Allora, chi non segue la mia pagina di fb non saprà che in occasione dei 4000 like, glorioso traguardo per un book blog, ho dato la possibilità di scegliere tra tre premi:
1) Vignetta special.
2)La pubblicazione di un mio racconto-racconto.
3)La possibilità di scegliere il prossimo orrore libresco da farmi leggere e fumettare.
Il sadismo usato nella scelta del terzo punto che avrebbe previsto per me la lettura di "Sposati e sii sottomessa" (questa, comunque, è crudeltà!), fortunatamente
ha dovuto soccombere davanti ai voti ricevuti dal secondo punto.
Ed è per questo che con grande inquietudine interiore, oggi pennivendolo anche io e posto di seguito un mio racconto. Ditemi voi (sempre che riuscite ad arrivare alla fine senza dormire o dar fuoco al pc).
Buona letturaaaaaaaaaaaaaaa!!
Ps. L'ispirazione del racconto viene dalla canzone/video "Summertime sadness" di Lana Del Rey che sarà pure una panterona morta, ma fa canzoni che mi piacciono.
SUMMERTIME SADNESS
La ragazza indossava un
vestito ricamato bianco, sembrava fatto a mano, una cosa d'altri
tempi, eppure aveva una foggia indubbiamente moderna.
La gonna così
corta da lasciare le belle gambe scoperte per intero a far da
contrasto ad una parte superiore quasi monacale, con tanto di
collettone.
Avresti detto che stava
dormendo lì in mezzo all'erba, i capelli rosso scuro sparsi sul
terreno verdissimo e gli occhi spalancati. La macchia rossa che le si
allargava sotto inzuppandole il bel vestito era l'unica nota stonata.
Non era una bambola e non stava dormendo.
Era una ragazza bellissima,
ed era morta.
“Non deve avere più
di vent'anni”, disse Ermete.
“Secondo me non è
così giovane”, obiettai scattando una foto.
Ne avremmo tratto un
articolo splendido. Ragazza sconosciuta trovata morta ai piedi in uno
strapiombo erboso.
Tutti avrebbero voluto saperne di più della
splendida fanciulla col vestitino da bambina.
“Bah, sotto una certa
età mi sembrano tutte uguali, tutte ragazzine come le mie figlie.”
“Quale età? I
quarant'anni?”
Io ed Ermete lavoravamo
insieme da cinque anni, da quando la mia speranzosa carriera di
giornalista d'inchiesta su scala nazionale si era scontrata contro il
muro di quella che sembrava una stupidaggine ed invece era una
tragedia: le emicranie.
Sin da bambina ero stata
sempre sanissima, un'influenza una volta ogni tre anni, qualche
malattia esantematica standard, stop. Poi un giorno, quasi al termine
dell'università, mi ero svegliata con un mal di testa mortale. Un
dolore talmente forte da spaccarmi la testa in due. Pensai fosse una
freddata, un caso, una cosa fortuita, mi imbottii di antidolorifici e
mi passò tutto. Per una settimana. Sette giorni esatti dopo mi ero
risvegliata con lo stesso identico dolore e avevo deciso di andare al
pronto soccorso.
Ne erano seguiti de mesi
infernali, controlli e sottocontrolli, nessuna risposta.
Riuscii a
laurearmi con una fatica immane, lasciai il mio ragazzo, di cui non
ero innamorata da un pezzo e con cui stavo già comprando casa (o
meglio i miei genitori stavano comprando casa) e mi trasferii nella
casa di mia nonna. Aveva un appartamento molto grande in un posto
microscopico incastonato su alte montagne, elette da qualche anno
luogo di villeggiatura favorito dai molti benestanti delle città
vicine.
Erano sorte varie ville
e in estate si poteva contare persino su una certa animazione, ma
d'inverno quel posto diventava tristissimo. Gli unici giovani eravamo
io e alcune madri di famiglia che non avevo nessun interesse a
conoscere e che, del resto, non volevano conoscere me.
Le rare volte
che andavo a trovare i miei passavo il mio tempo chiusa in camera da
letto, con le tapparelle abbassate e una pezza umida sugli occhi a
implorare che il dolore finisse. In un qualche modo stavo dando sfogo
alla mia più segreta ambizione: isolarmi.
Ero sempre stata molto
socievole e piena di amici, eppure avevo sempre fatto una fatica
immane a sostenerne il peso. Fosse stato per me avrei preferito una
vita tranquilla, ritirata, con pochi amici, niente caos.
Le leggende dicevano che
bisogna sempre stare attenti a quello che si desidera, perché, prima
o poi, si potrebbe ottenerlo.
Un cugino di mia nonna
che abitava poco lontano, mi aveva letteralmente imbucato nella
redazione dell'unico giornale locale. Così scrivendo di sagre, feste
patronali, riunioni comunali e screzi tra vicini di casa, riuscivo a
vivacchiare in quel mondo sospeso, col cielo sempre coperto da un
velo di nuvole e il gelo che si attaccava alle ossa. Era la prima
volta in due anni che succedeva qualcosa di tanto eclatante.
“Ma da dove è
precipitata?”, domandai stringendomi il cappotto addosso.
Ermete indicò una
piccola terrazza circa dodici metri sopra di noi. Era la villa della
famiglia Diamanti, un palazzo settecentesco completamente bianco con
un grande giardino all'italiana, molto famoso da quelle parti.
“Ma a Villa Diamanti
abita solo il proprietario, un vecchio, no?”
“Magari è una
mitomane che ha messo il vestito bello ed è andata a suicidarsi nel
posto più bello della zona”, rispose Ermete alzando le spalle.
Quindi avevamo già
deciso che era un suicidio. Guardai di nuovo il viso della ragazza e
fui certa di averla già vista, una bellezza del genere non si poteva
dimenticare. Ma quando?
Quella sera Lea, la
moglie di Ermete, mi invitò a cena. Era sovreccitata al pensiero che
finalmente avere un marito che si ostinava a fare il giornalista
fallito, avesse un senso. Per la grande occasione si era davvero
superata: aveva preparato risotto con i funghi e pappardelle al ragù
di cinghiale, cinghiale alla cacciatora e in agrodolce, patate
caramellate al rosmarino e budini di riso. Ermete era sconcertato.
“E' il nostro
anniversario e me ne sono dimenticato?”, domandò seriamente
tirando fuori il cellulare per controllare la data.
“No tesoro”, rise
lei, “è solo che voglio sapere tutto!”.
Aveva imbandito un
banchetto per indurci a parlare. Il giorno dopo sarebbe stata la star
di tutte le massaie e i negozianti del paese: lei, moglie
dell'intrepido cronista, poteva dar loro ogni dettaglio sul delitto
della bella dai capelli rossi.
“Hanno già dato un
nome al delitto?”, domandai perplessa ingoiando il risotto.
“Tutte le tv locali ne
hanno già parlato! Secondo me si arriverà al nazionale. Era bella
come dicono?”, sorrise eccitata.
Annuii mandandola in
visibilio. Volevo bene a Lea, era simpatica e mi aveva accolto
subito, ma in quel momento la trovai odiosa. Ingoiai la splendida
cena a forza, irritata dallo sciacallaggio nazionalpopolare.
A casa ebbi un lungo
sonno pieno di incubi.
Il mal di testa, insolitamente clemente in
quel periodo, stava salendo potente. Vidi la bella sconosciuta
correre nel giardino all'italiana, il vestito corto che le svolazzava
attorno e mi sorrideva innamorata, come se fossi la persona più
importante del mondo.
Da viva le sue belle gambe snelle erano in
grado di muoversi velocissime e il suo sorriso civettuolo mi invitava
a sedermi accanto a lei, su una panchina di pietra nascosta tra i
cespugli.
Era scolpita
splendidamente, un bel putto paffuto soffiava verso l'erba con lo
sguardo spalancato.
“Guarda i fili del
telegrafo”, mi disse indicando il cielo giallo attorno a noi.
“Non ci sono fili qui
sulle colline”, le risposi mentre mi prendeva la mano.
“Senti l'elettricità
che sfrigola? Puoi vedere le scintille?”
E mi accorsi che le
vedevo e che i fili erano proprio lì, davanti ai miei occhi.
Altissimi pali che si susseguivano all'infinito. I passeri volavano
via, scottati dalle scintille blu.
“E' sempre stato
speciale questo giardino. Per noi.”
Mi sfiorò la mano e
sentii uno strano dolore.
“E' l'elettricità”,
disse lei improvvisamente triste. “Siamo come fili della corrente.”
Mi svegliai angosciata,
con le tempie che pulsavano. Era una di quelle giornate in cui non
sarei riuscita a fare altro a parte rimanere sdraiata, eppure il
sogno mi aveva indicato una strada. Io avevo davvero visto
quella panchina di pietra, ricordavo con vividezza il putto paffuto.
Era stato l'estate
prima, durante la grande festa per l'apertura del giardino di
Diamanti. Il vecchio la organizzava da anni, ogni metà Giugno, era
un modo per dare inizio all'estate, ed erano invitati solo i notabili
di turno. In genere era il direttore del giornale che si trascinava
lì con la sua compagna ingioiellata al seguito, ma, disgraziatamente
per loro, l'inaugurazione e la partenza per le vacanze aveva
coinciso.
“Ficcati un bel
vestito, vacci e ringraziami”, gli aveva detto il Kreniota
stringendo i denti.
Lo chiamavo così con
Ermete perché era cretino, aveva un cranio enorme e, già che c'era,
faceva un'ottima crasi con beota.
Così c'ero andata, mi
ero annoiata molto e avevo sorseggiato a più riprese del prosecco
molto frizzante. Incapace di stare sui tacchi e con una macchinetta
fotografica appesa al collo mi sentivo completamente fuori luogo,
nonostante l'elegante vestito blu che mia madre si era premurata di
farmi recapitare.
Avevo visto lì la
bella dai capelli rossi, forse appariva persino in qualche foto.
Peccato che il portatile fosse a lavoro e io fossi costretta a letto,
come una cretina.
“Il Kreniota mi ha
detto che assumerti è stata una sventura”, annunciò Ermete
presentandosi alla porta col mio portatile.
Gli avevo mandato un sms
annunciandogli la mia ennesima indisposizione e implorandolo di
portarmi il pc. Si era presentato a casa mia solo a metà del
pomeriggio, sudato e trafelato.
“Ha aggiunto che se
per oggi non fissi un appuntamento per parlare con Diamanti ti
licenzia.”
“Lo dice sempre.”
“Stavolta è serio.”
“Perché non ci manda
quella cretina di Bernetti?”, chiesi aprendo l'album delle foto
della festa.
“Bernetti è in
maternità.”
“In cosa? Oh,
signore.”
Una non andava in
redazione mezza giornata e le sue acerrime rivali rimanevano incinte
con niente. Era uno scandalo.
“Mai vista la pancia.”
“Nemmeno io, ma dice
che è al sesto mese e la gravidanza è a rischio. Oh, di più non
so, ma che stai cercando?”
“Questa foto qui!”,
dissi trionfante allargando lo scatto.
Eccola lì la bella dai
capelli rossi, avvolta in uno splendido abito viola. Se ne stava
sulla panchina di pietra, le gambe accavallate e il sorriso perso
verso una donna dal vestito blu cobalto, con morbidi capelli scuri
che le ricadevano sulla parte alta delle spalle.
La donna col vestito
cobalto non compariva in nessun'altra foto, come del resto la bella
dai capelli rossi.
Quella sera la mia svogliatezza mi aveva impedito
di andare oltre le foto di rito per la testata: bicchieri che si
incontravano, le mogli in vista, un'attrice tv che aveva deciso di
riscoprire la natura dalle nostre parti.
Gli ospiti secondari non
apparivano se non di sfuggita, come la bella dai capelli rossi,
relegata in un angolo del paesaggio all'orizzonte. Mi accorsi di aver
persino ripreso, ispirata, un meraviglioso tramonto che aveva
inondato le valli d'oro e porpora, un fiume di luce.
“Niente, fine delle
foto”, ammisi delusa.
“Però ora sappiamo
che conosceva Diamanti!”
“O qualcuno alla festa
di Diamanti. Si sa qualcosa di più su come sia morta?”
“Pare si sia gettata
davvero dalla terrazza.”
“Non potrebbe avercela
gettata qualcuno?”
“Non saprei, dicevano
che non c'erano segni di colluttazione.”
“Ma chi è? Non si sa
neanche questo?”
Ermete scosse la testa,
incredulo quanto me. Aveva ragione il Kreniota: dovevo trascinarmi da
Diamanti prima che arrivasse il carrozzone dei giornali nazionali.
Diamanti non era in
casa. Le imposte erano saldamente chiuse e il portone sbarrato.
Probabilmente doveva aver migrato quando la polizia era entrata a
fare i dovuti rilievi. Sapevo che aveva un lussuoso appartamento in
città, ma il mal di testa mi martellava il cranio e non riuscivo a
prendere la macchina se non per brevi tratti. La parete d'entrata era
ricoperta da un fitto strato di edera, sfiorai la superficie fresca
delle foglie. Iniziai a camminare seguendo il muro passo passo, non
avevo voglia di far nulla quel giorno, solo di dormire, d'un tratto
tastai una superficie metallica. Le foglie si erano avvolte come un
nodo nascondendo la cassetta della posta.
Era piena di materiale
pubblicitario e buste. Un foglio scritto a mano, ormai fradicio, se
ne stava attaccato per un solo lembo.
“Cambio indirizzo: si
prega di consegnare la posta di Alvise Diamanti presso la casa di
cura Villa Serena, in via Ugo Foscolo 31 xxx”.
A giudicare da
quantitativo di roba stipata lì dentro, Diamanti doveva aver
attaccato quel foglietto svariato tempo prima.
La villa era dunque
vuota da tempo, ma allora com'era entrata la bella dai capelli rossi?
“Non sapevo che
Diamanti fosse in ospizio. Sapevo che non era più in villa così
spesso, ma credevo fosse andato in città, come ogni anno”,
rifletté Ermete, sotto villa Serena.
L'avevo chiamato per un
veloce consulto prima di piombare come un avvoltoio sull'anziano.
“Questa storia mi
sembra sempre più incasinata”, ammisi sconfortata.
“Pensavo di andare a
casa del commissario con Lea e fare qualche domanda”, mormorò
Ermete sotto la sua folta barba.
“E perché con tua
moglie?”
“La moglie del
commissario è amica sua, fanno insieme qualcosa, un corso di
ceramica, una roba in chiesa, un mercatino, non me lo ricordo, però
si conoscono. Ci siamo praticamente invitati a cena a casa loro, Lea
è felicissima di fare il cavallo di Troia.”
“Immagino. Che devo
chiedere a Diamanti? Come ha fatto una tizia a buttarsi dalla sua
casa vuota?”
La pioggia iniziò a
battere sulla macchina.
“Ce l'hai l'ombrello”,
mi chiese Ermete mentre scendevo.
“Certo”, mentii io.
Se ne andò che iniziava
il diluvio.
L'ospizio era molto
pulito, pieno di anziani e silenziosissimo. Il mio ultimo contatto
con un posto simile risaliva all'unico giorno in cui mio nonno ci
aveva vissuto. Era morto il giorno dopo il suo arrivo, mia madre era
ancora divorata dai sensi di colpa.
Entrai e chiesi del
signor Diamanti. E' una parente? No, non lo sono. Ok, allora deve
aspettare qui. E aspetterò.
Seduta all'ingresso in
attesa mi accorsi che l'effetto delle pillole stava finendo. Il mal
di testa stava pompando di nuovo nel mio cervello. Lo immaginavo
proprio così, come una grande pompa da cui entrava e usciva sangue
di continuo. Entrare e uscire, uscire e entrare. Certe volte potevo
vederlo quel sangue, potevo sentirlo scorrere.
Diamanti arrivò sulle
sue gambe. Si poggiava ad un bastone, ma non era malmesso come avevo
immaginato, anzi, sembrava addirittura più in forze dell'ultima
volta in cui l'avevo visto, alla festa.
“Lei chi è?”,
domandò senza sedersi. “Non l'ho mai vista”
“Sono...sono una
fotografa. Devo farle vedere alcune foto della festa della scorsa
estate. Sto preparando un libro per il comune. Ero una delle
fotografe presenti, si ricorda?”
Non era esattamente una
menzogna, forse fu per quello che mi uscì in modo tanto convincente.
“No, ma alle mie feste
viene sempre tanta gente, anche persone che si imbucano, bah, non me
le sarei ricordate vent'anni fa, si figuri ora”, ragliò tossendo.
Stava recitando,
esattamente come me. Io ero la fotografa giovane ed entusiasta, lui
il vecchio scemo. Diamanti nascondeva qualcosa. Nessuno si
seppellisce in un posto del genere se ha milioni a disposizione, e
nessuno si finge scemo se non vuole che gli altri lo pensino.
“Non posso mandarle in
stampa se non ho il suo consenso”, dissi seriamente.
“Torni con le foto, se
ha tutto questo tempo da perdere non immagina quanto ne abbia io. Lei
è la signorina?”
“Erica”, dissi
sorridendo.
Annuì trovandomi di
colpo una scocciatura. Aveva combattuto con me credendomi un nemico
venuto a stanarlo e ora mi trovava innocua. E inutile.
Chi era il nemico
allora?
“Il comandante non mi
ha detto niente di particolare. La ragazza è caduta dalla terrazza,
sembra si sia suicidata. Non ha segni di violenza, non ha niente.
Pare che Diamanti fosse in ospizio quel giorno, casa sua era chiusa.
Non si sa come abbia fatto ad entrare. Cioè non c'erano segni di
scasso, la ragazza era già dentro.”
“Ma lui dice di non
conoscere la ragazza”, osservai io scolando un bicchiere di vino.
“Così ha detto
Diamanti alla polizia.”
“Qualcun altro l'ha
fatta entrare, ma chi?”
Mi sentivo un po'
brilla. Il vino aveva dei benefici incredibili sulle mie emicranie,
se stavo attenta a non ubriacarmi seriamente, potevo sentire la
testa decontrarsi e un sollievo incredibile propagarsi giù per il
collo. Avrei dovuto vivere brilla.
“Secondo me dobbiamo
trovare la ragazza della foto, quella di schiena, lei la conosceva,
si vede”, dissi ingoiando un po' di noccioline salate.
Ermete aveva voluto
uscire in un pub per smaltire la noia della cena a casa del
comandante dei carabinieri. Era stato un civettare continuo tra le
due consorti e un civettare continuo tra lui e il carabiniere.
“Che
bella casa, che bella macchina, che bei figli, che bel televisore”,
un incubo di manierismo che odiava almeno quanto lo odiavo io.
“Ma non ci sono altre
foto? Non ero l'unica a scattare quella sera”, mormorai iniziando a
perdere il senso del discorso. Era sempre difficile rimanere sulla
linea della lucidità quando il controllo si faceva labile.
“C'era un tizio, uno
dell'Eco”
L'Eco era il nostro
storico rivale. Ci dividevamo equamente i profitti e il pubblico di
quelle valli disperse. Non c'era guerra, ma neanche simpatia tra di
noi. Non che ci fosse un reale motivo, era più una posa, un dovere,
una specie di campanilistico derby.
“Ah sì, Gianluca
Maraldi, me lo ricordo”, sospirai. Abitava due valli più in là se
non andavo errata.
“Domani mi sa che ti
tocca una gita.”
“Non fare quella
faccia, se risolviamo questa cosa possiamo fare il salto, quello
grande, quello definitivo, un giornale nazionale.”
“Non si può fare un
salto con un suicidio, neanche se è strano”, risposi ingoiando una
patatina.
“Se è troppo strano
non è un suicidio.”
“E' la regola di
Ermete?”
“Se vuoi possiamo
ribattezzarla così”
Ebbi un sonno agitato.
Il vino bruciava i miei sogni, sentivo il corpo caldo come se fossi
in un letto di carboni ardenti. Quando riuscivo a svegliarmi di tanto
in tanto avevo la certezza di avere la febbre altissima. Volevo bere,
ma bastava girarmi sul fianco per ricominciare a dormire.
Mi svegliai
che il sole filtrava leggero dalle finestre.
Incredibilmente ero
riposatissima e fresca, sentivo la fronte come appena lavata, senza
alcun dolore.
Feci colazione di corsa
e mi infilai in macchina.
Avevo mandato una mail a Maraldi
nottetempo, ma non ero certa l'avesse letta: da quelle parti non
vivevamo tali urgenze da starcene attaccati alla connessione
internet. Mi fermai davanti alla sede del suo giornale.
Affacciandomi
chiesi se ci fosse, mi venne riferito da una tizia con una minigonna
inguinale e degli strani capelli decolorati che sarebbe arrivato
verso le tre.
Erano le dieci. Mi feci
dare il suo cellulare e lo chiamai implorandolo di vederci prima. Mi
disse di raggiungerlo a casa sua, un appartamento accanto alla piazza
centrale.
Da fuori il palazzo
sembrava praticamente abbandonato, dentro non dava un'impressione
migliore. L'appartamento di Maraldi si rivelò invece piccolo,
moderno e arredato con ottimo gusto.
“Il mio orgoglio”,
mi disse fiero, vestito completamente di blu, come un mimo o
Diabolik.
Aveva baffi e barba
scuri, i capelli appena venati di bianco e fotografie appese in ogni
dove.
“Scusa il disturbo,
sono venuta a chiederti..”, attaccai dopo che ebbi bevuto il caffè
di rito.
“Vuoi le foto della
sera della festa da Diamanti vero?”
“Hai letto la mail”,
sorrisi.
“Sì. Te le ho già
messe da parte. In realtà le avevo tirate fuori appena hanno trovato
quella ragazza.”
“La ricordavi anche
tu?”
“Era bellissima.”
“Già.”
Maraldi mi fissò
imbarazzato. Sorrise, poi si toccò la nuca e bevve un bicchiere
d'acqua, era strano, agitato.
“Io, avevo provato
sai, a farmi dare il numero quella sera”, disse d'un fiato.
“Ah”, mormorai
sorpresa.
“Però non volle, o
meglio non volle l'altra.”
“L'altra, la ragazza
della foto?”
Baraldi annuì
arrossendo. Era strano vedere un uomo adulto arrossire.
“Beh, ma non devi
vergognarti. E' normale, non c'è niente di male a chiedere un
numero.”
“Lo so, però non so
mi è rimasto un ricordo spiacevole, mi sento in colpa.”
“Perché?”
“Litigarono
furiosamente, io cercavo di calmarle, poi arrivò Diamanti si
arrabbiò da morire con entrambe e mi cacciò, Non volevo creare
problemi, così me ne sono andato poco dopo.”
“Quindi Diamanti le
conosceva?”
“Sembrava di sì.”
Diamanti aveva mentito a
quanto pareva.
Iniziammo a
scartabellare le foto insieme. Aveva fatto moltissime foto, tante
alla ragazza dai capelli rossi, l'altra sembrava un fantasma,
sfuggente, sempre di spalle, voltata, lontana, sfocata.
“Viene quasi da
pensare che non sia mai esistita”, risi nervosamente.
“C'è una foto in cui
si vede bene”, disse lui facendole scorrere veloce.
Ed eccola che apparve,
in un primo piano violento. Aveva i capelli mossi, scuri che le
cadevano morbidi sulle spalle, gli occhi blu e una sorta di corona di
margherite a cingerle la testa. Era un particolare che stonava
completamente sul suo tubino blu scuro, sul trucco quasi inesistente.
Era una bella donna,
poteva avere sui trentacinque anni e sorrideva.
“Lo sai che non la
ricordo?”, domandai andando indietro con la memoria.
“Neanche io l'avrei
ricordata se non fosse stato per la scenata.”
“Tu cosa pensi?”
“Non lo so. Non penso
niente. Di quella serata mi rimane solo una sensazione
così...angosciante. Mi sono sentito inopportuno. Magari per tante
persone non è così grave, ma io mi vergogno da morire quando mi
accorgo di aver infastidito qualcuno”, sorrise lui come un
adolescente.
Forse Maraldi non era
male come lo ricordavo, o meglio, forse aveva una personalità,
persino una sensibilità, cosa di cui io negli ultimi anni mi ero
totalmente disinteressata.
“Ti capisco. Anche io
odiavo sentirmi così”, dissi per spezzare un po' la tensione.
“E ora hai risolto?”,
rise lui.
“Certo, praticamente
sto sempre da sola. Non c'è metodo migliore!”, risi di rimando.
Lui pensò che
scherzassi, ma dicevo sul serio. Non puoi fare del male a nessuno se
ti chiudi in te stesso. Non puoi fare del male a nessuno se ti chiudi
da qualche parte, no?
Fu come un lampo
accecante.
La moglie di Ermete ci
mollò sul tavolino dell'ingresso un vassoio traboccante pasticcini.
Quella donna sembrava non essere in grado di smettere di nutrirci.
Ogni ora era buona per colmarci di torte, pizzette, tramezzini,
aperitivi, pancake, frutta e dolcetti vari.
“Non pensi che forse
Lea ti stia comunicando qualcosa?”, avevo ventilato a Ermete
qualche tempo prima.
“Tipo? Che vuole
vendermi al chilo?”
“Ma no, magari vuole
lavorare, che so, come cuoca o aprire una specie di pasticceria.”
Era di moda del resto.
Avevo saputo che ben tre mie ex compagnie di corso avevano aperto un
locale dopo gli studi e guadagnavano bene. Cibo vincit omnia.
“Diamanti conosceva la
ragazza morta”, annunciai ad Ermete.
“Cosa?”
“Me lo ha detto
Baraldi, quella sera lei e l'altra ragazza si erano messe a litigare
perché lui aveva provato a chiedere il numero alla morta. Diamanti
arrivò furibondo dicendogli di smettere e secondo lui le conosceva.”
“Mio dio. Diamanti
forse aveva una donna, quindi una ragazza giovane? Due ragazze?”,
ad Ermete la possibilità sembrava sconcertante.
“Beh, era sempre un
uomo, decrepito, ma un uomo. Era ricco, avrebbe un senso no? Inoltre
io penso di sapere come ha fatto la ragazza ad entrare.”
“E come?”
“Nell'unico modo
Ermete: aveva la chiave! Secondo me viveva lì, ci ho pensato mentre
parlavo con Maraldi.”
“Ma non hanno trovato
nulla nella casa. Neanche una chiave di riserva.”
“Potrebbe averla
gettata dalla terrazza. Oppure qualcuno potrebbe averla portata via.”
“L'assassino!”
“Non è detto che
l'abbia assassinata, magari è stato un incidente, ma l'altra
persona si è spaventata ed è scappata.”
“E secondo te l'altra
persona è la ragazza della foto?”
“Potrebbe essere.”
“Magari litigavano per
l'eredità di Diamanti, magari potrebbe avergli intestato tutto!”,
quasi gridò Ermete al culmine della sua passionale ricostruzione.
“Che sciocchezze,
Diamanti ha una figlia”, disse Lea passando distrattamente con
delle tovaglie in mano.
Appena aveva capito che
ci saremmo messi a parlare della storia della bella dai capelli rossi
aveva iniziato una danza di lavori domestici assolutamente inutili
attorno a noi.
“Ma da quando? Conosco
Diamanti da anni e non è mai stato sposato!”, protestò Ermete,
colto in fallo.
“Ermete, sono anni che
non è necessario essere sposati per avere dei figli. L'ha avuta che
ormai era abbastanza vecchio, da una donna straniera, una pittrice.
Ha sempre vissuto con la madre all'estero”, spiegò Lea seccamente.
“E tu l'hai mai
vista?”, domandai speranzosa. Poteva essere la ragazza della foto,
poteva essere lei.
“No, mai. Aspetta sì,
una volta, da bambina. Non somigliava per niente al vecchio. Dovrebbe
avere una trentina di anni adesso.”
L'età corrispondeva.
“Aveva gli occhi
chiari?”
“Non ricordo niente.
Era davvero piccola. Sarà stato vent'anni fa, avevo partorito da
poco, la incontrai in ospedale con la madre. Erano venute a trovare
Diamanti che era stato ricoverato per qualche malanno. La signora
però me la ricordo, era alta e aveva i capelli biondi, era molto
bella.”
“Devo tornare da
Diamanti con la foto”, sospirai ingoiando pasticcini.
Per la seconda volta
nella sala d'aspetto dell'ospizio, mi resi conto che il bianco delle
pareti e quel silenzio artificiale catalizzavano le mie emicranie in
modo esponenziale. Era così perfetta la mia vita prima che
iniziassero, così promettente. E io ero una così grande bugiarda.
Niente era promettente,
niente andava bene. C'era quella mia vita così spianata davanti a
me, così precisa che potevo vederne la fine. Il mio lavoro, il mio
matrimonio, la mia casa, i miei viaggi, i miei figli. E tutto mi
disgustava così tanto.
Ricordavo ancora l'ultima volta in cui
l'avevo visto. Cinque anni insieme e nessun litigio, mia madre che
già fremeva per spedire gli inviti di nozze, anche mia sorella si
era sposata giovane e non c'era mai stato giorno più bello per lei.
Sarebbe dovuta nascere nell'ottocento.
“Dimmi cosa c'è che
non va, possiamo provare a rimediare”, aveva detto lui piangendo.
Ero stata crudele: il giorno prima ci tenevamo la mano in pizzeria
con gli amici e il giorno dopo gli dicevo che non l'amavo più. A
ripensarci non sapevo dove fossi riuscita a prendere quella
freddezza.
“Non può finire
così”, mormorò disorientato.
Oh, certo che poteva
finire. Poteva finire ogni cosa a questo mondo. Una vita, una
famiglia, una giornata, un'epoca. Persino un amore che non era mai
cominciato.
Diamanti arrivò in
sedia a rotelle. Sembrava sempre più intenzionato a recitare la
parte del vecchio decadente. Ma quanti anni aveva davvero Diamanti?
Secondo i miei calcoli poteva arrivare a stento alla settantina,
eppure tentava in ogni modo di dimostrarne almeno una decina di più.
“Salve, si ricorda di
me?”, sorrisi tendendogli la mano.
“Pensa che sia un
vecchio completamente rincoglionito?”, ragliò lui. Ritirai la
mano.
“Le ho portato le foto
della festa.”
“Dia qui!”, disse
togliendomi il pacchetto che tenevo in mano. “Non ho tempo da
perdere.”
Sembrava sinceramente
irritato.
“Sfogliò le prime
foto, dei paesaggi innocui, poi giunse al primo piano della ragazza
dagli occhi chiari.”
Si fermò sbiancando.
“Chi è lei?”,
domandò d'un fiato.
“E' una ragazza della
festa, non so..”
“Non lei, so benissimo
chi è questa ragazza. Voglio sapere chi è lei davvero!”
“Una giornalista. Io
voglio solo capire”, risposi sentendomi in colpa.
“E per cosa? Per far
contenti quei quattro deficienti che leggono il suo giornaletto? Si
faccia una vita e lasci stare quella degli altri!”
“E' sua figlia?”,
chiesi cercando di trattenerlo.
“Se già lo sa perché
me lo chiede?”
“Non scriverò nessun
articolo, non lo dirò a nessuno, io voglio solo capire”, dissi e
non mentivo.
Perché una ragazza
tanto bella deve uccidersi? Che cosa l'aveva fatta saltare da quella
terrazza?
Diamanti tacque qualche
minuto. Nella stanza si sentiva solo il rumore sordo dell'orologio a
muro. Era come se ci trovassimo nel niente, fluttuanti nello spazio.
“Io non la conoscevo.
E' sempre stata lontano da me. E' stata un errore. Non amavo sua
madre, è stato un caso. Ho provato ad aiutarla, ma ora non voglio
sapere niente. Ho fatto tutto quello che potevo per lei.”
“Sua figlia vive nella
sua villa, vero?”
Gli occhi del vecchio
brillarono di rabbia. C'era una chiave in più in quella storia. Una
per entrare e una per uscire, una chiave che qualcuno possedeva.
“Sua madre, Anne, è
morta un anno fa. Mia figlia è sempre stata una persona strana,
almeno credo. Non l'ho mai vista tanto. Anne mi scriveva, voleva il
mio aiuto, non soldi o meglio anche quelli, ma non solo i soldi.
Voleva che la aiutassi, Erin era fragile, bastava un niente per
sconvolgerla, aveva reazioni esagerate davanti a tutto, come se non
riuscisse a mettere uno scudo tra la sua vita e quella degli altri.”
Diamanti guardò la
parete, mi parve innaturalmente bianca, come se i contorni della
stanza, attorno a noi, stessero svanendo.
“Non so spiegarmi”,
disse dopo un po'.
“Ho capito”,
mormorai incoraggiandolo.
“No, non può capire.”
Feci un grande respiro.
“Stavo per laurearmi,
poi sarei andata un anno all'estero e poi mi sarei sposata. Stavo
comprando casa, avevo calcolato tutto. Ho sempre fatto tutte le cose
per bene, non ho bruciato nessuna tappa. Mi sono divertita al momento
giusto, ho studiato senza affannarmi, ho preso buoni voti senza
eccellere mai. Ero brava, ero carin,a ero quello che dovevo. Poi un
giorno qualcosa si è inceppato. La testa ha iniziato a bruciarmi e
ho capito che avevo mentito fino a quel giorno. Io non ero niente.
Ho lasciato il mio fidanzato, mi sono trasferita, ho ancora le
emicranie.”
Diamanti mi fissò,
aveva occhi chiari, ormai acquosi per l'età, eppure identici a
quelli della ragazza della foto.
“E come si sente
adesso?”, domandò prendendomi la mano.
“Non ci crederà, ma
nonostante il dolore forse sto molto meglio di prima”. Non lo
avevo mai detto a nessuno. Forse era da pazzi pensare che una vita da
reclusa e imbottita di medicine fosse meglio di quel che avevo prima,
ma era la verità. Era come se la persona prima del dolore non fossi
davvero io.
Diamanti mi sorrise e
ritrasse la mano. Sul mio palmo scintillava una lunga chiave.
Rimasi fuori dalla casa
di riposo per un tempo imprecisato. Ero indecisa sul da farsi. Potevo
andare direttamente alla villa, dormirci su e decidere il giorno
successivo o chiamare Ermete e farmi accompagnare, ventilai persino
la possibilità di chiamare Maraldi.
“Un'idea quanto mai
cretina se la figlia di Diamanti lo odia tanto”, mi dissi
stringendo la chiave.
No, dovevo andarci da
sola. Diamanti aveva dato a me la chiave per un qualche motivo che
continuava a sfuggirmi. Si era fidato? Voleva che convincessi sua
figlia ad uscire di lì? Mi stava tendendo una trappola? Perchè,
dopotutto, neanche lui stava dicendo la verità.
Il mal di testa mi
afferrò la nuca. Forse avrei dovuto gettare quella chiave e basta,
voltare le spalle e tornare nel mio guscio. La fuga era un gioco che
mi veniva bene dopotutto. La chiave mandava un bagliore sinistro
alla luce interna della macchina, era come se scottasse.
“Forse quella ragazza
sta aspettando che qualcuno la scopra. E' come prigioniera di se
stessa”.
Forse non c'era nessuna
trappola, era stato per quello che gli avevo confidato che Diamanti
mi aveva dato la chiave, perché aveva intuito quanto disperatamente
fossimo simili.
Aspettai che facesse
buio nel solito pub. Ermete quella sera era di partita a casa del
cognato e non c'era pericolo che mi scovasse. Non volevo che qualcuno
mi vedesse entrare a casa di Diamanti. Avevo calcolato che dopo le
dieci e mezza, undici, avrei dovuto andare sul sicuro. La villa si
trovava in una zona isolata, avrei lasciato la macchina ad adeguata
distanza e finto indifferenza con gli eventuali passanti.
“Ma col freddo di
stasera non credo che qualcuno andrà a farsi una passeggiata proprio
lì”.
Mi munii di guanti per
non lasciare impronte e per sicurezza avevo infilato un coltellino
multiuso in borsa. Non che potesse essere di un qualche aiuto, ma
dopotutto era una papabile assassina che stavo andando a trovare e
avere un piccolo oggetto acuminato con me mi faceva sentire al
sicuro.
Scolai una terza coca
cola assieme ad un buon antidolorifico. Era un cocktail dal sapore
interessante.
La chiave entrò con
facilità. La via, come previsto, era deserta, e soffiava un vento
così freddo da convincere chiunque a starsene a casa propria davanti
ad una stufa.
Il cuore mi batteva
fortissimo. Forse avrei dovuto chiamare Ermete, ero ancora in tempo
dopotutto, stavo facendo una cosa cretina. Ma il mio corpo si mosse
da solo e un minuto dopo ero dentro.
Un piccolo abat-jour era
acceso a mandare una breve luce ai piedi delle scale di legno.
Cosa avrei detto? Chi è
là? Dove sei?
Il mio respiro era così
forte e la casa così silenziosa che mi sembrava di essere un mantice
in una cattedrale.
“Si sarà già accorta
che sono qui”, mi dissi.
“Chi sei?”, domandò
una voce nell'ombra.
Mi voltai di scatto, la
mia mano andò immediatamente a cercare il coltellino nella borsa.
Ovviamente non lo trovò.
“Sono...mi ha mandato
tuo padre”, risposi avvicinandomi alla porta.
“Ah sì? Vuole che me
ne vada?”, domandò stancamente.
“No, non credo. Non so
cosa vuole”, mormorai cercando di abituare gli occhi al buio. Non
riuscivo a capire dove si trovasse.
“E allora perché sei
qui?”
Emerse dalle ombre come
un fantasma. Eccola lì, in carne ed ossa, la donna con la coroncina
di margherite e il vestito blu. Aveva uno strano accento.
“Io volevo solo
sapere, credo”, risposi cercando di essere sincera. Tuttavia non
sapevo perché fossi lì, era come se dopo tanto tempo desiderassi
concludere qualcosa.
“E poi mi
denuncerai?”, domandò. E non si comprendeva se l'eventualità la
tentasse o la spaventasse.
“No, se non vorrai no.
Io penso sia stato solo un incidente e non si dovrebbe pagare per un
sospetto.”
Fece un passo verso di
me. Ora potevo vederla quasi chiaramente alla luce fioca della
lampada. Indossava una vestaglia bianca e aveva i capelli in
disordine. Sembrava non dormisse da tempo.
“Non è stato un
incidente”, disse. Il silenzio, se possibile, si fece ancora più
profondo.
E' un'assassina, mi
dissi. Sono sola, con un'assassina.
Fu una presa di
coscienza così stupefacente che mi paralizzai. Smisi di cercare il
coltellino, la porta dietro di me, divenne di colpo lontanissima.
“Sei qui per sapere
no? Allora ti racconterò, tanto ho già deciso. Non fa differenza.
E' per questo che il vecchio ti ha mandato qui, perché parlassi e lo
scagionassi. I carabinieri sospettano di lui, anche se quel giorno si
trovava in città. Sono stata io a spingerla giù dalla terrazza, ma
è stato lui a portarmela via”, disse avvicinandosi ancora.
Si
muoveva lentamente, come uno spirito gravato da catene.
“Io volevo solo un po'
di pace. Dopo la morte di mia madre ero esausta. Sono stata due anni
accanto a lei, che moriva, consumata. Lui non ci ha mai aiutate. Non
avevamo nessun altro. Quando alla fine è morta sono venuta qui per
riposare, credo si sentisse in colpa e mi ha accolto, ma non passava
giorno che mi ricordasse quanto fossi di disturbo. In una casa, così
grande, ti rendi conto?”, ebbe un sorriso folle.
Da quanto non
dormiva? Le occhiaie sotto i suoi occhi erano scure, profonde.
“Fosse stato per me
sarei andata via subito, ma mi sentivo così sola, senza forze. Ti
sei mai sentita così in vita tua?”
Annuii. La sua mano si
allungò verso di me come una maledizione.
“Avevo una ragazza,
una compagna, non so come si dice, come dire. Ci eravamo lasciate
dopo la morte di mia madre, lei era troppo faticosa per me, ma
l'amavo da impazzire. Le chiesi di venire per la festa dell'estate.
Mio padre non era d'accordo. Una figlia lesbica e non voluta è il
peggio che un uomo del suo genere possa ritrovarsi a questo mondo.
Fece delle scenate così penose da far spavento. Per farlo smettere
gli promisi che non l'avrei detto a nessuno, avrei finto che fosse
una mia amica, tanto per me non c'era differenza. Non conoscevo
nessuno, non uscivo mai dalla villa.”
“E poi cosa è
successo?”
La festa d'inizio
estate, la scenata di Diamanti, stava lì la chiave del mistero.
“Mio padre...”,
cominciò mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. “Io...l'amavo
così tanto. E lei mi ha fatto questo, lei mi ha fatto questo!”
“Tuo padre e la bella
dai capelli rossi avevano una storia?”, domandai sbalordita.
Il fantasma della
ragazza cadde in ginocchio coprendosi il viso. Era disperata. Volevo
avvicinarmi ma non ne avevo il coraggio. Singhiozzava così
convulsamente che temevo stesse per avere una crisi di nervi.
“Mi chiusi in camera,
volevo andarmene, ma lei venne da me. Mi disse che ci amava entrambi,
era così falsa, ma mentiva così bene che io non sapevo lasciarla.
Due settimane fa mio
padre disse che si sarebbe allontanato per un po', mi raccomandò di
non uscire o di farlo solo in città, non voleva chiacchiere. Il
giorno dopo la sua partenza, lei mi portò in terrazza e disse che
lui le aveva chiesto di sposarla. Amava me, ma era la sua grande
occasione. Era sempre vissuta qui e lì, senza un vero lavoro, una
direzione, una radice. Mi amava, ma come poteva rifiutare?
Poi mi baciò e si voltò
guardando le montagne. Aveva messo il mio vestito preferito anche se
faceva freddissimo. Non so cosa volesse fare. “E' così bello qui”,
disse.
Non se ne è neanche
accorta credo. Non me ne sono accorta neanche io. L'ho gettata giù
con un'unica spinta. Mi sono resa conto che non c'era più quando è
diventata un punto bianco in mezzo all'erba.”
Ero rimasta con la bocca
spalancata, come una cretina, mentre confessava un omicidio. Dovevo
andare via di lì. Non si era resa conto una prima volta di uccidere,
poteva non farlo anche una seconda.
“Ho chiamato mio
padre. Abbiamo svuotato tutto, buttato tutte le sue cose, le mie, ho
pulito ogni angolo. Poi, sono andata nel suo appartamento in città
mentre lui fingeva in ospizio. Dovevo essere un fantasma mai
esistito, nessuno doveva ricordarsi di me.”
“E perché sei qui?”,
chiesi non comprendendo.
“Perchè sono stanca.
I sensi di colpa mi divorano da quella mattina maledetta.”
“Costituisciti, ti
sentirai meglio”, mormorai cercando di dire qualcosa di sensato.
“Se vuoi posso accompagnarti.”
Non rispose. Si era
ripiegata su se stessa, sul tappeto dell'ingresso, era diventata così
tragicamente piccola da sembrare una bambina o una bambola. Ai miei
occhi sconvolti parve più una cosa che una persona. Feci un piccolo
passo indietro. Toccai la maniglia fredda della porta. Volevo aria,
volevo luce, volevo persone.
“Da bambina pensavo
sempre a mio padre lontano. Credevo fosse una persona meravigliosa.
Ogni tanto venivo qui e lui mi riempiva di regali, mi sentivo una
principessa. Poi sono cresciuta e mi sono accorta che non era un re,
non era niente. Io non ero niente. Però speravo ancora.”
Si rialzò andando
quieta verso l'abat-jour.
“Chi viene messo
nell'ombra è lì che deve restare”, disse.
Poi con un solo gesto
spazzò via la lampada che andò ad infrangersi sul pavimento.
Fu tutto buio. Non
riuscii neanche a cacciare un grido.
La porta, la porta,
prima che mi prenda!
Trovai la maniglia, e mi
buttai fuori senza voltarmi indietro. Corsi a perdifiato verso la
macchina e la aprii tremando. Non mi aveva seguito, ma ero
terrorizzata come se fosse esattamente dietro di me.
Mi presentai a casa di
Ermete in lacrime.
La mattina dopo mi
svegliai sul suo divano con un cerchio alla testa e il collo
completamente sudato.
Nonostante la luce, avevo la sensazione che il
cuore continuasse a battere in modo scomposto e fosse ancora notte.
Lea mi passò davanti irrequieta ed Ermete mi portò un caffè con la
maglia del pigiama ancora addosso.
“Dobbiamo andare dai
carabinieri”, mi disse serio.
Il giorno prima c'era mancato poco
che non mi prendesse a schiaffi quando gli avevo confessato di essere
stata a casa di Diamanti da sola. Mio padre non sarebbe stato meno
preoccupato.
Mi sedetti a tavola. Lea
aveva imbandito una colazione luculliana, ma non avevo nessuna fame.
Stavo sforzandomi di ingoiare un biscotto alla cannella quando il
cellulare di Ermete squillò. Arrivò dal bagno con metà del viso
ricoperta da schiuma da barba.
“Pronto?
Cosa...noi...sì..è qui..ha dormito qui...ora andiamo...non
gridare..non sapevamo...”
Io e Lea lo guardavamo
dimenarsi vicino al bagno, finalmente dopo cinque convulsi minuti
chiuse la telefonata.
“Era il Kreniota”,
mi disse asciugandosi la schiuma da barba dal viso. “E' troppo
tardi.”
“Per cosa?”
“Stamattina all'alba i
carabinieri hanno ricevuto una chiamata da casa di Diamanti. Sono
andati alla villa e hanno trovato una ragazza.” Fece una pausa,
guardando nervosamente Lea. “Impiccata.”
Chiusi gli occhi. Ebbi
l'impressione precisa di fluttuare, di riuscire a uscire da me.
Persino il mal di testa aveva smesso di far male, come se
appartenesse ad un'altra persona.
Riaprii gli occhi e
sentii una lacrima lungo il viso.
“Se fossi rimasta di
più”, mormorai, “Se fossi rimasta fino alla fine, forse non si
sarebbe uccisa”.
Ermete venne ad
abbracciarmi, voltai la testa stordita e incrociai il cielo
insolitamente azzurro oltre il vetro.
C'erano le montagne. Le
ultime montagne che aveva visto la ragazza dai capelli rossi. Alcuni
fili elettrici si intrecciavano nel paesaggio.
“Noi siamo
elettricità”, aveva detto lei prendendomi per mano. Il bagliore
blu delle scintille le illuminava il viso.