Pagine

martedì 5 novembre 2019

Piccola città, bastardo posto. Scrittori che hanno detestato le città dove hanno vissuto (ma che forse, senza di esse, non avrebbero scritto i loro capolavori).

 Se c'è un posto nella mia esistenza che non ho sopportato con tutte le mie forze, quello è stato Bergamo.

  Non me ne vogliano i bergamaschi, ma come cantava Guccini la ricordo "come un incubo oscuro, un periodo di buio gettato via".

 Quanto sono stata infelice in quella città è difficile spiegare anche se, anni dopo, a posteriori, posso ovviamente dire che la maggior parte delle colpe fossero ovviamente mie (sebbene continui a pensare che il luogo non ne sia completamente esente).

 Prima, non mi era mai successo di detestare una città.

 Ho sempre amato moltissimo il posto dove sono cresciuta e ho sempre trovato splendida la città dove avrei voluto vivere e sono riuscita a passare un solo bellissimo e fondamentale anno della mia vita, Roma.

 Non avevo mai preso in considerazione l'idea di vivere altrove, ma si sa, l'amore fa fare cose orribili.

 Perciò quando mi trasferii a Bergamo venivo da una città che adoravo e in cui mi trovavo benissimo, vicino a casa, che conoscevo da sempre, un posto che mi sembrava il centro di tutto.

 Trovarsi dall'altro capo d'Italia in una cittadina dai costumi diciamo diversi (non essendo una fervente cattolica o un'amante della montagna molte attività mi erano precluse), senza nessun amico, senza parenti e senza, ovviamente, lavoro, fu lo shock totale. 

 L'amore aiutava, ma l'amore non è che può tutto e, anche quando mi trasferii a Milano, le cose non andarono bene per altri due anni. Quattro anni che mi sono sembrati infiniti, in cui ho detestato ogni singolo ciottolo che ho calpestato.

 Eppure, senza quei quattro anni non avrei niente di quello che ho oggi: l'amore, il lavoro, il blog, i fumetti, i miei nuovi amici.

 Le città che amiamo hanno una grande influenza su di noi, ma assai più misteriosa è l'influenza delle città che odiamo.

 Se anche non fosse vero che l'odio è composto per tre quarti dal nostro amore (e non lo è), di certo è un sentimento potente in grado di accendere qualcosa di forte dentro di noi.
Quando riusciamo a dominarlo, a non lasciarci sconfiggere, possiamo farne grandi cose.

 Per dare man forte al mio delirio, ho ideato questo post sulle città detestate dagli scrittori (o sugli scrittori che detestarono alcune città).

 Di sicuro ci sono tanti altri esempi che saprete fornirmi e che io, ovviamente, attendo con ansia!


OVIDIO E TOMI:

 Uno dei capostipiti dell'odio per un luogo è indubbiamente Ovidio.

 Il ritratto che i professori fanno alle superiori di questo prolifico scrittore è ai limiti di "Chi" o "Novella 2000". Descritto come un raffinato viveur, dedito alla bella vita, alle poesie e alle feste, benvoluto dalle alte cariche e con una verve creativa irresistibile, a un certo punto viene spedito a languire e, infine, a morire, sul Mar Nero, nell'attuale Romania.

 Di colpo la capitale sgargiante gli viene proibita, proprio a lui, stella incontrastata del belmondo romano.

 Perché? Per come? L'ipotesi più accreditata, o che ti lasciano intendere al liceo, propro in nome del momento Novella 2000, è che avesse avuto una storia con la donna sbagliata: la figlia dell'imperatore Augusto.

 Di certo c'è che per sua stessa ammissione qualcosa combinò e quel qualcosa lo portò in un esilio talmente drammatico da spingerlo a scrivere un complesso di componimenti detto "Tristia".

 L'attacco riassume tutto il dramma di chi si consuma di nostalgia:

 "Senza di me - ma non sono geloso - andrai, piccolo libro, a Roma: ahimè, che non è permesso andarvi al tuo padrone. Va', ma disadorno, come si addice al libro di un esiliato. Infelice, metti l'abito che si conviene a questo mio tempo!"


LEOPARDI e QUALSIASI CITTA':

 L'emblema assoluto della persona che riuscì nella rara impresa di odiare praticamente tutte le città in cui mise piede fu Leopardi.

 E' la cosa che più mi rimase impressa alle superiori su quello che è in realtà uno dei più grandi poeti italiani della storia. Ma cosa vogliamo farci? Non faceva altro che lamentarsi!

 Recanati no perché era un posto sperduto nelle Marche, il padre tirannico, la gobba, l'infelicità. Possiamo capirlo del resto, in tanti ci siamo sentiti stretti nel posto dove siamo nati.

Tuttavia il resto della sua esistenza non può che suggerirci due possibili soluzioni: o si trattava di una persona particolarmente lamentosa e incontentabile, oppure, più empaticamente, le sofferenze interiori ti rendono insopportabile qualsiasi luogo.

 Questo perché.

 Roma no, perché se la immaginava in un modo dai libri e invece si rivelò un luogo squallido e corrotto.

 E Milano no perché era noiosa e c'era un pessimo clima.

 E Firenze no perché era fetidissima ed ebbe una serie di quegli sventurati affari amorosi con donne nobili, già sposate che proprio non lo volevano.

 Napoli non si capisce bene, forse trovò una certa pace perché era una città che più si confaceva al suo carattere o forse perché finalmente aveva finalmente un amico (qualcuno dice anche un amore): Antonio Ranieri. Certo è che alla fine ci morì.


GUCCINI e MODENA:

 Non è propriamente uno scrittore, anche se è ANCHE questo, ma Guccini è di certo colui che mi ha dato lo spunto per questo post.

 In autunno mi piace ascoltare alcune sue canzoni, come "La canzone dei dodici mesi" o "Eskimo", ma quest'anno mi è presa brutta anche con "Piccola città" che avevo sempre sottovalutato.

 Alcuni versi come "Piccola città che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele", mi spezzano il cuore per la nostalgia.

  Ed è strano, visto che per sua stessa ammissione Guccini dedicò questa canzone alla sua città natale: Modena, in un momento di particolare adorazione verso la città d'elezione del suo cuore, Bologna.

 Per lui Modena rappresentava un periodo oscuro del dopoguerra, quando miseria e mancanza di prospettive non riempivano proprio il cuore di un giovane di belle speranze.

 Eppure è difficile pensare che questa sia canzone cattiva verso una città, è un tale concentrato di ricordi d'infanzia, di quel periodo che, qualsiasi cosa faremo, ovunque andremo, chiunque conosceremo, rimarrà la nostra pietra d'angolo, da lasciare stupefatti.

 Più passano gli anni, malgrado faccia nuove cose, per quante persone conosca, rimango sconcertata dalla forza invincibile di quei primi vent'anni della mia vita, un monolite che niente riesce a scalfire nel bene e nel male.


SIMONE de BEAUVOIR e ROUEN:

 Quando piangevo il mio esilio bergamasco, una delle cose che mi davano una certa speranza nel futuro era il pensiero che anche Simone de Beauvoir aveva passato due odiosi anni in una cittadina di provincia dove l'unica cosa che le faceva passare il tempo era andar per montagne.

 Il posto in questione era Rouen, dove insegnava in una scuola femminile dove non succedeva mai niente se non qualche scandalo lesbico tra insegnanti e storie varie di esuli russe bianche.

 Rouen era quanto di più noioso potesse accadere a una delle più grandi scrittrici del novecento: il nulla cosmico, la noia, un lavoro che la appassionava solo a tratti e il pensiero continuo che la vita stesse scorrendo in tutta la sua potenza. Altrove.

 Fu però anche il posto dove Simone de Beauvoir conobbe un'alunna fondamentale per la sua esistenza di scrittrice, quell'Olga che le diede successivamente l'idea per "L'invitata", il suo fortunato romanzo d'esordio.


BIANCIARDI e MILANO:

Milan l'è un gran milan, ma è anche una città difficile, dura, che tanto dà, ma molto di più chiede. 

 Pochi posti in Italia possono vantare un tale ventaglio di possibilità per chi desidera lanciarsi verso più grandi orizzonti, ma pochi posti risucchiano in modo altrettanto voluttuoso energie e stipendi. 

 Bene lo sapeva Luciano Bianciardi che basò la sua opera narrativa sull'ossessione che questa città (e il lavoro che gli aveva dato) procurò a un'esistenza sempre in lotta.

 Voglio dirlo, pochi scrittori mi danno un senso d'immedesimazione, d'identità, come Bianciardi. 

 Nella sua totale insofferenza verso un mondo ipocrita, verso tanti salamecchi, verso i ricchi che si atteggiano a poveri e i poveri che venderebbero l'anima pur di essere (o peggio apparire) ricchi, mi rivedo in un modo quasi straniante.

  Probabilmente perché Milano ha su di me la stessa impressione: un luogo verso il quale sono andata (io più casualmente di lui) e che mi ha dato in un certo senso ciò a cui aspiravo, ma anche un posto dove chi è insofferente e "contro" trova un'esasperazione ai suoi pensieri tortuosi.

 Bianciardi lottò fino alla fine per non integrarsi in un mondo che disperatamente lo avrebbe accolto e divorato. Milano della quale non poteva fare a meno e che infine lo distrusse.


GOETHE e L'ITALIA:

Il grand tour nel sud dell'Europa era il must per giovani del nord e mitteleuropa dell'ottocento.

 Erano molto innamorati dei nostri cieli, di un buon clima che potesse guarire le infinite malattie polmonari che molti lutti addusse ai nordeuropei e di, incredibile ma vero, una certa libertà di costumi.

 Leggere adesso "Viaggio in Italia" di Goethe è un vero spasso.
 Nessun travel blogger può permettersi di essere così sincero, né, probabilmente vorrebbe (ho in canna da tempo un post sui rapporti tra blogger e servizio al potere che non ho cuore di pubblicare), ma Goethe, che non aveva problemi social e neanche di autobranding poteva pur scrivere quello che gli pareva.

 Scopriamo perciò che Venezia non gli piacque particolarmente, la considerò sporca e poco accogliente, che a Firenze si concentrò immotivatamente su monumenti minori e che visitò Bologna di una manciata di ore decretando fosse noiosa e per niente affascinante.

 Pieno di pregiudizi verso Roma che da buon protestante considerava il corrotto centro del cattolicesimo, scopre invece una città viva e piena d'interessi in cui si intrattiene piacevolmente prima di partire alla volta di Napoli, amatissima e dove secondo me c'è la frase top del libro.

 Un locale infatti gli dice che al nord: "sempre neve, case di legno, gran ignoranza e denaro assai".

 Il gran finale però non è all'altezza.
La Sicilia si rivela un luogo troppo difficoltoso però il nostro che si imbatte in una Messina rasa al suolo dal terremoto, in grandissime difficoltà di viaggio nell'entroterra e in generale Goethe è ormai folgorato dalla sympatia napoletana che non ravvisa nei siciliani (infatti a un certo punto prende armi e bagagli e torna prima a Napoli e poi a Roma).

 Un gran tour così sincero adesso sarebbe impossibile. Nessuno vuole finire male all'epoca dei social.


DOSTOEVSKIJ e SAN PIETROBURGO:

Strano forse a dirsi vista la preminenza dell'atmosfera cittadina nei suoi romanzi, ma Dostoevskij detestava la sua San Pietroburgo. 

 I motivi di tale odio possono essere stati molteplici: nato a Mosca vi venne spedito dal padre per frequentare un'accademia militare in vista di una carriera che non prese mai il via (e che non prese neanche mai in considerazione davvero).

 Era, San Pietroburgo una città che doveva forse apparire strana all'epoca, lui la descrive "astratta e premeditata", essendo stata costruita dallo zar con uno scopo preciso: quello di sembrare una città quanto più simile all'Europa.

 In perenni economie, cambiò venti casi scrivendo un capolavoro dietro l'altro, ci sarebbe comunque riuscito lontano da lì?


JOYCE  e ROMA:

Roma è una città con la quale i nordici, intesi come nord Europa, hanno sempre avuto un ambiguo rapporto.

  Keats ci andò tentando di non morire (e ci morì), gli Shelley ci persero una figlia (in generale l'Italia non portò fortuna alla loro prole) e Joyce, a quanto sembra, la odiò visceralmente.

 Mentre già si trovava a Trieste, rispose a un annuncio di lavoro di una banca che cercava in quel di Roma un corrispondente in grado di leggere e scrivere in varie lingue.

  Joyce rispose e fu assunto andando ad abitare vicino via Frattina. Tuttavia, come scrisse in numerose lettere al fratello, odiò Roma con tutte le sue forze.

 Sette mesi pessimi che gli bastarono a decidere di scappare, ma che vengono ritenuti dagli studiosi fondamentali nella genesi del suo capolavoro, l'Ulisse, confermando questo strano rapporto fruttuoso tra scrittori e città profondamente odiate.


2 commenti:

  1. Mi faccio vivo per fare, come al solito il pignolo, non è che in
    "le città dove hanno vissto"
    Manchi una u?
    I migliori saluti di un mattino piovoso.

    RispondiElimina
  2. Eco la seconda pignola.
    Simone de Beauvoir andava per montagne quando insegnava a Marsiglia, l’anno prima di Rouen e andava su e giù per l’esame Alpes Maritimes. A Rouen poteva solo struggersi, tornare a Parigi e consolarsi col fatto che Sartre era a Laon, quindi non lontanissimo. Dove le avrebbe trovate le montagne nella piatta Normandia la povera Simone?
    Comunque bel post, grazie. ��

    RispondiElimina