmm
 Tendenzialmente mi piace la fase in cui i due si innamorano, ma poi quando inizia la sordida parabola discendente mi prende male. Sto lì che penso: ma lasciatevi, quanta vita sprecata, se invece di farvi tutte queste fisime mentali sulla morale vi lasciaste subito avreste più tempo per altri amori. Che poi è quello che penso anche nella realtà davanti alle coppie che si trascinano per anni senza un vero perché.
 Il fatto che le storie d'amore in cui mi imbatto abbiano una fine infelice è perché non leggo narrativa rosa e, posso assicurarvi, quando arriva una persona che mi chiede una storia d'amore che non sia melensa e che finisca bene, si spalanca la porta dell'inferno.
 Io inizio a pensare e a produrre suoni da mucca "Mmmm mmmm mmmm" per prendere tempo e farmi venire un'idea, poi arpiono il primo collega a cui passare la patata bollente e allora muggiamo in due "Mmmm mmm mmm" e alla fine è capace che finiamo a muggire in quattro senza produrre un titolo. L'amore, quello serio, a quanto pare deve finì sempre in sofferenza, perché si sa, la vita è tanto amara (e diciamoci la verità, quale scrittore di commedie ha mai vinto il Nobel?).
 Questi giorni però ho letto una storia d'amore che mi è piaciuta moltissimo: dolce, delicata, giusta nei tempi e nelle intenzioni, senza una volgarità, una parola fuori posto, romantica senza essere melensa, con quel tocco di malinconia che posseggono tutte le vere storie d'amore.
 Sto parlando de "La cartella del professore" di Hiromi Kawakami ed. Einaudi. 
 In realtà avevo letto la versione a fumetti, un doppio albo di Jiro Taniguchi dal titolo "Gli anni dolci", qualche anno fa, senza sapere che provenisse da un libro (forse l'avevo letto nella prefazione, ma colpevolmente dimenticato subito). Come tutte le opere di Taniguchi mi era piaciuto molto il modo lieve di raccontare una situazione ordinaria in modo assolutamente straordinario. Il tutto senza bisogno della gran parte degli effetti che mi disturbano in molte graphic novel: quei disegni caotici e spesso inquietanti che mi impediscono di godermi la storia.
 Taniguchi aveva cesellato il suo solito ottimo lavoro di lunghe pause, silenzi, giornate assolate in mezzo a città deserte, cibo che appare delizioso anche se è solo disegnato e locali pieni di gente che rendono la solitudine solamente più acuta.
 La più grande sorpresa di questo libro è stato scoprire che il ritmo giusto, quell'anticlimax in cui non accade niente per mesi e nessun evento eccezionale determina la nascita di un amore (come avviene nel 90% dei casi nella realtà), non era opera del buon Jiro, ma dell'autrice, a cui il fumettista era stato straordinariamente fedele.
 La storia è quella di Tsukiko, una donna single di avviata verso i quarant'anni che vive sola e lavora in una ditta. In Giappone le chiamano le OL, le office lady, il cui termine ricomprendete le donne che lavorano nelle ditte e generalmente si dimettono una volta sposate. 
 Sono pochissime quelle che resistono in genere donne certa cultura, laureate, che hanno deciso molto drasticamente, di rimanere consapevolmente non sposate. 
 Del resto essere una moglie e madre in Giappone non è una passeggiata di salute (non lo è da nessuna parte per carità): gli obblighi sociali a cui queste povere donne sono costrette in nome di un onore personale che si misura sulla pulizia della casa, la capacità di cucinare, accudire bambini e anziani, il tutto mentre si è sempre sorridenti e impeccabili, sono una roba ansiogena. 
 Senza contare la continua pressione sociale verso la perfezione di cui sono vittime: le nostre vicine di casa al massimo spettegolano, lì un pavimento non tirato a lucido rischia di sfociare in un caso di quartiere.
 Perciò diciamoci il vero, come non va di sposarsi a molte donne occidentali i cui compagni non hanno ancora scoperto l'aspirapolvere e la condivisione dei compiti casalinghi e della cura di prole e anziani, va meno che mai a delle giapponesi che hanno studiato come delle pazze fino alla laurea, superando montagne di esami e anni di studio intensissimo. Il problema dell'essere una office lady non sposata è quella commiserazione sociale neanche troppo velata che potremmo paragonare allo psicodramma di una donna non sposata degli anni '50: perché non è stata impalmata? Cos'ha che non va?
 Tsukiko resiste personalmente a questo assedio di famiglia, amici, conoscenti ed estranei, con un atteggiamento svagato e noncurante. Il suo metro di giudizio non sono gli altri, ma solo quello che si sente di fare o meno. Ogni tanto pensa velatamente ai suoi ex, a quello che avrebbe potuto fare di diverso, ma, alla fine dei conti, pensa che la solitudine sia un dignitoso prezzo da pagare per aver avuto il privilegio di riuscire a scegliere la propria vita.
 La storia comincia quando si rende conto di incontrare con insolita frequenza il suo professore di letteratura delle superiori che ha ormai una settantina di anni e, come lei, ama passare le serate in un bar (un Nomi-ya) che offre una sorta di aperitivo alcolicamente rinforzato. I clienti sostanzialmente si seggono ad un balcone dove bevono e bevono e chiedono leccornie di vario genere (ovviamente per noi rischiano di non essere tali tra balene, prugne in salamoia e fagioli salati) liberi di ciarlare tra loro o con il barista/cuoco che ha più o meno la funzione del tipico barista da bancone americano: interagisce, sbuffa, annuisce e dice qualche ovvietà.
 
Una tavola de "Gli anni dolci"
Dal momento in cui Tsukiko e il professore si riconoscono
tra i due si sviluppa prima una timida conoscenza, poi una delicata amicizia. Tsukiko sin da subito è quella, tra i due, più lanciata: vorrebbe passare molto tempo con lui, visitare casa sua, fare delle gite insieme. E' la prima ad accorgersi che il sentimento che i due iniziano a provare reciprocamente è amore e a dichiararsi.
 In una storia d'amore romanzesca il professore si sarebbe lasciato ad andare all'ultimo amore della sua vita senza remore: una donna molto più giovane di lui, libera, disponibile, piacente, cosa chiedere di più?
 Ed invece è proprio nella figura dell'anziano professore che si consuma il grande scarto di questo libro. Sono i modi, i pudori e il rispetto di un uomo di un'altra epoca che pensa prima a Tsukiko che a sé stesso. Perché dovrebbe lasciare che una donna del genere sprechi del tempo con un uomo che morirà ben prima di lei? Non sono i pretendenti, anche appetibili che le mancano, non la forza d'animo, chi è lui per distrarla dal percorso della sua vita?
 Così si sviluppa una storia che appare semplice, ed è invece costruita con rara sapienza: senza una scena fuori posto, un dialogo di troppo, un gesto azzardato. Quella tra il professore settantenne che mai ha dimenticato la prima, strana, volubile moglie, e Tsukiko che guarda la sua stessa vita come dall'alto, come dall'altra parte del vetro, è davvero una storia d'amore degna di questo nome.
 Racconta tutto quello che è necessario sapere sull'amore: che è rischio, incertezza, delicatezza, che è incontrollabile, spaventoso, incomprensibile e che sempre, in qualsiasi momento è dolce rispetto.
 Scrittura scorrevolissima, con un qualcosa di primaverile. Si piange, ve lo dico.

 E vi dico altre due cose:
1) Se siete lettori maschi e mi fate le mammole ritrose che non possono leggere libri d'ammmore perché non è il vostro genere, fate il piacere e tentate la lettura: è un libro bellissimo e diciamocela tutta, vi innamorate pure voi.
2) Per apprezzare appieno la lettura vi consiglio di finire di leggerlo prevedendo una cena al primo ristorante giapponese sulla cartina, va bene anche un orrido all you can eat, va bene tutto. Mi ringrazierete.

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