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domenica 10 gennaio 2016

L'Africa coloniale italiana, la "mondina nera", una storia d'amore moderna e un partigiano particolare per capire chi siamo davvero rispetto alla storia. Recensione di "Timira" di Wu Ming e Antar Mohamed.

 Una delle mie più lontane amiche d'infanzia ha una storia sentimentale molto romanzesca.

Cattolicissima, all'inizio dell'università,  durante un viaggio, si era innamorata di una guida nordafricana in loco (mi tengo sul vago che insomma, non penso voglia che la sua vita sentimentale venga gridata urbi et orbi e visto che lo sto facendo comunque, almeno ometto un po'). Il sentimento era reciproco, ma  vuoi la distanza, vuoi i non proprio salti di gioia dei genitori di lei, vuoi gli amici cattolici di lei che si stracciavano le vesti come se fossimo ai tempi delle crociate, la faccenda non fu mai vissuta tranquillamente.
 Ma lei era proprio innamorata e visto che la Bossi-Fini non consentiva a lui di venire in Italia (ho imparato molte cose sulla Bossi-Fini da questa storia), allora aveva trovato il modo di fare degli stage lei nel suo paese. Una cosa che, lo ammetto, non credo avrei avuto il fegato di fare manco se sospinta dai fuochi dell'amore eterno.
 Tutto remava contro di loro e tutti continuò a remare, tanto che alla fine, la storia, per quanto in un romanzo sarebbe magari finita bene, nella realtà, semplicemente, finì. Siccome come direbbero i nostri amici delle coincidenze cosmiche certe cose non accadono per caso (e come dico più razionalmente io, se fai certe scelte poi farai un certo percorso di vita), nel frattempo era entrata nel magico mondo delle ONG e del volontariato/lavoro internazionale (quello serio però, non quello faidatè) e, un po' per dimenticare, un po' perché era davvero una buona opportunità, è finita a lavorare per qualche anno in Etiopia, dove (ve lo dico per dovere di cronaca) ha trovato l'amore e altri problemi con la Bossi-Fini.
"Timira" e il suo libro gemello "Razza partigiana" sul fratello
Giorgio Marincola, per la cui memoria lei si battè sempre.
Antar Mohamed, figlio di Isabella/Timira,
è il co-autore del romanzo.
 Nei lunghi anni in cui è stata giù l'Etiopia mi è apparsa dai suoi racconti come una mondo molto contraddittorio e strano. Mentre io imploravo il gestore telefonico di riallacciarmi la linea dopo tre mesi di appelli inutili, lei, ad Addis Abeba navigava tranquillissimamente. Al contempo si lamentava del passaggio delle capre in mezzo alla strada e faceva inquietanti descrizioni di gigainsetti che al confronto gli orridi scarafaggi con cui devo combattere in estate erano moscerini. In generale ovviamente mi aveva solleticato il dubbio di cosa avessimo combinato laggiù un secolo e mezzo prima, perché ci fossimo ficcati proprio lì (i libri di storia glissano sempre molto sulla faccenda dicendo che insomma siam stati dei colonizzatori all'acqua di rose a parte qualche sanguinosa battaglia).
 Mi aveva, insomma, messo molta curiosità ed il motivo per cui ho avuto il coraggio dopo anni di rifiuto di riprendere in mano un libro dei Wu Ming: "Timira".
 Lo so, i Wu Ming al confronto della maggior parte della narrativa italiana semplicistica  e raffazzonata (io direi anche della narrativa in generale) è oro. Non si può dire che manchino d'inventiva, coraggio o originalità.
 Tuttavia il primo libro uscito dalla loro penna che abbia mai letto fu "Q" che riuscii a regalarmi alcune delle ore di più profonde noia della mia esistenza.
 Ne ho ricordi frammentati e frustranti. Perché tutti lo trovavano meraviglioso tranne me? Dove avevo sbagliato? Abbandonai la bibliografia wu-minghiana con la convinzione di non essere nelle loro corde, per quanto potenzialmente seducenti.
 Ciononostante, in questi lunghi anni, non ho potuto fare a meno di guardare i loro libri dalle sempre più interessanti trame giungere in libreria. Tutto si può dire tranne che non abbiano il gusto per quel particolare che in genere mi piace tanto, tuttavia il vecchio tarlo di "Q" però mi ha sempre messo in guardia: "vuoi rivivere l'infausta esperienza?", mi ripeteva malvagio. E allora ecco che il libro rimaneva sul tavolo delle novità.
 Poi però ho visto "Timira" e mi si è accesa una spia di curiosità. La storia vera di una delle prime donne di colore italiane, figlia di una donna somala e di un soldato fascista e di un'epoca, soprattutto, terribile e incredibile al tempo stesso, era una sirena che proprio non riuscivo ad ignorare.
 Il tarlo delle storie dall'ex Africa Italiana della mia amica si univa alla curiosità per quella parte di storia che a scuola ci fanno studiare forse e per sbaglio: i casini e gli orrori coloniali italiani. Così ho ignorato la mia voce di guardia interna e mi sono gettata tra le braccia di "Timira" e non me ne sono pentita.

Il tono è meno sofisticato di quello di "Q", ma molto adatto ad una storia che ha per protagonista una ruspante signora alla soglia degli ottanta anni che, in quanto cittadina italiana, si vede tra i pochi ad avere l'onore di evacuare da una Somalia sconvolta dalla guerra civile a inizio degli anni '90. E' vero, si faceva chiamare Timirò Hassan, aveva un marito somalo e un figlio di nome Antar (che però viveva in Italia) e in Somalia era nata, ma il suo vero nome era Isabella Marincola ed era figlia di una donna del posto e di un soldato italiano. Il padre, un personaggio che nel libro rimane un po' in ombra (avrei francamente voluto sapere cosa lo avesse spinto a compiere un gesto così inusuale), aveva avuto due figli assieme ad una donna del posto, (ovviamente non molto consenziente): Isabella e Giorgio. Invece di lasciarli lì al loro destino (e alla madre), una volta rientrato in patria, li aveva portati con sè, costringendo tra l'altro la moglie in quel di Roma a prenderli in casa e a crescerli (immaginate il lieve rancore della donna).
 Mentre il maschio, Giorgio, sembrava crescere con minori problemi, Isabella doveva vedersela con la matrigna e la sorellastra a cui però teneva ostinatamente e fieramente testa. Se immaginate una storia tipo "La piccola principessa" con orfana piangente vessata dai parenti cattivi, lasciate stare. Isabella sapeva il fatto suo, studiava alacremente perché sapeva che l'unica sua vera possibilità era la scuola e non risparmiava risposte al veleno.
 La vera svolta avviene quando scoppia la guerra. Suo fratello Giorgio infatti diventa un partigiano e muore in una delle ultimissime battaglie della ritirata tedesca del nord-Italia. Strano partigiano di colore, viene all'inizio creduto un soldato inglese e solo grazie alla testardissima Isabella e a suo figlio Antar ne abbiamo ancora memoria.
 La storia di Giorgio finisce così prematuramente e inizia davvero quella di Isabella. Stufa delle angherie matrignesche, va via di casa e inizia quella vita di fame, ma di enormi speranze romane del dopoguerra. Un libro sulla roma degli anni '50, uscito da poco per Skira, titola "Quando Roma era un paradiso" e riporta l'incredibile quantità di artisti che si concentrarono nella città eterna alla fine della guerra. Un coacervo di pittori, registi, attori e scrittori irripetibile.
 Ogni tanto questi periodi storici esistono, incantevoli e irripetibili. Fu la vera e verace boheme romana: tutti erano talentuosi, tutti si morivano di fame, da Guttuso ad Elsa Morante. Ed è in questo mondo che Isabella atterra diventando una richiestissima modella di nudi artistici e un'attrice di teatro e cinema poi. Se googlate "mondina nera" scoprirete che in "Riso amaro" appariva una mondina di colore. Un assurdo per l'epoca, ma Isabella racconta che Risi l'aveva trovato verosimile in un'ottica metaforica: aiutava a rappresentare lo sfruttamento di tutti i lavoratori del mondo, senza distinzione alcuna.
 La sua carriera artistica sembra lanciata, poi, come spesso avviene, un matrimonio un po' troppo frettoloso cala come una scure sulle sue belle speranze. Si ritrova prima sposata ad un uomo che non riesce a staccarsi dalla madre e la costringe a vivere nei camerini di un teatro e poi compagna di un gelosissimo giornalista, Lamberto Patacconi (sì lo so. un nome degno di "Lord Piselloni", chi segue Paperino e altri infami su fb capirà) che la sposa all'estero perché non può divorziare dal primo marito.
 Con Patacconi fa poi un viaggio in Somalia all'inizio degli anni '60. Lei non vuole partire e invece, una volta in Africa, scopre di voler rimanere. Iniziano così trent'anni in un altro continente, un altro nome, un altro marito, un figlio quando credeva di non poterne avere più e l'intricato mondo delle convenienze politiche e sociali somale. 
 E' una storia incredibile, da film, in cui è racchiuso uno scorcio d'Italia di cui si parla troppo poco: l'Italia coloniale, ciò che i nostri bis e tris nonni hanno combinato in Africa, le schiave somale, quello che ancora combinavamo con Craxi. Ma è anche la storia non raccontata di un'Italia del secondo dopoguerra che risorge dalle proprie macerie con una forza incredibile, con energie enormi, talenti irripetibili e quel senso di possibilità (e dell'avere davvero tutti una possibilità, anche una ragazza di colore in un'Italia fascista fino al giorno prima) che è stato probabilmente la forza di quegli anni.
 C'è un libro di Sandra Petrignani che non mi ha fatto impazzire, ma racconta con molti particolari cos'era Roma a quei tempi, "Addio a Roma" si chiama. C'è un elenco di personaggi da far impallidire: De Chirico, Guttuso, Palma Bucarelli, Moravia, Morante, Mario Schifano, Fellini, Sandro Penna. 
 Un mondo che stava esplodendo tra un passato che sembrava ormai già lontanissimo e che si voleva dimenticare e un futuro che appariva finalmente all'orizzonte.
 Ma la storia di Timira/Isabella insegna che non c'è passato che possa essere dimenticato, e tutto ciò che non si affronta subito prima o poi ritorna, nel bene o nel male, nelle pieghe della storia. Insegna che la storia la determinano le masse, ma la fanno i singoli, una frase fatta che diventa enorme quando ne pensiamo le conseguenze applicate alla nostra vita.
 Poteva mai pensare Giuseppe Marincola, soldato coloniale, che quel suo gesto così inusuale di portare quei due bambini in Italia avrebbe concesso loro un posto piccolo, ma incredibile nella storia? Avrebbe mai potuto immaginare che avrebbe avuto una figlia attrice dalla vita picaresca, un nipote che lo avrebbe ricordato in un romanzo che in molti avrebbero letto, un nipote che forse se dei nazisti ormai sconfitti non avessero ucciso avrebbe potuto dar molto alla storia repubblicana?
 La storia di Isabella/Timira è un romanzo gustoso da leggere, una storia bella da ricordare e raccontare, ma è anche (assieme alla quella della mia ignara amica dell'inizio) e soprattutto l'emblema di quello che siamo rispetto alla storia. Un frammento piccolo, fragile, quasi invisibile eppure indispensabile perché il quadro,  per lontano che ci appaia, sia completo.

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