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martedì 5 settembre 2017

Gli anni '70 e l'età dell'oro. Quando l'ossessione di una nazione per un tempo mitizzato si incarna in un uomo: Kennedy. E quando in fase di scrittura l'ossessione fallisce: "22/11/'63" di King.

 Alle superiori, avevo un'amica che era letteralmente ossessionata dagli anni '60-'70.
 Tra libri, film, cineforum, manifestazioni, dibattiti e, in seguito, anche gli studi universitari, faceva davvero fosse ogni cosa fosse in un suo potere per afferrare un vago riverbero di un tempo che non avrebbe mai vissuto, ma che avrebbe tanto voluto vedere.

 Bisogna dire che non era una cosa insolita, molti miei coetanei avevano questo morboso desiderio del ritorno a un'epoca in cui sembra si fosse più liberi e i giovani erano il centro del mondo, non una sorta di fastidio sociale.

 Complici, non so quanto involontari, di questa ossessione, genitori e parenti che non facevano che mettere in circolo questo mysterioso virus della nostalgia al suon di: "Eh ma era tutto meglio "Eh ma noi facevamo questo e quello", "Eh ma se solo voi rifaceste esattamente quello che facevamo noi".

 Il risultato, almeno per la mia ex amica, fu che per quanto si iscrivesse a Rifondazione Comunista, fondasse associazioni culturali, andasse alle manifestazioni, scrivesse lettere d'indignazione, andasse a campi europei di giovani uniti per un futuro migliore, tutto ciò che riusciva a ottenere era una pallida imitazione di quello che avrebbe davvero voluto.

  Ossia vivere negli anni '60-'70. L'età dell'oro.

 Per chiunque veda assiduamente film e serie americane (cioè per quasi tutto il mondo) è evidente dopo un po' di tempo che anche gli Usa, esattamente come la mia ex amica,  sono rimasti morbosamente attaccati, a livello d'immaginario, agli anni '60-'70. 

 Una controversa età dell'oro che viene riproposta con una tale insistenza e dovizia di particolari da far venire il dubbio che non sia realmente esistita in quei termini. In poche parole, sembra talmente codificata in modo tale da essere "età dell'oro" da creare una vaga confusione tra quello che è realmente stato e quello che pensano sia stato.

 Episodio principe e mitizzato di un periodo principe e mitizzato è indubbiamente l'assassinio del presidente Kennedy.

 I motivi per cui questo presidente in particolare ricorre ossessivamente nei sogni americani sono sicuramente infiniti e non dubito che oltre alla sua morte tragica c'è assai di più dietro la costruzione del suo mito, non ultima l'idea che Kennedy in persona abbia finito per rappresentare una generazione che ritiene di aver molto sognato e di aver visto i suoi sogni infrangersi a metà di un percorso da allora per sempre incompiuto.

 Non è che voglia minimizzare la morte di un presidente americano, tuttavia sembra una di quelle cosiddette teste di morto che un vero scrittore o regista americano si sente, prima o poi di dover affrontare. Alcuni saggiamente fiutano la trappola e mollano il colpo, altri, convinti di poter contribuire con una nuova versione del mito, cedono alla tentazione e lo fanno.

Stephen King non è ovviamente uno di quelli che dava l'idea di poter fallire, anzi, scrittore gigaamericano che affronta archetipo gigaamericano del periodo più storicamente gigaamericano sembrava potesse dare grandi soddisfazioni e, invece, se non fossi stata in Portogallo, lontana da qualsiasi altra possibilità, avrei mollato questo libro al suo destino.

 La trama. Un professore delle superiori, Jake Epping viene prescelto da Al, il suo paninaro di fiducia, per una missione che egli, ormai consumato da un tumore in fase terminale, non riesce a portare a termine. Il paninaro ha infatti scoperto anni prima, nello scantinato della sua panineria, una sorta di passaggio spazio-temporale che porta dritti nel 1958.

 Il suo ultimo desiderio è che Jake torni nel passato e salvi John Kennedy perché è matematicamente certo che, sopravvivendo il buon John, le cose nel mondo andrebbero molto meglio.

 Jake fa due o tre viaggi nel passato per capire come funziona, rimane vittima del fascino del luogo, si perde nella tragedia familiare di un suo conoscente per quelle 200 inutili pagine che hanno avuto il solo merito di menzionarmi Halloween in pieno agosto, e poi torna indietro da Al.
  Accetta quindi l'incarico e ritorna nel 1958.

  A quel punto deve solo attendere e, nel far passare quei cinque anni tra il 1958 e il 1963, anno dell'attentato, finisce per costruirsi una vita appagante nei dintorni di Dallas portando alla luce il problema macroscopico del libro.

 Una buona storia, soprattutto se costruita in modo classico, ha bisogno di una cosa fondamentale: una motivazione abbastanza forte che regga tutta la baracca.
 Ci deve essere un fine ultimo che regga non solo la tensione della trama, ma anche la sospensione dell'incredulità e soprattutto la coerenza del tutto. 


Ecco, in "22/11/63" la storia non è retta da una vera motivazione.

 Perché un uomo senza eccessivi problemi decide di fiondarsi nel passato? Per curiosità? Ok, ci può stare.

  L'ossessione per il salvataggio di Kennedy era del paninaro e, peraltro, la motivazione del paninaro non è sostenuta da nessuna prova oggettiva: perché crede che il mondo sarebbe andato meglio se Kennedy non fosse morto? Quale miracolo poteva mai fare un presidente fin troppo mitizzato? La guerra fredda sarebbe finita prima? Avremmo distrutto tutti gli arsenali nucleari? I figli dei fiori sarebbero diventati la maggioranza sociale del pianeta?
Ma cosa lo spinge a perseguire una lotta non sua?

 Non si sa. Semplicemente, Al, un paninaro, è convinto di questa cosa senza nessuna base.

 Jake invece continua negli anni a perseguire il proposito primigenio di quest'uomo a cui peraltro non deve nulla, perché, anche lì, questo attaccamento alla causa poteva avere un senso se Al fosse stato suo padre o suo fratello o un uomo a cui doveva la vita. Invece no, era il suo hamburgerario di fiducia. Un po' poco.

 La falla diventa macroscopica nel momento in cui Jake si costruisce una vera e appagante vita negli anni '60, vita che sacrifica per perseguire l'obiettivo primigenio, precipitando e precipitandoci in 150 pagine di noia totale nelle quali spia il futuro killer del presidente.

 150 pagine che, vi assicuro, potreste saltare senza fare un plissè.

 Il finale è degno di uno scrittore alle prime armi e non di King, ed evito di commentarlo perchè altrimenti spoilero troppo.

 So che ne hanno tratto una serie tv e non me ne stupisco, visto che un'altra cosa a cui sembrano audiovisivamente attaccati gli americani è l'estetica anni '60-'70. 

 Non mi stupirei neanche se la serie fosse buona visto che una trama che basa gran parte del suo fascino sull'effetto nostalgia collettiva di una nazione, di certo rende benissimo nella ricostruzione scenica (basti pensare a serie come "Mad men"). Inoltre spero che gli sceneggiatori lavorino molto sui buchi di trama e sulla noia, dando al protagonista motivazioni e intenti più solidi e validi.

 Di sicuro il libro non dà neanche l'idea di un'occasione perduta, ma una ben peggiore, quella di un tomo che, in realtà, non avrebbe proprio avuto motivo di esistere.

8 commenti:

  1. Stephen King, centinaia di pagine superflue e un finale inadeguato. Perché non faccio fatica a crederlo? :P

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  2. A me è piaciuto questo romanzo, tranne per il finale sentimentale riservato al protagonista. L'unica cosa che mi disturba del King degli ultimi anni è questa sua vena sentimentale tendente allo svenevole. Ed anche un pò troppo "comoda", in un certo senso.
    Il punto del romanzo, secondo me, è ricordarci, quando tendiamo al nostalgico o al "se le cose fossero andate in un altro modo", che non necessariamente se non fosse accaduto questo o quello evento la Storia ci avrebbe portato a un presente migliore. Nel caso del romanzo, anzi, Jack scopre amaramente che, evitato l'assassinio, le cose sono persino peggiorate rispetto alla realtà che conosceva (e scusate lo spoiler).
    Per quanto riguarda la motivazione dietro questa missione di cui Jake si fa carico, io non ne sento il bisogno. Mi interessa la storia. Può anche darsi che all'inizio sembri che Jake non sia coinvolto nel progetto di Al. Ma dato che poi lo persegue fino in fondo, con caparbietà, non ho bisogno di qualche motivazione dichiarata. Le azioni del personaggio mi sono cioè sufficienti. La storia è in corso e mi limito a seguirla.
    Ho letto il romanzo abbastanza velocemente, forse non è uno dei "King" che mi ha colpita di più, ma certo non lo relegherei nei "fallimenti".

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    1. Sì però la domanda "E se cambio il corso della storia cosa succede?" se la fanno tutti coloro che pasticciano col corso della storia nei vari libri di viaggi del tempo. Se la fanno persino i predatori del tempo. Non è plausibile che Jake non si faccia mai venire un dubbio in proposito (e in compenso si perda nella lunga parte iniziale con la strage della famiglia il giorno di Halloween). L'impressione che mi ha dato è quella di voler affrontare un tema che lo affascinava, a ogni costo, pur non avendo un'idea forte di base a sostenerlo.

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    2. Dubbio di Jake: pagina 52. Ma Jake "voleva essere convinto": pag. 53.
      Non c'è niente di male a dire semplicemente che un romanzo non è piaciuto, comunque - ovviamente.

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    3. Un dubbio a pag. 52 mentre stai cambiando il corso della storia mi pare un po' pochino, anche Marty Mcfly ne aveva di più. Poi, forse il punto è che da uno scrittore non di livello ti aspetti solo una storia godibile, magari da King ti aspetti anche una profondità che vada oltre Piccolo mondo antico Fogazzaro

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  3. Bentornata! La verbosità di King mi ha, sinora, tenuto lontana dalla "Torre Nera". Anzi, credo di averne letto uno dei primi libri e di averlo semi-dimenticato.
    Questa ossessione per l'estetica anni 70 ha pure portato, in Italia, alla costruzione dei palazzi più brutti della nostra storia. Negli ultimi anni sembra superata, incrociamo le dita.

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  4. La verbosità è abbastanza tipica dei romanzieri best seller USA.
    Il romanzo non mi è dispiaciuto, poteva essere più smilzo, questo sì, ma funziona.
    La miniserie è migliore, perché più stringata per forza di cose.
    Li consiglio comunque entrambi, anche perché King non esita a mostrare anche i lati negativi della vita in quegli anni, sia pure timidamente.

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    1. Direi molto timidamente. A parte qualche vago accenno al razzismo e alla condizione della donna, sembra un piccolo mondo antico.

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