Nel periodo delle mie scuole medie (barra poco prima, barra poco dopo) ci furono un certo numero di fiction un po' diverse dalle agiografie/famiglie romane becere/famiglie nordiche industriali/corpi di polizia o ospedali che rappresentano attualmente il 99% della produzione italiana.
Tutti possiamo ricordare il ciclo di Fantaghirò e la spasmodica attesa nell'apprendere in quale modo avrebbero sostituito il recalcitrante Kim Rossi Stuart che proprio non voleva saperne di tornare a interpretare Romualdo.
Ma ci furono anche altre imperdibili perle (purtroppo perdute nei meandri del tempo), come: "Sorellina e il principe del sogno" (con una Valeria Marini fata delle acque e Raz Degan principe), "C'era un castello con 40 cani" (che apprendo da wikipedia essere del 1990, forse anche per quello ricordo poco o niente), o "Desideria e l'anello del drago" con un Anna Falchi figlia del re che doveva vedersela con una sorellastra malvagia, avida di potere dai capelli scuri.
Erano fantasy di raro incredibile trash eppure indimenticabili (e purtroppo senza degni eredi).
Tra gli altri incredibili tentativi di genere dell'epoca, rimane impressa nella mia memoria una stramba e trashissima fiction dal titolo "Angelo nero".
Ammetto che sono vari i motivi per cui non è rimasta sepolta tra le nebbie dei miei ricordi, non ultimo una conturbante scena di nudo della protagonista che, provvista di curve prosperose si rotolava nell'erba con carni bianchissime e sensuali in bella vista (aò ancora me la ricordo quella scena, come se l'avessi vista ieri).
La trama copiava praticamente l'incipit de "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati: un restauratore (interpretato da un giovane Gabriel Garko) arrivava in questo borgo del centro Italia per restaurare appunto il quadro (o l'affresco) di una donna velata, una strega bruciata in loco nel medioevo a cui era legata una maledizione.
Ricordo poi poco e niente del resto della trama (avevo, stante sempre wikipedia, 14 anni all'atto della messa in onda e non credo che qualcuno abbia mai avuto il coraggio di rimandarla in onda), se non che c'erano alcuni omicidi, una setta e che, alla fine, un buon solvente scopriva il volto della strega svelandoci che era proprio lei: la carnosa fanciulla che si rotolava nuda nell'erba (e che non ho idea di chi quale ruolo avesse nel film).
In ogni caso c'erano tutti gli elementi per un horror all'italiana di vetusta memoria, incrociato con antichi riti magici, maledizioni, sovrannaturale, credenze pagane, stregoneria, passione e immortalità.
Poi vabbeh i protagonisti erano Gabriel Garko e Sonia Grey e qui si chiudeva la storia.
Poi vabbeh i protagonisti erano Gabriel Garko e Sonia Grey e qui si chiudeva la storia.
Ecco, a me questo genere, perversamente piace, amo potenzialmente le storie alla Codice da Vinci (penso derivi sempre dall'impriting Indiana Jones), scritte bene però.
Alcuni esempi possono essere "L'ultimo Catone" di Matilde Asensi o "Il club Dumas" di Pérez-Reverte (anche se le imprecisioni storiche per chi ne sa di libri antichi sono davvero molto fastidiose) o "Il pendolo di Foucault" del fu Umberto Eco, che era in verità una presa in giro del genere letterario in questione, ma che rimane fantastico.
"I guardiani", il nuovo libro di Maurizio De Giovanni, prometteva di inserirsi nel filone, peraltro, visto lo scrittore, con buone possibilità di successo. Invece, pur apprezzando il tentativo, ci sono due cose che me lo hanno reso indigesto.
Una dipende da De Giovanni e una no.
Una dipende da De Giovanni e una no.
Iniziamo da quella che NON dipende da De Giovanni.
Dunque, il motivo per cui mi piacciono queste storie in cui i Rosacroce si sposano coi Templari in segreti matrimoni gay trascritti su papiri conservati in monasteri irraggiungibili in cima all'Himalaya a cui possono arrivare solo tre persone (una suora, un bonazzo che vuole farsi la suora e uno studioso di Shakespeare appassionato di criceti) dopo aver affrontato migliaia di peripezie e aver dimostrato la conoscenza di almeno 4 lingue morte tra cui il sanscrito e il sardo-fenicio, ecco il motivo è che sono quelle robe che mi piacerebbe tanto accadessero, ma razionalmente so che non sono possibili.
Quello che mi godo è proprio il senso di mistero e di possibilità che dà la narrativa usando fantasiosamente delle lontane basi storiche. Il gusto che dà l'immaginare di essere un archeologo figo e con la frusta che scopre il sacro Graal in Giordania mentre è inseguito dai nazisti. La libertà dell'avventura.
Ecco. Il motivo per cui adesso faccio fatica a leggere questo genere di trame è che razionalmente io ora so una cosa spaventosa: ci sono orde di persone che credono che quelle trame siano VERE.
Ci sono davvero persone che credono agli alieni come fondatori della civiltà, a guardiani immortali che ci spiano da un bunker sotterraneo sotto Zurigo, alla telepatia e all'immortalità, ai rettiliani e alla discendenza benedetta dei figli di Gesù e Maria Maddalena.
Certo, c'erano anche prima, ma prima l'opinione comune era considerarli degli "originali", ora il problema è che si cerca di far considerare degli "originali" chi, come me, tende a voler mantenere ben distaccate quelle due cose che sono realtà e fantasia.
Insomma, leggo "Il codice da Vinci" o "I guardiani" e so che per molti non si tratta di un romanzo, ma di un trattato di sconcertante e scottante attualità molto più reale della realtà.
E scusate a me 'sta cosa toglie il gusto di leggerlo.
Il motivo che invece dipende da De Giovanni è un altro ed è IL TEMPO. Che j'è mancato.
Per scrivere un libro che ha delle vaghe basi storiche a cui appellarsi qualche ricerca bisogna farla. Almeno un minimo. Altrimenti i riferimenti, la cornice, l'atmosfera, che sono la cosa davvero gustosa di queste trame che in genere non hanno spessore letterario alcuno (e non dico che debbano avercelo perché sono letteratura d'intrattenimento), vanno a farsi benedire.
Ecco, qui l'atmosfera manca totalmente e ci sono invece montagne di spiegoni che, nonostante la loro montagnosità non riescono neanche a farci capire esattamente le coordinate della trama che infatti imbocca anche un paio di vicoli ciechi risolti da deus ex machina che proprio no.
Vabbeh, cosa succede in questo libro?
Un professore di antropologia di 42 anni e già abbastanza disadattato, col suo fido assistente dal nome strambo, Brazo (?), portano avanti da almeno un decennio una serie di studi sui riti dedicati alla dea Iside e ad altre divinità precristiane in quel di Napoli. Tutti li considerano dei ciarlatani, ma loro vanno avanti per la loro strada.
Un giorno una giornalista tedesca, Ingrid (si chiamano tutte Ingrid queste nordiche), arriva a Napoli per vedere il professore e chiedergli di guidarla in giro per le tracce di questa Napoli precristiana per un articolo. In tutto ciò, in brevi capitoli random, si avvicendano vari personaggi slegati dalla trama principale che parlano insistentemente di mappe e cartografia.
L'attenzione si sposta poi su Lisi, unica nipote del professore, figlia di sua sorella (una donna molto svagata diciamo) e di un misterioso uomo incontrato in gioventù in oriente. Anche lei è una brillante antropologa di 23 anni (vista l'età con una triennale) che studia i riti precristiani a Napoli, ma invece di fare ricerche in biblioteca usa internet (e qui già avevo i tremori).
Insomma, da questi elementi parte prima una trama un po' d'azione, poi tanti spiegoni, poi di nuovo azione, poi spiegoni, poi spiegoni, poi Svizzera, poi mappe e spiegoni, poi l'ho finito di leggere solo perché era l'unica cosa che avevo in treno.
Dunque, non c'è una minima ricerca storica, tutto è tirato via con una velocità imbarazzante.
I personaggi che in genere sono il punto forte di De Giovanni che li sa ben caratterizzare e di cui sa descrivere i timori, gli orrori e gli amori, sono invece incolori, insapori, inodori.
I personaggi che in genere sono il punto forte di De Giovanni che li sa ben caratterizzare e di cui sa descrivere i timori, gli orrori e gli amori, sono invece incolori, insapori, inodori.
Indistinguibili tra loro, non fanno altro che dirsi "E' una cosa troppo assurda" "Non ci crederà nessuno" "E' davvero troppo assurdo" "Chi ci crederà".
Un peccato, perché l'ossatura e l'idea c'erano in embrione. Come non è facile far atterrare un disco a Lucca, non è neanche semplice portare trame del genere a Napoli senza rischiare l'effetto trash alla "Angelo nero".
Purtroppo manca tutto il resto: il gusto della lettura, il gusto della scrittura, la ricerca, le relazioni tra i personaggi, i personaggi stessi.
A pensar male verrebbe da credere che tutto sia stato messo su carta e poi in libreria troppo di corsa e come si dice: "La gatta frettolosa fece i gattini ciechi".
Purtroppo.