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domenica 15 settembre 2019

Noi siamo ricordi, non accidenti. "Febbre" di Jonathan Bazzi, una grandissima sorpresa tra Rozzano, ossessioni e anni '80.


 Ho sentito lungamente parlare di "Febbre" di Jonathan Bazzi e, dopo averlo letto, credo che se ne sia abbondantemente parlato per i motivi sbagliati.
Rozzano

 Mi era stato presentato come “il libro che finalmente riportava l’attenzione sul grande rimosso dell’aids”.

 Io e Bazzi, che più o meno abbiamo la stessa età, non abbiamo preso la grande ondata dell’orrore della scoperta del AIDS che deve aver travolto l’umanità tutta all’inizio degli anni ’80.

 Eravamo fortunatamente troppo piccoli (il virus è stato “scoperto” proprio l’anno in cui sono nata) per vedere amici morire a mucchi o finire nella paranoia del “se dovesse toccare a me” o nell’ondata di accanimento crescente verso la comunità lgbt.

 A casa mia si è sempre parlato poco di sessualità, nel bene e nel male. 

 Non credo di aver mai sentito i miei genitori dire una sola parola contraria, ma (prima del mio coming out) neanche positiva, verso gli omosessuali. Erano qualcosa che non li aveva mai riguardati e che, fondamentalmente, non conoscevano.

 Al contrario di molte persone che non conoscono qualcosa però, non hanno mai pensato né di denigrare la comunità né di lasciarsi andare a facili stereotipi. Non sappiamo chi sono e cosa fanno. Punto. Non sono buoni e neanche malvagi. 

Quindi che l’aids fosse stata “la peste dei gay” l’ho scoperto solo da adulta.

 In generale tutto quello che ricordo sul tema, fino all’età in cui ti convincono a usare i contraccettivi a tutti i costi se no finirai incinta o morirai male (dalle mie parti a scuola non andavano tanto per il sottile e ho avuto signore del consultorio a farci qualche ora scolastica di educazione sessuale sin dalle scuole medie, infatti non ho mai avuto una compagna di scuola incinta), si riduce a pochi sprazzi.

 1) Mia madre che mi fa fare il minimo sindacale delle vaccinazioni (genitori vaccinate i vostri figli) perché aveva 20 anni 20 e al consultorio l’avevano un po’ tanto spaventata dicendo che “In America c’era un nuovo virus che non si conosceva” e lei aveva pensato bene che quindi meno roba mi inoculavano, meglio doveva essere (ho avuto la pertosse a 15 anni e momenti mando all’altro mondo mio cugino neonato: VACCINATEVI).

2) Quelle agghiaccianti pubblicità in bianco e nero con la gente con l’aura colorata che se ti toccava morivi.

3) Le vignette di Lupo Alberto.

4) Una storia di Dylan Dog, “Dopo mezzanotte”, letta a casa di mio cugino, durante la comunione di un altro cugino, in cui Dylan, rimasto chiuso fuori casa vaga per tutta la notte tra omicidi, tossici, eroina e bassifondi in generale. 

 Ad un tratto finisce a casa di un tizio gay che si comprende essere malato di aids e, come succedeva in un’epoca prericerca e medicine ad hoc, era destinato a morire in breve tempo.

Fine.

Potrebbe forse essere sempre più di quello che un bambino/ragazzino medio potrebbe venire casualmente a sapere allo stato attuale.

Col tempo, infatti, la paura, ma anche la prevenzione, sono diventate una faccenda molto silenziosa. 

Esiste sì, ma nessuno ne parla se non sporadicamente, così, de botto, senza senso, senza un vero perché.

 Così, comprendo pienamente perché si sia parlato di questo libro principalmente per questo motivo: Jonathan Bazzi è un giovane autore di Rozzano che racconta di come ha scoperto di essere positivo all’hiv.

 Ad un certo punto della sua esistenza ha iniziato ad avere una febbre persistente e insistente.

Nulla sembrava farla passare, niente, innumerevoli analisi non davano risultati che riuscissero a isolare il problema. Finché.

 Onorevole esporsi fino a questo punto in una società che ondeggia tra un nevrotico politically correct (che nelle sue derive certe volte finisce per essere ridicolo) e una becera e cieca vocazione all’insulto e all’odio.

Tuttavia ammetto di aver letto le parti dedicate alla scoperta del virus con assai meno gusto di quelle, davvero bellissime, e che sembrano a tutti gli effetti un altro romanzo, che ricostruiscono la sua breve vita.

 Jonathan Bazzi racconta una piccola vita in una grande, rumorosa, difficile periferia.

 Nasce da una coppia di genitori molto giovani che si sposano con la cosiddetta rincorsa (negli anni ’80 era ancora usanza sposarsi appena si commetteva il fattaccio) e che divorziano con altrettanta rincorsa.

 Rimasto solo con la madre (il padre, poliziotto, rimarrà sempre presente, ma diciamo a fasi alterne), insieme tornano a vivere a casa dei nonni, dove vige una rigida gestione patriarcale della famiglia, col terribile nonno a capo di tutto. 

 Rozzano, la periferia milanese dove vivono, è un posto, a voler esser buoni, molto complicato: difficili convivenze tra tanti immigrati interni del sud, si uniscono a quel generale senso di abbandono che caratterizza molte periferie dormitori. 

 Tanta gente, pochi servizi, il benessere degli anni ’80, qui rappresentato dalla vicinanza con Milano 2 e il berlusconismo nascente che dà lavoro a tanti, compresa la madre di Bazzi, ma che lambisce appena famiglie che vengono ghettizzate e si autoghettizzano.

Come se non bastasse né Jonathan né sua madre sembrano essere persone facili.

 Sua madre trova un uomo peggio dell’altro, lui è uno di quei bambini, poi adulti, con dei tratti vagamente ossessivi: arde di passione per certe passioni futili che però, nell’immediato, gli portano conforto.

 Del resto, dovremmo provare a esser noi dei ragazzini gay in una periferia machista degli anni ’90.

 Ecco, la storia di questa sua vita è talmente scritta bene, talmente folgorante, talmente vera in un mare di finte vite fantasticate (poche cose sono irritanti come i benestanti che immaginano come debbano essere i poveri) da rendere questo libro davvero bellissimo.

 Il racconto della malattia è un pretesto quasi inutile e sbiadisce davanti alla splendida narrazione di un’infanzia e un’adolescenza di periferia di cui esistono tanti racconti falsi, ora troppo crudi, ora troppo edulcorati, ora troppo edificanti o didascalici, ora troppo pesanti e cruenti. 

 Tanto che forse l’unica parte debole del libro sono proprio le ultimissime pagine, quando quell'affresco di una vita come tante, così piccola eppure carica di dolore, forza ed energia, viene inghiottito dal racconto sul coming out della malattia.

 Se c’è una cosa che questo libro riesce a dire è che le persone sono definite da laboriosi ricordi e non certo dagli accidenti disgraziati e occasionali della vita, così il fatto che quel finale sull’Hiv/Aids venga considerato superfluo è una schiacciante vittoria.

 Al lettore non interessa niente del perché e del per come Jonathan abbia deciso di parlarne (anche se questo ovviamente non vuol dire sminuire la portata di un gesto enorme), vuole solo conoscerlo ancora ancora e ancora meglio.

Ed è questo che fa la differenza tra un narratore occasionale e uno scrittore.

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