Un
giocattolo che ha sempre riscosso su di me un interesse pari allo
zero è la bambola.
Anche a distanza di anni la trovo una cosa inquietante
Già
da bambina la detestavo, trovavo inquietante l’idea di un bambino
che immagina di essere la mamma di un altro bambino e, per quanto
l’età adulta mi abbia rassicurato al riguardo su più fronti
(l’emulazione delle figure di riferimento blabla) continuo a non
trovare appassionante l’esistenza dell’oggetto transazionale per
eccellenza.
Di
solito le bambole sono protagoniste di due tipi di storia: quelle per
bambini e quelle horror. La cosa, da un certo punto di vista, mi
rassicura perché io nelle bambole ho sempre visto un lato
assolutamente inquietante e sapere di non essere la sola mi fa
sentire meno strana.
Mi
spiace, ma l’idea di un giocattolo che riproduca un essere umano,
per giunta in piccolo, per giunto necessitante di cure da un altro
essere che neanche sa badare a se stesso, mi era misteriosa e
fastidiosa già all’asilo.
Non solo non capivo cosa ci fosse di
attraente nell’imitare passeggini e pose materne, ma oscuramente lo
avvertivo come sospetto. Cosa voleva quell’essere inanimato da me?
Perché dovevo nutrirlo e portarlo in giro se, per giunta, non si
degnava neanche di dare segni di vita?
"Le storie del negozio di bambola" di Tsuhara Yasumi ed. Lindau
Non
andava meglio con le Barbie che, ovviamente, mi regalavano. Mi
sforzai una volta di cucire un vestito da sposa (perché mia madre
amava cucire e pensava che dovessi amarlo anche io) e fu divertente
il processo in sé della costruzione dell’abito, ma una volta e mai
più e della Barbie anche chissene.
Raggiunsi il culmine quando
tagliai le trecce perfette di una similbarbie per vedere come stava
con un altro taglio. Sgridata epocale, ma almeno la facemmo finita di
fingere che mi piacesse quella roba.
Tuttavia più di altri giocattoli è evidente che tali sentimenti possano essere suscitati solo da un giocattolo dal complesso significato simbolico e dal lontano passato.
Tale complessità, che cambia radicalmente anche a seconda della cultura di riferimento, si
evince da questa bella raccolta di racconti di Tsuhara Yasumi.
Il
filo conduttore delle storie è il negozio per la riparazione di
bambole che la protagonista, Mio, ha ereditato dal nonno che è
andato beatamente a godersi la pensione in Nuova Zelanda.
Lei, che ha
passato i 30 anni e quindi in Giappone è ormai merce vecchia per il
matrimonio, (cosa che non fanno altro che ripeterle lanciandole
frecciatine che in Italia finirebbero nel sangue), è stata appena
licenziata da un’agenzia pubblicitaria e così decide di lanciarsi
nell’impresa.
Assume quindi un giovane riparatore avvenente che fa
strage tra le liceali pronte a sborsare cifre ingenti per gli orsetti
usciti dalle sue sante mani e un mysterioso uomo di mezza età dalla
grandissima esperienza e il passato oscuro.
Devo
dire che le premesse per un manga in pieno stile Clamp (mi ricordava
in principio molto Lawful Drugstore che le disgraziate Clamp non
hanno mai terminato, maledette loro) c’erano tutte e un po’ mi
spiace che l’autore, che pure viene dal genere horror, non abbia
forzato la mano.
Tuttavia
è notevole l’esercizio di stile dei racconti, come Tsuhara Yasumi si fosse imposto (cosa che non escludo potrebbe aver fatto) di scrivere una novella per ogni genere letterario: horror, giallo, erotico, colto,
slice of life ecc.
Traspare
dai racconti l’incredibile cultura che i giapponesi hanno in
materia di bambole e che, probabilmente, ha determinato l’attuale
importanza di un altro tipo di bambole a uso erotico o di semplice
“compagnia” (ho scoperto l’esistenza delle dutch wife, sorta di
raffinatissime bambole a uso sessuale dal nome peculiare).
"Chobits"
Questo mi
ha riportato ad altre storie delle Clamp, soprattutto “Chobits”,
che vede protagonista una tipologia di bambola che rappresenta un po’
l’ideale dell’uomo giapponese: la ragazza giovane, dolce, pura e
incontaminata (al punto che per un particolare di fabbricazione inquietante voluto da suo “padre” non può fare sesso senza
resettare la propria memoria).
In questo mondo del futuro ci sono
anche delle vere e proprie forme di unioni tra esseri umani e bambole
prefabbricate. Ovviamente non è l’unico fumetto del panorama manga
in cui una bambola umanoide incarna i desideri di perfezione dei
personaggi, perciò immagino che sia qualcosa di ricorrente
nell’immaginario giapponese.
Una
raccolta originale, ben fatta, che riesce in pieno nella sua
variazione sul tema abusato del “giovane ad un punto morto della
sua vita eredita negozietto da parente anziano o defunto”.
Al punto
che mi piacerebbe tantissimo ci fosse un seguito (magari qualcuno che
legge in lingua originale mi sa dare lumi in merito).
Credo
che potenzialmente gli spunti siano infiniti e tutti i personaggi
meriterebbero di avere un destino compiuto (anche se i lettori di
manga sapranno benissimo che l’idea di un finale chiuso sembra
proprio fare orrore agli autori giapponesi).
In
ogni caso, lettori amanti del Giappone, è un libro tutto da leggere!
Perfetto per le serate estive, tra una fetta d’anguria e un po’
di umeshu venduto a peso d’oro nei negozi di alimentari orientali.
Ps. Un caso da manuale sul confine un po' labile tra infanzia, orrore e bambole, si può trovare nel bellissimo "Vita segreta della bambola solitaria"di Jean Nathan, la biografia della fotografa e scrittrice Dare Wright, poco conosciuta in Italia, famosissima anni fa negli Usa per la serie dedicata alle avventure di una bambola (bambola di proprietà della stessa Wright in un gioco di specchi e di rapporto strettissimo con la madre).
L’esperienza
della lettura è talmente complessa e sfaccettata che anche dopo anni
dà la possibilità di provare nuove emozioni. Ad esempio non mi era mai capitato, fino a pochi giorni fa, di essere in ansia per il futuro di un autore.
Mi
è successo con “Lettere a me stessa” di Kabi Nagata, una sorta
di memoir a fumetti, scritto in forma di lettere che l’autrice
scrive alla sé stessa del futuro.
Ero
davvero entusiasta (so che suona come “sono veramente euforico”,
scusate) di leggerlo dopo il bellissimo “La mia prima volta”,nel
quale la Nagata raccontava la sua prima esperienza sessuale avuta con
una escort lesbica.
Detta così sembra una cosa gigatorbida (so che
accostare le parole lesbica ed escort in troppi cervelli è fatale ed
è sintomo di qualcosa di incredibilmente perverso, ma la realtà,
miei cari, è ben diversa da un porno), in realtà a Nagata aveva
deciso di far ricorso a questo espediente come extrema ratio.
Sostanzialmente, ci racconta, fino alla fine delle superiori la sua vita sembrava, tutto sommato, abbastanza normale. Brava
studentessa, con specifici interessi e tanti amici, poi con
l’università l’inizio dei problemi.
La mancanza di punti di
riferimento e di una solida struttura che garantisse una precisa
scansione del tempo giornaliero e il contatto forzato (e bramato) con coetanei,
precipita l’autrice in una spirale di incertezza, ansia e infine
vera e propria depressione.
Lascia l’università, inizia alcuni
lavoretti part-time e l'insostenibile pressione sociale che la travolge viene aggravata
dai genitori che non prendono sul serio il suo disagio, ma pensano
che caricarla di aspettative e lanciarle frecciatine sia un modo per
stimolarla.
In realtà finisce per scivolare sempre più a fondo tra
autolesionismo e disordini alimentari.
Ad
un certo punto, dopo alcuni terribili anni nei quali ha cercato in ogni modo di riemergere dalla disperazione, Kabi Nagata prende una decisione:non ha mai avuto nessuna esperienza né di tipo sentimentale né,
ovviamente sessuale.
Pensa che questo sia uno dei veri ostacoli alla
vita normale alla quale tanto agogna e così prende il coraggio a due
mani e prenota una escort.
Io
devo dire che seguivo il suo malessere benissimo. Capivo tutto, a partire dallo spaesamento fortissimo dopo
le superiori.
In molti provano un lungo periodo di spaesamento e
anche di tristezza durante i primi mesi o anche anni universitari:
hai fatto di tutto per adattarti alla vita scolastica per anni e,
quando finalmente ci sguazzi come un pesce nel suo oceano, ecco che
vieni bruscamente spostato in un habitat completamente diverso.
L’università è maggiore indipendenza, nuove conoscenze, più
responsabilità.
Intendiamoci, tutte cose belle che iniziano a
prepararti alla vita vera (quando leggo di universitari che si
lamentano della poca meritocrazia durante gli esami provo sempre un
moto di tenerezza, per la serie “non sai cosa ti aspetta caro
mio”), ma per alcuni possono essere davvero una seria e insostenibile fonte di disagio.
Per
Kabi Nagata è stato così, o almeno è quello che si evince dal suo
primo libro che, infine, termina con una nota di speranza che lascia
al lettore la sensazione che tutto stia andando al suo posto e presto
avremo il giusto lieto fine che rassicurerà tutti quanti.
E
qui veniamo a “Lettere a me stessa” che, nell’originale, se ho
ben capito, era diviso in due volumi e, infatti, consta di due
epiloghi, uno a metà libro e uno alla fine.
"Lettere a me stessa" di Kabi Nagata ed. JPop
Nella
prima parte, Kabi Nagata raccoglie i frutti dei suoi sforzi del libro
precedente: l’esperienza con l’escort non le ha dato quello che
sperava, ossia non ha scoperto improvvisamente le magie dell’amore
e dell’eros.
Come scrive, il sesso è comunicazione, e lei è
totalmente chiusa in sé stessa: deve prima imparare a comunicare per
poter intessere un dialogo di corpi così intimo.
Tuttavia, dopo anni
passati a vaneggiare di voler diventare una mangaka, ha finalmente
deciso di raccontare la sua storia riscuotendo un enorme successo che
le ha dato abbastanza una tale indipendenza economica da poter decidere di
andare via di casa.
Ovviamente
non è così semplice, si intuisce che i 10 lunghi anni di
depressione che ha attraversato hanno lasciato dei segni pesantissimi
ed è davvero molto fragile.
Così da lettrice ho iniziato a provare
questa inedita sensazione: ero in ansia per l’autrice.
Voltavo
le pagine e mi dicevo: dai Kabi, vedi che sta andando tutto per il
meglio? Questa è davvero la volta buona!
Invece,
per ogni passo in avanti ce n’era uno indietro. La mazzata per il
lettore arriva dopo il primo epilogo.
Tu stai lì che l’hai vista
finalmente andare a vivere sola, iniziare a tenere un po’ testa ai
suoi genitori, persino uscire con una ragazza e baciarla quando
braaaaaaaaam tutto collassa.
Nella
seconda parte ha un crollo totale e inaspettato che si ripercuote sullo stesso tratto del disegno, ridotto completamente all'essenziale, a tratti tremante e ancor più stilizzato.
Impossibile non essere investiti dal crollo emotivo, tanto che, scrive, molti lettori, colti alla sprovvista,
hanno dato recensioni negative delle nuove lettere (che, in originale, venivano rilasciate man mano). Ma lei, si dice, non può cambiare la
storia della sua vita solo per far loro piacere.
Ed
è qui che si svela tutto l’inganno tra lettore e autore in quei
libri, complicati da gestire, che sono i memoir.
Mentre
per l’autore la corrispondenza tra vita e scrittura è spesso (non
sempre perché in molti casi viene inserito un elemento di
romanzamento) identica,per il lettore il passaggio non è invece
così immediato.
La sensazione predominante è quella di leggere
sempre e comunque una storia che rispetterà i canoni della finzione.
Per
questo motivo la seconda parte del libro coglie alla sprovvista il
lettore. Abituati, da manuale, a seguire un viaggio dell’eroe
codificato in un modo assai preciso, eravamo convintissimi di
trovarci nella parabola discendente: il peggio è passato,
l’esperienza un po’ borderline con la escort le ha dato il giusto
slancio per risolvere i suoi numerosi problemi e tutto sta andando al
suo posto.
Ma,
come cantavano saggiamente gli Articolo 31, la vita non è un film e neanche un
romanzo.
Così, per Kabi Nagata, la parabola che stava scendendo
risale improvvisamente, inaspettatamente, senza, sembra, neanche un
fattore particolarmente scatenante.
Ed è a quel punto che il lettore
(e da quello che si evince, anche i genitori della protagonista)
capisce finalmente quanto abissalmente profondo sia il disagio che ha soverchiato Kabi Nagata cercando con tutte le
sue forze di rimanere a galla.
Veniamo
spiazzati perché vediamo minare le nostre certezze: andrà tutto
bene, si risolverà tutto, il tempo guarisce ogni cosa.
Sono formule
magiche ci ripetiamo, giustamente, tutti i giorni per superare
momenti che appaiono difficili o imperscrutabili. Abbiamo bisogno di
credere che andrà tutto bene perché altrimenti rischieremmo di
rimanere immobili.
Poi
leggi storie come quelle di Kabi Nagata e rimani spiazzato e rimani
in ansia, per lei, ma anche per te.
Perché sai che se lei non
risolverà i suoi problemi, se la storia non avrà un lieto fine,
allora l’incantesimo avrà subito una bordata di difficile
contenimento.
Intendiamoci, accade anche nella vita di incontrare
persone perse e sperdute, ma quante volte decidiamo di distogliere
gli occhi o quante rischiamo di arrabbiarci perché, nonostante tutti
i nostri sforzi, proprio non ne vogliono sapere di essere
“aggiustate”?
Ma
la vita, che pure, ripeto, ha bisogno di quelle formule magiche per
vivere, è spesso devastante e ingiusta e Kabi Nagata, con un’onestà
cristallina, una lucidità davvero notevole, continua a ricordarcelo,
pur persa nei suoi fiumi di lacrime.
Le
cose andranno meglio per lei? A giudicare dalla copertina del suo
terzo libro, almeno al momento sembra di no, ma noi lettori non possiamo far altro che
crederci e mandarle i nostri migliori auguri perché essere gentili
di certo non basterà, ma non potrà mai neanche farle del male.
Vi lascio, bonus track, "Non è un film" degli Articolo 31 che mi frulla in testa da quando ho iniziato a pensare a questo post!
Abbiamo
tutti passato l’adolescenza e post adolescenza a cercare qualcosa
del quale sentivamo oscuramente il bisogno
o per il quale provavamo un incipiente interesse, ma che, vuoi la
provincia, vuoi la geografia, vuoi lo spirito del tempo, non ci era
concesso raggiungere.
Io
ho passato, ad esempio, parecchie ore
dei miei ultimi anni del liceo e dei primi dell’università, alla
ricerca di film e libri a tematica lgbt.
Posso assicurarvi che si trattava di una faccenda laboriosa anche per
una biblioteconoma in erba, naturalmente portata per sviscerare i
complicati link di un web ancor meno organizzato dell’attuale.
"Laura Dean continua a lasciarmi" di Mariko Tamaki
(minipancake frutto della mia follia)
Per
anni ho scartabellato biblioteche e chiesto in prestito all’hi-fi
del paese oscuri film vincitori di altrettanto oscuri premi indie il
cui unico pregio era stato quello di farlidoppiare anche in Italia
dando la flebile speranza ad alcuni produttori di ricavarne qualcosa
(ah, la triste vita di chi non padroneggia le lingue straniere!).
Nulla
lasciava presagire quello che è accaduto negli ultimi 10 anni:
una valanga di telefilm con personaggi lgbt, film (ancora troppo
pochi o troppo tragici in verità, romanzi (idem) e fumetti.
E’
stato come aprire una diga
e i ragazzini di adesso, non dico assolutamente riescano a trovare
rappresentazioni o materiali lgbt nella stessa misura dei loro
coetanei etero, ma ehi, ragazzi, è una valanga in confronto a quello
che per anni ho faticosamente estratto qui e lì come pepite nel
klondike.
Questo
è stato il mio primo pensiero leggendo il nuovo libro di Mariko
Tamaki,
disegnato da Rosemary Valero-O’Connell: “Laura
Dean continua a lasciarmi” ed. Bao Publishing.
Ci
troviamo infatti davanti a una storia che anche solo pochi anni fa
non sarebbe mai stata raccontata così
(e la protagonista lo dice anche ad un certo punto): lei
sta con lei che continua a lasciarla.
Non
ci sono relazioni clandestine, coming out, genitori che non devono
sapere, ostacoli sociali di sorta.
La storia non parla di un amore lgbt con tutte le solite conseguenze
e correlazioni del caso.
La storia parla di un amore che, in questo caso, è tra due ragazze.
Potrebbe
essere un sintomo di progresso o di come la carica rivoluzionaria
delle relazioni lgbt stia completamente detonando davanti a una
società che le sta assimilando nel modo che le è più congeniale
(le relazioni omosessuali hanno iniziato ad apparire fortemente
accettabili e accettate nella società odierna nel momento in cui i
matrimoni gay sono riusciti a connotare nell’istituzione più
normalizzante della storia nella percezione comune una componente
percepita come promiscua e destabilizzante).
Ai
posteri l’ardua sentenza. Ma
di certo graphic come questa dismostrano che l’assimilazione si sta
svolgendo in modo ineluttabile e incredibilmente meno complessa di
quel che ci saremmo aspettati anche solo pochi anni fa.
Mariko
Tamaki è una già conosciuta autrice canadese di origine asiatiche
che, solitamente, va in coppia con sua cugina Jillian. Insieme hanno
prodotto vari titoli dei quali due tradotti in Italia: “E la chiamano estate” e “Skim”.
Pur
conservando anche qui un certo tocco rarefatto nella scrittura,
si capisce chiaramente il perché stavolta Mariko abbia abbandonato
la cugina in favore di una nuova disegnatrice.
Il
livello e il tono delle storie sono completamente diversi. Pur
trattando tutte le graphic di temi adolescenziali
come l’amore, le relazioni con altre persone più o meno adulte
(che tendono a comportarsi in modo irresponsabilmente poco adulto coi
più giovani ponendoli sul loro stesso piano di maturità), le nuove
consapevolezze sentimentali, ma anche sessuali,
“Laura Dean continua a lasciarmi”, conserva un tono più leggero.
“Skim”
raccontava tra lunghi silenzi, disperati tentativi di accettazione e
una certa rassegnazione propria degli adolescenti che pensano la
propria adolescenza non finirà mai, dell’innamoramento
di una studentessa canadese di origine asiatica per la sua insegnante
fricchettona e instabile.
“Laura
Dean continua a lasciarmi” mette invece in scena una relazione tra
pari, in
cui il rapporto prevaricatore da parte di una delle due parti può
esserci solo perché l’altra glielo permette.
Non
c’è un adulto scarsamente maturo che approfitta di qualcuno del
quale dovrebbe prendersi cura, ma due
adolescenti che hanno una storia assai tipica, a prescindere
dall’orientamento sessuale:
come nella storia del piccolo principe”, la protagonista,
Frederica, è il giardiniere e la bella Laura che continua a
lasciarla è chiaramente la rosa.
Se
Saint-Exupery rendeva poetico un rapporto fondamentalmente
sbilanciato,
le cose sono in verità ben diverse. Frederica infatti è
completamente in balia dei capricci di Laura, che sa di essere
irresistibile, è consapevole di essere la parte forte della coppia:
è lei la più bella, la più desiderata, quella che l’altra
dovrebbe considerarsi fortunata a poter frequentare.
Si
vede spesso nei telefilm americani
(la storia è ambientata in California), la
gente che dice:
beh tu sei un 60 e x è un 100 intendendo una scala di valori in cui
la persona desiderata è assai più bella e intelligente di te,
quindi poco da pretendere o da scherzare.
La
base di questo squilibrio è la fonte della sofferenza di Frederica
che, all’inizio, scopre Laura a tradirla. Laura che l’ha già
lasciata varie volte per poi tornare sempre senza troppa fatica. Sa
che Frederica si sente fortunata ad averla e non la lascerà mai.
Nel
lungo viaggio interiore che Frederica affronterà per capire che
l’unico valore di una persona è quello che riesce a darsi,
molti personaggi assai queer si affollano attorno alla protagonista.
Se nelle precedenti graphic i genitori e gli adulti hanno sempre una
connotazione negativa e distante, qui sono sì fonte di guai seri
(che in Italia avrebbero anche portato alla galera immagino), ma
anche riferimenti positivi a cui aggrapparsi.
Il
mondo può essere molto incidentato, ma i buoni amici non ti faranno
sentire mai solo.
Anzi, come in
“Skim”, anche qui la protagonista si
rende conto dei suoi errori,
della sua vulnerabilità e di quanto sbagliata sia la sua relazione
solo
specchiandosi in un’altra persona.
Vedendo
i propri amici muoversi affannosamente come noi in un mondo che
appare una gigantesca ragnatela pronta a imprigionarci, possiamo
individuare i nostri nodi, sperare di tagliarli e tornare liberi.
Frederica
ce la fa perché ha molte persone che la amano e rendono un amore
sbagliato quello che è: un falso amore.
La
stessa identica storia avrebbe potuto essere assai diversa e
incredibilmente distruttiva, ma è anche qui la morale della storia:
sei tu che decidi che qualcuno possa continuare a lasciarti, sei tu
che decidi se essere una buona amica o un appuntamento favoloso. Devi
avere fiducia e devi darti valore e allora i falsi idoli saranno
tutti smascherati,
anche se si presentano sotto le sembianze di ragazze dalla bellezza
abbagliante.
Aggiungo questo post scriptum necessario oggi.
Il mondo descritto nel fumetto non è ancora purtroppo la regola: E' letteralmente il migliore dei mondi possibili allo stato attuale. Mentre in California o Canada adolescenti lgbt si lasciano e si prendono alla luce del sole come è giusto che sia a quell'età, purtroppo in altre parti del mondo la situazione è drammatica.
Sarah Hijazi
Non avrei fatto questo post scriptum che so essere lapalissiano se oggi non fosse arrivata la notizia del suicidio di Sarah Hijazi, una giovane donna di appena trent'anni che qualche anno fa si macchiò dell'incredibile reato di sventolare una bandiera arcobaleno ad un concerto.
Per questo terribile reato fu arrestata e in carcere subì pesanti violenze prima di trovare rifugio in Canada. Oggi si è uccisa ed è per lei e per chi al mondo non è neanche libero di agitare una bandiera arcobaleno mentre va al concerto del suo gruppo preferito che dobbiamo lottare.
E ce n'è da fare, anche a casa nostra, dove non riusciamo neanche a far approvare una legge contro l'omotransfobia con la Chiesa cattolica più intransigente e influente che grida alla limitazione della libertà di opinione (perché ovviamente l'omotransfobia per certa gente non è un crimine, ma una legittima opinione).
Dobbiamo rendere questo mondo migliore per tutt* e che non esista più nessuna Sarah. Anche per questo, lavorare per tirare Zaki, lo studente dell'università di Bologna attualmente imprigionato nelle carceri egiziane, sarebbe un inizio.
Come sa chi mi segue da tempo, per molti anni ho scritto la rubrica di consigli letterari su Lezpop.
Da qualche tempo il sito è irraggiungibile (il motivo non lo so neanche io, quindi non chiedetemi) e mi spiaceva che i tanti consigli dati in questi anni fossero andati perduti.
Siccome il mio era un contributo esterno (e su base volontaria), dopo aver contattato la admin, ho deciso di ripubblicare i miei articoli (una volta tanto la mia tendenza da anziana precoce a scrivere tutto prima in word è servita a qualcosa).
Il mese del pride mi sembra un buon mese per iniziare e sì, in realtà anche io come voi spero che Lezpop torni in auge o nasca qualcosa di simile o, perché no, di completamente nuovo. E' stato qualcosa di cui in tantissime sentivamo davvero il bisogno.
Il post col quale voglio iniziare è uno di quelli che mi sono divertita di più a scrivere: le lesbiche presenti nei gialli all'italiana.
Nel 2015, più o meno in corrispondenza di halloween, sviluppai un amore tardivo, che tuttora mi accompagna, per il genere: per anni lo avevo evitato, convinta che avrei avuto troppa paura (!).
La scena del sogno erotico di "Una lucertola con la pelle di donna" è FANTASTICA
Dopo una dozzina di pellicole mi resi conto che avevo visto apparire una quantità assurda di personaggi lgbt, una cosa, considerando la stitichezza al riguardo del nostro cinema (che di solito le lesbiche le faceva solo intuire e i gay erano sostanzialmente gente disperata pronta a commettere qualche insano gesto), davvero peculiare.
Cercai qualche info su internet, ma stranamente non c'era nulla se non trafiletti qui e lì, così, come mi è capitato di fare spesso, se una cosa non la trovo me la faccio da sola (con tutti i miei limiti cinefili eh).
Eccovi il mio vecchio articolo, un po' modificato, riproposto.
Ne vorrei parlare anche in una diretta sul mio profilo instagram, finalmente dopo anni la piattaforma ha capito che c'era gente (tipo me) che non si era mai adoperata con igtv per pigrizia e ora permette di salvarle in automatico (quindi anche se ve la perdete la trovate nel mio feed: profilo sempre @idoloridellagiovanelibraia).
Buona lettura!
Chiunque sia vagamente
appassionato di gialli all'italiana non avrà potuto fare a meno di
notare l'ingente quantità di personaggi omosessuali presenti nelle
assurde e sanguinolente pellicole che venivano sfornate con
imbarazzante facilità e velocità negli anni '60 e '70.
Negli stessi anni c'era anche un filone del fumetto italiano altrettanto weird e pieno di personaggi L e B (in trame purtroppo assai meno creative e più sull'erotico e basta).
Tra l'altro, per una
volta nella storia, al netto delle apparizioni, le lesbiche battono
in modo schiacciante gli omosessuali maschi (spesso e volentieri
confusi con donne transgender).
Perché?
Presto detto: i gialli
all'italiana, per il loro carattere violento, sanguinario e spesso
con interpolazioni fantastiche, si inserivano in un contesto
STRAordinario e perturbante, in cui i coprimari non potevano essere
che persone fuori dalla norma e in grado di suscitare un forte
turbamento negli spettatori.
Le lesbiche erano in
questo caso perfette.
Non solo appartenevano ad una sfera misteriosa
e percepita come deviante, ma avevano un grandissimo pregio:
contenevano, per l'amplissimo pubblico di maschi etero, una forte
componente erotica.
Non vi aspettate che le
lesbiche dei gialli all'italiana siano delle butch o delle
scaricatrici di porto, esse sono quasi sempre avvenenti, disinibite e
molto vogliose. Nonostante gli stereotipi, ciò non ha impedito che
in qualche caso il personaggio lesbico avesse una sua profondità e
riuscisse a sopravvivere persino fino alla fine della pellicola.
I criteri con cui ho
stilato questa lista sono i seguenti:
Una grandissima
parte dei gialli all'italiana ha una scena (adesso risibile) di
sesso lesbico, che però di solito serve solo ad alzare il tono
erotico della pellicola. Ho evitato i film in cui questo non ha
attinenza con la trama, ma è solo strumentale.
Alcuni film, come
l'assurdo “Top sensation”, erano praticamente soft porno con una
vaga trama. Ho evitato pure quelli.
Se volete capire
quali film vale la pena vedere, puntate su quelli con Florinda
Bolkan, attrice bellissima e molto in voga all'epoca, apertamente
bisessuale, che ebbe una lunga e non velata relazione con la potente
produttrice Marina Cicogna.
Detto ciò, buona
visione!
GATTI ROSSI IN UN
LABIRINTO DI VETRO – Regista Bruno Lenzi (1975):
Una comitiva di
americani in vacanza a Barcellona e si ritrova coinvolta nei piani di
un maniaco omicida che uccide le sue vittime per strappar poi loro
l'occhio sinistro. Gli statunitensi, tra i quali spicca una coppia
lesbica (con qualche problema di violenza domestica che però credo venga fatto passare per passione), Naiba, modella e la sua compagna Lisa, fotografa, si ritrova
suo malgrado coinvolta, quando una loro compagna di viaggio diviene
una vittima del pazzo.
Lo spettro dello
psicodramma coniugale è nell'aria: c'è infatti una relazione
adulterina tra due partecipanti, Mark e Paulette e si pensa che
l'omicida sia nientemeno che la moglie di Mark, donna disturbata che
lo ha inseguito fino in aeroporto prima della partenza.
Sarà vero? Lo scoprirà la nostra consorella Naiba grazie ad alcune
fotografie. Si salverà in extremis, ma si salverà.
Giallo in cui la lesbica (un'attrice addirittura di colore, avanguardia pura) non solo non è l'assassino e non muore, ma investiga persino,
UNA LUCERTOLA CON LA
PELLE DI DONNA - Regista Lucio Fulci (1971):
Capolavorissimo del genere, con invenzioni oniriche davvero notevoli, assolutamente da avere e da vedere.
Il giallo, abbastanza complicato, trasuda anni '70 da ogni poro.
Al centro della vicenda c'è il delitto di Julia Durer, donna disinibita e
bellissima interpretata dalla bionda Anita Strindberg.
La sua vicina di casa, l'avvenente Carol aka Florinda Bolkan, disprezza il di lei stile di vita ritenendola libertina e riprovevole visti i numerosi festini a base di sesso che la dirimpettaia organizza legittimamente in casa sua.
Che i vicini abbiano qualche ossessione gli uni sugli altri è, come si dice, carta conosciuta.
Ma lo è altrettanto il fatto che ogni ossessione nasconde una motivazione:in questo caso la bella Carol disprezza tanto, ma poi fa sogni ad alto contenuto erotico sulla vicina.
Non immaginate scene becere e tirate via, la volontà di riprodurre l'assurdità e anche l'inquietudine angosciosa di un sogno al confine con l'incubo c'è tutta. "Cenerentola" dopotutto aveva ragione: i sogni son desideri, di felicità.
Il giallo è ordito bene nonostante alcuni cliché (la solita gente che muore perché si dà appuntamento nei posti più isolati possibili e cade vittima di qualche tranello) e con un certo spirito del tempo assai gustoso (gli hippie che forse hanno assistito al delitto, ma non se lo ricordano perché erano strafatti).
Il film è passato se non alla storia, almeno alla cronaca, per la scena dei volpini vivisezionati.
Il celebre Carlo Rambaldi, creatore di ET, fece dei volpini talmente verosiminili che il regista, Fulci, fu trascinato in tribunale dove fu costretto a provare che sì, erano proprio pupazzi.
UNA SULL'ALTRA - Regista
Lucio Fulci (1969):
George è un medico con
una moglie malata e in clinica, Susan, con cui non ha più grandi
rapporti e un'amante fotografa un po' androgina, Jean. Ad un certo
punto la moglie muore e lo lascia erede di una ricchissima somma.
Quando si scopre che la donna è stata avvelenata, George diventa il
sospettato numero uno e per aggiungere caos al caos, ecco venire allo
scoperto una spogliarellista misteriosamente identica alla moglie
defunta.
Chi è la donna? Perché George ha meritato quell'eredità?
George scamperà alla sedia elettrica?
Anche il piano migliore
può essere rovinato dal caso.
Film censuratissimo per
una scena di seduzione lesbica tra la spogliarellista misteriosa e
Jean, merita per le protagoniste, seppur evidentemente ingessate, la bellissima, e provvista di un delizioso taglio corto, Elsa Martinelli (che appare anche in uno stranissimo film di fantascienza con Marcello Mastroianni, "La decima vittima", recuperatelo) e Marisa Mell.
TENEBRE – Regista Dario
Argento (1982):
Thriller di Dario
Argento, che da sempre aveva infilato personaggi omosessuali nei suoi
film (generalmente maschi, salvo un accenno ad un'antiquaria lesbica
ne “L'uccello dalle piume di cristallo”), la storia vede come
protagonista lo scrittore di gialli splatter Peter Neil.
Costui, giunto a Roma, deve vedersela con un maniaco che lo perseguita, uccidendo una
persona dietro l'altra, in modo pedissequo a quello descritto nei
suoi libri.
Dopo aver assassinato una cleptomane e una scream queen,
il nostro omicida (o forse non lui) si avventa su una coppia lesbica in crisi.
Le due
vivono insieme, ma la loro vita comune è tormentata dai continui
tradimenti della bisex della coppia. Finiranno uccise in casa, una in
modo particolarmente cretino.
Il film è famoso per la partecipazione
di una giovanissima Veronica Lario, fu signora Berlusconi (che qui
non è lesbica, ma lo è stata in un film della Wertmuller).
AMORE E MORTE NEL
GIARDINO DEGLI DEI – Regista Sauro Scavolini (1972):
Un ornitologo affitta una
villa in campagna per fare meglio bird watching (gli uccelli sono assai amati dai registi horror).
Qui rinviene alcuni
nastri contenenti la storia torbida e inquietante di due fratelli,
Manfredi e Azzurra, legati da un rapporto incestuoso. I due, avevano
cercato di separarsi unendosi ad altre persone.
Per prima aveva
iniziato Azzurra fidanzandosi con un musicista, e poi Manfredi, nel
tentativo di ingelosirla aveva intrecciato una relazione con tale
Viola.
Finirà assai male: Viola e Azzurra inizieranno una storia e
un assassino si occuperà di farli tutti fuori. Talmente tutti che
anche il povero ornitologo si scoprirà in pericolo per procura.
IL TUO VIZIO E' UNA
STANZA CHIUSA E SOLO IO NE HO LA CHIAVE – Regista Sergio Martino
(1972):
Film davvero brutto la
cui visione vale solo per una Edwige Fenech con un taglio alla
maschietta, è liberissimamente tratto dal povero racconto di Edgar
Allan Poe “Il gatto nero”, che non avrebbe meritato di essere
coinvolto.
Oliver è uno scrittore
fallito e manesco che probabilmente aveva un rapporto incestuoso con
sua madre, sempre rimpianta, e ne venera un feroce gatto nero a lei
appartenuto.
Sua moglie subisce le angherie del marito e del gatto e
medita vendetta, senza mai metterla in atto.
Poi un giorno, subito
dopo la morte della cameriera, arriva la nipotina di lui, Floriana aka Edwige
Fenech, reduce, minigonna e capello corto, da sei mesi in una comune
a Parigi.
L'avvenente nipote seduce moglie e marito senza problemi.
Finirà male.
Anche qui gli eco anni '70 riecheggiano in una strana scena di sesso libero che adesso qualsiasi regista avrebbe timore a infilare in un film (da quel punto di vista, ebbene sì, siamo diventati esponenzialmente puritani).
UNA RAGAZZA PIUTTOSTO
COMPLICATA – Regista Damiano Damiani (1968):
Assurdo noir con al
centro un triangolo che alla fine diventa sanguinoso quadrato.
Un
uomo ascolta casualmente una telefonata assai torbida e sexy tra due
donne, Claudia e Greta, e, come ogni maschio etero degli anni '60 che
si rispetti, pensa di rintracciarle scopo conversione.
Ce la fa e
inizia una relazione con Claudia, l'anello bisessuale della lesbica
coppia, la quale le riferisce di essere fidanzata con tale Pietro e, in più, amante della seconda moglie di suo padre, la succitata Greta. Finirà
ovviamente in tragedia.
Il film, per incredibile
che possa essere, ha come protagoniste Florinda Bolkan (la malvagia
Greta) e Catherine Spaak nei panni della bisex manipolatrice.
Tratto
da un racconto di Alberto Moravia (che purtroppo non sono mai riuscita a trovare), “La marcia indietro”.
LA MORTE HA SORRISO
ALL'ASSASSINO – Regista Aristide Massaccesi (1973):
Più che giallo
all'italiana, meriterebbe un posto nell'horror e usa la classica
tecnica della
protagonista che seduce una coppia.
All'inizio del
'900, una ragazza, Greta, si ribalta con la sua carrozza davanti ad
una villa (sì, vaghissimo riferimento a “Carmilla”) e viene
curata dai coniugi che la abitano, Walter ed Eva e da un medico, il
dottor Sturges.
Nonostante la quiete del luogo venga turbata da un
paio di omicidi, Greta seduce sia Walter che Eva, non sapendo che
avrebbe scatenato un dramma lesbico in piena regola. Eva, infatti,
scoperto che Greta non disdegna la compagnia di suo marito, decide di
murare viva la sventurata.
Da lì è un crescendo horror, di omicidi
composti da cadaveri in decomposizione e misteriosi amuleti incas in
grado di riportare in vita i morti. Finirà in una simbiosi lesbica
da oltretomba.
L'ASSASSINO HA RISERVATO
NOVE POLTRONE – Regista Giuseppe Bennati (1974):
Un riccone stravagante
possiede un teatro che tiene sempre chiuso.
Una sera invita nove
amici a fare un giretto per mostrarglielo, tutto bello, se non fosse
che i dieci si ritrovano sprangati dentro il teatro, dove, si scopre,
anni prima, era stata uccisa un'intera famiglia.
Ovviamente iniziano
a perire uno ad uno, sotto i colpi del classico misterioso assassino dalle
mani guantate: è qualcuno di loro oppure c'è qualcosa di
sovrannaturale che aleggia in quei luoghi?
Tra i nove amici
dell'allegra brigata c'è un'avvenente coppia lesbica: Eva Czemeris,
nei panni di Rebecca, e Lucrezia Love, in quelli di Dorys.
Finiranno
peggio di tutti e avranno persino l'onore di apparire nella locandina
del film, truculentissima ed evidente rivisitazione di un “Dieci
piccoli indiani” in cui chiunque abbia deviato dalla morale comune
fa una fine tristerrima.
Ovviamente questa è una goccia nel mare. Ma chissà che non faccia una seconda parte adesso!
La favolosa scena di "Una lucertola con la pelle di donna"