venerdì 20 dicembre 2019

Regali avanti e regali indietro! Una vignetta carica di regali.

Quest'anno, per la prima volta dopo eoni, riesco a scendere per Natale a casa mia.
 Io credevo, ingenuamente, che, non lavorando più in libreria, avrei evitato le decinaia di ordini regalo dei miei parenti, ma erravo e ora ho un gioco di legno di almeno tre chili nello zaino.
 Una vignetta riassumerà il tutto!
"Regali a distanza"

giovedì 19 dicembre 2019

Il calendario dell'avvento 2019 parte II! Tagliabiscotti, biografie, graphic novel, consigli lgbt, giochi e molto altro!

Ed ecco a voi la seconda infornata del calendario dell'avvento che sto incredibilmente riuscendo seguire pur tra difficili difficoltà!

Ormai natale è prossimo, dicembre è volato (volasse mai così luglio che mi sembra sempre eterno) e le mie prime vacanze natalizie dopo dieci anni sono alle porte. 

 Vorrei potervi dire qualcos'altro di sensato, ma cado dal sonno, quindi bando alle ciance e benvenuti suggerimenti!



Giochi da tavolo:

C’è un grande revival dei giochi da tavolo che riempirono le nostre giornate in un’epoca preinternet. 

 Tutti ne abbiamo posseduti, il mio favorito, assieme al gioco dell’oca di Sailor Moon, era “L’erede misterioso”, in cui alcuni familiari cercavano di uccidersi in modo creativo per giungere all’agognata eredità.

Se vi prenderete la briga di googlare un attimo o andare in qualche giocheria (o avrete il coraggio di affrontare il padiglione games delle fiere), scoprirete un mondo ricchissimo, con giochi gustosi per tutti i gusti. Io dopo anni mi sono lanciata e ho comprato “Lobbies” il gioco di carte del Cassero, ma devo dire che è troppo pro per me.
 Ecco, valutate cosa comprare anche in base al grado di esperienza del lettore in questione, potrete sbizzarrirvi!

The Artist di Anna Haifisch ed. Eris:

E’ sempre un po’ difficile scegliere dei libri di poesia da regalare agli appassionati, soprattutto se il regalante non legge poesie.

Ma quest’anno ho la soluzione: “The Artist”.

Voi mi direte: ma è una graphic novel. Io vi rispondo: Sì, anche.

Ma è principalmente un libro di poesia. Le avventure di questo uomo uccello che vorrebbe disperatamente diventare un artista e cerca di piegare la sua arte al mercato spietato e sempre alla ricerca di nuove estreme frontiere, colpiscono al cuore.

 E’ scritto benissimo, ogni piccolo capitolo (sono capitoli non connessi tra loro, di poche pagine), sembra una poesia illustrata, e spezza il cuore. Perché il mondo è troppo duro per chi è un timido e malinconico uomo uccello.

Io lo regalerò ad una mia amica curatrice per farla sentire una cattiva persona. Poi vedete voi.


Libri per bambini:

 Come ben sapete, ho troppo rispetto per i libri per bambini e per chi ne capisce per consigliarli dal basso della mia ignoranza, ma una tripletta, se non altro per chi si trova nelle mie stesse condizioni, volevo suggerirla.

 Ecco quindi “L’assistente del re” ed. Corraini, un librottino della serie del re della torta di carote di Yoshiko Noda (in arte Yocci) assolutamente folle. Avete presente quelle storie fantasiose che creano i bambini e che a noi stolti adulti sembrano assolutamente prive di un senso logico? Eccovele servite. Fanno morire dal ridere nella loro totale WTF.

“Penny dice no” di Alessandro Ferrari e Laura Re ed. De Agostini ha invece per protagonista una bambina che all’inizio ci sembra molto capricciosa.

 Nonostante abbia tutto per essere felice (mille giochi leziosi, lezioni di ballo, vestitini fancy) è sempre arrabbiata e dice sempre no. Certo che questi bambini sono proprio viziati, eh!
 E se invece…
Penny dicesse no perché le fanno orrore i giochi leziosi, i vestiti fancy e le lezioni di ballo? 
Non sta scritto da nessuna parte che alle femmine debbano piacere brillantini e balletti, ma ci comportiamo come se fosse naturale (io ne so qualcosa, quante cose ho odiato da bambina! Soprattutto i vestiti scomodi e frufru).
 Forse cercare di capire cosa potrebbe piacere al pargolo non sarebbe così male. 
Una storia da far leggere a tanti genitori, non solo ai bambini.

“Sogni d’oro”, ed. Kite è invece un libro della bravissima Satoe Tone, autrice giapponese che ha trovato fortuna in Italia. Questa volta gli animali protagonisti della sua storia, dolcissima e tenera, sono le pecorelle che ci aiutano a dormire. Come fanno a conciliare i nostri sogni? Zucchero, melassa e splendide illustrazioni.

Il Tagliabiscotti:

Ecco a voi uno degli oggetti da cui è nata la primigenia idea del calendario! 

Il tagliabiscotti a forma di libro.

Si trova su internet nei siti specializzati alla modica e ammortabilizzatissima cifra di 3,20 (si trova anche nei negozi fisici che vendono materiale di cake design o simili, sui 3,50, io l’ho trovato facilmente, ma capisco che è una cosa cittadina).

  Vengono biscotti librotti favolosi, come potete ammirare nella mia foto e, almeno io, ci ho fatto i biscotti per todo l’ufficio!

Libri lgbt:

Quest’anno il tempo tyranno probabilmente mi farà saltare i consigli su LezPop, ma oltre a “Fammi male”, presente nel precedente elenco, ecco a voi una tripletta lgbt scelta assieme a Mauro, il bravissimo libraio, della libreria Antigone di Milano.
Di “Trottole” ed Mondadori della giovanissima Tillie Walden avevo già parlato in un post.
La faccio quindi molto breve: a 22 anni questa ragazza ha scritto e disegnato un fumetto bellissimo sulla sua adolescenza, con una lucidità che è incredibile possedere quando tutto è appena passato.

 Per sua ammissione nasce come un fumetto in cui parlare dei suoi anni nel pattinaggio sul ghiaccio, nel quale era una campioncina, e finisce per parlare di molto altro: la difficoltà di abbandonare una grande passione quando ha smesso di essere tale ed è solo un peso, e il peso del mondo su un’adolescente che è alla ricerca di sé stessa. Davvero COMPRATELO.

“Ultima fermata a Brooklyn” di Hubert Selby ed. Sur fa invece parte di quel genere di classici lgbt che ogni buon lettore dovrebbe leggere: racconti sulla ferocia della strada, sulla cattiveria del mondo che ti costringe ai margini, ma per questo vince. Per lettori forti, in tutti i sensi.

“Il corpo del testo” di Laura Fontanelli è invece un interessantissimo saggio di traduzione che mancava. Chi traduce ha una responsabilità personale nei confronti dello scrittore, ma soprattutto del lettore, Fontalli pone l'attenzione sulla traduzione come mezzo di sovversione del potere.
Per appassionat* di gender studies e di traduzione.

Piazza Fontana:

Il 12 Dicembre del 1969 a Milano una strage di matrice neofascista (anche se dopo 50 anni stiamo ancora cercando i colpevoli tra un depistaggio e un altro), squarciava l’Italia e dava il via agli anni di piombo.

Quattordici persone morivano alla banca dell’Agricoltura, proprio dietro il Duomo, 88 i feriti. Pochi giorni dopo un anarchico, Pinelli, arrestato, veniva suicidato giù dalla questura. Il commissario presente, Calabresi, venne assassinato quale vendetta pochi anni dopo.

La mancanza dei veri colpevoli ha reso questa scia di sangue ancora più torbida, ancora più inaccettabile, e ha contribuito a scavare un solco tra le due italie che dalla seconda guerra mondiale in poi non sono mai riuscite a parlarsi.
In occasione del cinquantesimo anniversario sono uscite decine di libri sulla questione, ma quello che mi sento di consigliare è “La strage degli innocenti” ed. Feltrinelli. 

Dianese e Bettin già venti anni fa scrissero un libro sul tema, la loro pista privilegiata non era concentrarsi su quello che accadde a Milano quel giorno e dopo. Loro in quel e in questo libro hanno seguito le radici del male, lì dove affondano: nel nord est fascista del paese.

Si seguono persone, si indaga sul passato di personaggi rispettabilissimi e fascistissimi, si notano collegamenti evidenti eppure mai indagati, sembra un thriller, ma è la cupissima realtà di una parte del paese storicamente in mano alla destra estrema.

Da regalare a chiunque, non solo agli appassionati di storia, perché fa paura e fa capire cosa abbiamo rischiato e cosa ancora rischiamo.

Doppietta SEM:

Alcune caselle del calendario dell’avvento ho deciso di riempirle con alcuni editori per rendere la cosa più omogenea. E’ stato anche il turno di Sem, con "Quando un uomo cade dal cielo" di Lesley Nneka Arimah e "L'ora del destino" di Victoria Shorr.

Lesley Nneka Arimah fa parte dell’ondata di scrittrici africane tradotte dopo l’esplosione di Chimamanda Ngozi Adichie, bravissima-issima-issima autrice nigeriana che ha aperto le porte ad un mondo colpevolmente ignorato e che conosciamo solo tramite orridi pregiudizi.

“L’ora del destino” è invece un regalo interessante per gli amanti delle biografie. Racconta “L’ora del destino”, appunto, di tre grandi donne del passato: Jane Austen, Giovanna D’Arco e Mary Shelley. Tra l’assai documentato e un tono qui e lì romanzesco, appassionerà chi ama la critica letteraria,

L’opera di bene:

Tra le cose immateriali che ogni amante dei libri può apprezzare, non dimenticate l’opera di bene.

 Ci sono millanta cause per le quali lottare e ci sono diversi modi per fare del bene con un dono per Natale.
C’è il crowdfunding per salvare Lucha y Siesta, ci sono i panettoni invisibili (perché quelli visibili se li sono rubati alcuni ladri notturni) per finanziare Pizzaut, un progetto di lavoro inclusivo per persone autistiche.

Ci sono le più classiche delle donazioni, come l’associazione Piccolo Principe di Siena che raccoglie fondi per comprare il materiale per le attività del centro per ragazzi autistici della zona, oppure si può regalare la tessera di un’associazione a cui sappiamo PER CERTO che il lettore in questione si iscriverebbe (magari le famiglie arcobaleno che in questi tempi oscuri vivono nella tempesta e oltre ai fondi hanno bisogno di tanta solidarietà, ma ce ne sono centinaia e centinaia).

lunedì 16 dicembre 2019

"Pacchi, pacchetti e pacche tante!", la prima vignetta della serie: Questa unione civile non è un albergo!

Natale è ormai vicinissimo, un po' mi piace (w le vacanze per la prima volta dopo anni!), un po' mi spiace (il periodo delle feste rende in effetti più allegro e sopportabile il mondo).

 Questo fine settimana io e Dolcemetà abbiamo fatto taaaaaanti pacchetti ed è stata dura.
 Una vignetta estemporanea toda per voi che inaugura il ciclo: Questa unione civile non è un albergo! Slice of life da casa mia: "Pacchi, pacchetti e pacche tante"!




martedì 10 dicembre 2019

Primo recap del calendario dell'avvento 2019! Racconti classici di Natale, Inni alle Stelle, fantascienza abruzzese, taccuini e molto altro.

Ed ecco, con qualche giorno di ritardo, il primo post di recap del calendario dell’avvento.


Ho cercato di contenermi nelle descrizioni altrimenti diventava un lenzuolo, ma spero di avervi lanciato i giusti input per comprendere chi potrebbero essere i fortunati destinatari dei vostri pensieri e dei vostri doni.

Bando alle ciance che siamo già al 10  dicembre e qua il tempo corre!

Buona lettura a voi!


INNI ALLE STELLE di Giopota ed. Bao Publishing: 

 Ci sono alcuni autori strombazzatissimi e sponsorizzatissimi. Le grandi promesse che poi all'80% si afflosciano. 

 In parte immagino sia fisiologico (chi promette non sempre alla fine mantiene, può già aver precocemente dato il meglio di sé), in parte ci sia una certa ansia di creare il caso attorno agli esordi.

 Molto meglio forse è essere un autore che parte in sordina, senza tante cerimonie e poi inizia a crescere regolarmente e con una certa meraviglia.
 E’ quello che è successo a Giopota, fumettista siciliano, autore di alcune (pregevoli) autoproduzioni e di un bel libro scritto con Luca Vanzella “Un anno senza te”, in cui raccontava che “significa un ano de amor”.

In questa sua prima opera in solitaria, “Inni alle stelle”, dimostra di possedere un insolito e stupefacente mondo dentro di sé.

 Inni è un giovane che vive in una sorta di medioevo fantastico, in una Spagna sotto l'attacco dei saraceni che cercano di espandere Al-Andalus. 

 Prima di sposarsi vuole partire per vedere il mondo e scoprire se anche dentro di sé  esiste un altrettanto meraviglioso universo. 
 Si imbarca in questo cammino, che ricalca con alcuni accenni (l’incitazione Ultreia!, la conchiglia, il continuo riferimento a un santo) il cammino di Santiago. 

 Si dice che al termine ci sia la tomba del santo, ricca di tesori. Inni parte, al contrario della maggior parte dei viaggiatori, per trovare sé stesso e non la tomba dei tesori. 

 Sul suo cammino l’attendono amici, un quasi amore, strani personaggi umanoidi che si trasformano in uccelli, lotte con djinn comandati dai maghi saraceni, condottieti iberici biondissimi e perfidi, plichi magici e molto altro.

 E’ un viaggio misterico carico di simbolismi che ricorda molto alcune delle opere più ermetiche di Pratt con un tratto che rimanda a Miyazaki. 

 Il livello ovviamente non è quello, ma è di certo una piacevole e meravigliosa sorpresa scoprire che un autore sta di nuovo provando a varcare con una certa consapevolezza, le porte dell’ignoto.
 Un libro che piacerà moltissimo agli amanti del cammino di Santiago, ma in generale potrebbe essere una bella scoperta per i grandi amanti di fumetti che magari storcono il naso davanti a tratti considerati troppo manga (il principe è un chiarissimo riferimento, al limite dell’identicità grafica, de “Il castello errante di Howl”). 
 Straconsigliato con sorpresa e grande piacere!


ALICE DI SOGNO IN SOGNO di Giulio Macaione e Giulia Adragna ed. Bao Publishing:

Le opere di Macaione in passato non mi fanno impazzire. Il tratto è troppo classico e non ha sempre avuto sceneggiatori all’altezza o idee proprio rivoluzionarie. Sono quindi davvero sorpresissima da questa sua enorme e improvvisa evoluzione grafica. 
Forse il fatto che i protagonisti fossero adolescenti, che la storia abbia un tono più fantastico unito a un uso dei colori superiore, ha contribuito a questo passo in avanti davvero incredibile.

 “Alice di sogno in sogno” ha una trama abbastanza classica e non proprio imprevedibile. 

 Ricorda, per molti versi le “Witch”, probabilmente la miglior serie a fumetti per adolescenti prodotta in Italia: in un America da telefilm, in un liceo da telefilm, una ragazzina, Alice, viene malamente bullizzata dalle sue compagne. I genitori minimizzano, la scuola serve quasi a niente, l’unico ad aiutarla è il suo migliore amico che però deve incomprensibilmente sfidare i suoi genitori pur di frequentarla.

 Un segreto nel passato e la capacità di Alice di vagare di sogno in sogno coronano il tutto. 

 La storia, aldilà dei protagonisti adolescenti ha delle ingenuità di sceneggiatura che la targettizzano per un pubblico adolescente MA questo a mio parere non è assolutamente un malus
. Perché non dare agli adolescenti quello che vogliono? Belle storie, ben disegnate, che non hanno per forza intenti pedagogici ansiogeni?

 Il regalo perfetto per la nipotina o il nipotino dagli 11 ai 14 anni a cui non si sa mai cosa regalare se non l’ennesima stupidaggine di Accesorize.


IL TACCUINO DEL LETTORE COMPULSIVO di Carlotta Fiore ed. Gribaudo:

 Persone più pazienti di me, lettori meticolosi e meno irruenti, apprezzeranno sicuramente un’idea come il taccuino del lettore.

 Un piccolo carnet dove annotare impressioni di lettura, citazioni, ricordi. Qui e lì, l’autrice, Carlotta Fiore, lascia qualche idea di lettura o scrittura da seguire.

 Allegate una delle millemila penne o matite gorgeous che si trovano in giro et voilà.


IL LIBRO FUORI CATALOGO:

Il mondo dei libri fuori catalogo è talmente sterminato che anche l’idea di regalare un libro usato può non essere tanto pellegrina.
 Certo, ci sono schifezze editoriali che è bene non vedere mai più, ma tanti fuori catalogo oggettivamente inspiegabili, tante perle del passato mai più ristampate (basti pensare al momento bulimico della fantascienza anni ’60-’70 mai più replicato), ma anche vecchie edizioni che potrebbero sollazzare un collezionista o un lettore particolarmente dedito a uno scrittore o a un genere specifico.

 Molti pescano su ebay, io consiglio maremagnum.it che onestamente e personalmente mi dà un filino di fiducia in più (gusti personalissimi sottolineo).


RACCONTI CLASSICI NATALIZI ITALIANI ed. Graphe edizioni e CentoAutori edizioni:

 Ci sono quei tanti regalucci, regaletti e regalini da fare a Natale che si dissolvono poi in cianfrusaglie inguardabili. 
 Per un prezzo civile potete risolvere la situazione regalando dei racconti di Natale classici. 
 C’è chi dice che il natale come lo conosciamo noi lo abbia inventato Charles Dickens, ma leggendo i racconti proposti da Graphe edizioni (5 o 6 euro cadalibretto) o dalla CentoAutori (8 euro cadalibretto) si nota che una certa atmosfera natalizia esisteva anche senza il buon Charles. 

 Racconti non per forza di buoni sentimenti (quello di Boito è ai limiti dell’horror d’antan) restituiscono l’atmosfera di un’Italia d’epoca, come una cartolina dal passato illuminata tassativamente da candelabri o lampade a petrolio.


FAMMI MALE di Francesca Bertuzzi ed. Mondadori:

Stranissimo libro di fantascienza ambientato incomprensibilmente in Abruzzo, l’ho consigliato perché obiettivamente rimane una chicca per gli appassionati del genere ed è adatto anche come regalo LGBT.

 Per il resto rimane uno strano esperimento in cui gente che vive in Abruzzo (che quindi io immagino parlare con accento abruzzese) si atteggia come se ci trovassimo in un sobborgo di Chicago, accadono cose oggettivamente incomprensibili, la gente muore di morte violenta random e la polizia non indaga mai, il tutto mentre malvagie case farmaceutiche conducono esperimenti fuori dal mondo in un paese oggettivamente inquietante: la Svizzera. 
L’autrice, per motivi che onestamente non ravviso, è una protetta di Lansdale. Lascio qui.


QUESTA NON E’ LA MIA FACCIA di Neil Gaiman ed. Mondadori: 
Cicciuta raccolta di saggi del sommo Neil Gaiman sull’arte della lettura, della scrittura e della costruzione della propria anima.


Regalissimo per chi ama lui, la critica letteraria o ambisce a diventare un grande scrittore (che sognare, ce lo insegna anche Neil, non lo ha ancora vietato nessuno).

Intanto i consigli continuano giornalmente su fb e instagram! Sto riuscendo a tenere il ritmo! I miracoli della disciplina!

domenica 8 dicembre 2019

A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca. Le sardine, la piazza senza impegno e il nesso perduto tra persone, partiti e governi.

 Una domanda si aggira per l'Italia: cosa pensi delle sardine?

 Un tempo mi facevo prendere dall'entusiasmo. 
 Non dipendeva tanto dal fatto che fossi più giovane e credessi nella potenza della piazza, a quello, in un certo senso ci credo ancora. La piazza se ha un obiettivo chiaro è un'arma formidabile, basti pensare alla potenza che ebbe durante l'approvazione delle unioni civili.

 La mia fiducia universale nelle piazze è praticamente collassata quando ho perso gran parte della mia fiducia nei miei amati concittadini.

 A cosa serve la piazza? Epica domanda filosofica a cui non oso dare una risposta e della quale non esiste una risposta univoca.

 Di certo dà voce a chi non ne ha o pensa di non averla. 
 Serve da pressione ai governi, è stata spesso interpretata (male) come vox populi vox dei, serve a comunicare un malessere, a supportare qualcuno, a dare contro a qualcuno, a chiedere verità, diritti, a togliere verità e diritti. Di certo io non ho mai pensato che la piazza in sé fosse per forza buona perché per forza buono non lo è l'essere umano da solo figurati quando si trova in gruppo.

 Ma focalizziamoci sulla piazza sardina. 

 Un tempo la piazza sardina mi avrebbe entusiasmato senza se e senza ma, esattamente come all'università mi gettai, (è il caso di dirlo) a pesce, nell'Onda.

 Ve la ricordate l'Onda?

 L'ultimo movimento universitario di un certo livello e una certa partecipazione che infiammò l'autunno del 2008 prima di infrangersi contro le vacanze di natale e la sessione invernale.

Passai praticamente due/tre mesi sotto la pioggia romana (quanto piovve quell'autunno ancora me lo ricordo, a secchi) a camminare per chilometri e chilometri e chilometri. Si protestava contro la riforma Gelmini, ma in verità si protestava in modo generalizzato contro il sistema, principalmente lavorativo che già percepivamo ci avrebbe fagocitati senza tanti complimenti.

 Si era agli albori della crisi e forse adesso non sarebbe morta con le vacanze di Natale, chi può dirlo.
 Facebook era ancora nella prima fase di espansione, non c'era whatsapp, i fasci già facevano la cinghiamattanza sui liceali accompagnati dai prof in Piazza Navona, ma era un altro mondo comunicativo sicuramente.
 Eppure, ripensandoci, ci si riusciva a organizzare in massa anche senza fare gli eventi su fb, misteri della preistoria.

 Aldilà dello specifico casus belli della riforma e dei tagli, di certo, alla base c'era qualcosa di più, qualcosa che lo dico sinceramente, poteva essere sviluppato e invece si è quasi subito afflosciato su sé stesso.
 Credo interessasse manifestare un malessere diffuso e anche un terrore, quello appunto di un futuro fosco fatto di stage, calci nel sedere, call center e tutta la vita davanti solo se sei figlio di qualcuno. Perlomeno io l'avevo vissuta così.

 Col senno del poi fu probabilmente proprio questa mancanza di progettualità, come si dice freddamente, a uccidere un movimento che sembrava compatto, infiammato, infiammabile e privo, ve lo dico sinceramente, di connotazioni populiste.

 Eravamo giovani, eravamo confusi, ma avevamo ragione. Ma eravamo troppo confusi.
 Dopo il diluvio.

 Quando le piazze si sono riempite seriamente di nuovo sono diventate un movimento che, quando ha provato a tradursi il politica, ha passato l'80% del tempo a gridare che però politica non la stava facendo, finendo poi per farla in modo confuso, forsennato, ingenuo e onestamente privo, a mio parere, di un senso logico.

 E' passata negli anni l'idea che al popolo si adattano le idee semplici, pane ar pane, vino ar vino, mentre invece il popolo merita riflessioni complesse in cui essere coinvolto in prima persona.
 E lo dico da popolo, visto che ricca non sono, non sono mai stata, mai lo sarò, il mio nonno materno il diploma l'ha preso sotto le armi dopo essersi arruolato giovanissimo per sfuggire alla misera, l'altro faceva il muratore e aveva sette figli.

 E' passata l'idea che il popolo fosse in un qualche modo "il buon selvaggio" e dopotutto, visto che io non credo la massa esente da colpe, ci si è adagiato.

 Il mondo è un posto complesso e lasciarsi imbonire da chi dice che pensa al posto tuo e sei libero di non pensare, che anzi, pensare è una questione addirittura riprovevole quando esercitata, beh, era abbastanza semplice.

 Ovviamente non penso le sardine si aggirino da quelle parti. Mi sembrano, sin dai loro fondatori, qualcosa di più complesso, ma, incredibilmente, sembrano non tenerci molto a questa complessità. Non vogliono diventare qualcosa di politico, non vogliono dialogare con i partiti.

 Gli fa onore? Mah, non so, in altri tempi avrei detto di sì, ma adesso a me la piazza senza responsabilità, colpe o meriti, ha stufato.

 Diciamoci la verità. Stare in piazza non è sempre così difficile. L'ho fatto tantissime volte anche io. Le uniche volte in cui stare in piazza è stato difficile è stato in momenti in cui quell'esposizione rischiava di creare una reazione ostile.
 Parlo di aver fatto il gay pride a Treviglio con le madri che coprivano gli occhi ai figli al passaggio di una manifestazione talmente poco trasgressiva che quando c'ero arrivata l'avevo scambiata (ve lo giuro) per un assembramento dello SPI.

 Stare in piazza dà forza, è liberatorio, fa sentire meno soli, uniti, fa sentire che stai facendo qualcosa e in genere, nell'immantinente, lo stai facendo: dai sostegno o esprimi il tuo dissenso in modo fisico. Ma poi. Torni a casa, il pomeriggio è finito, l'entusiasmo scema, bene che va i giornali ne parlano, male che va la questura dice che eravate in 5, e amen.
 Sarebbe tutto giusto e normale se la piazza forte fosse complementare a partiti politici altrettanto o più forti, come era un tempo.

Ma adesso ci sono piazze e movimenti fortissimi a fronte di partiti svuotati.

 E' colpa dei partiti, certo, ma non voglio e sottolineo NON VOGLIO cadere nella trappola facilona che deresponsabilizza da tutto. Perché come le piazze sono fatte da persone, anche i partiti sono fatti da persone. E, miei cari, è INCREDIBILMENTE più semplice stare in piazza che in un partito.

Lo è in termini temporali (un pomeriggio ogni morte di papa a fronte di una riunione di circolo a settimana, riunioni per altri 3000000 di motivi, elezioni, volantinaggi, raccolte fondi, volontariato digitale ecc), lo è anche in termini di responsabilità personale: la piazza non governa, la piazza non propone e se propone non applica, non fa, non si sporca le mani.
 Il movimento che si è fatto partito è andato in crash proprio su questo e da questo crash ancora non si è ripreso.

 Poi lo so, c'è una fetta che al solo pensiero di dover fare qualcosa in prima persona ha le convulsioni, ma c'è anche tanta gente che le maniche se le rimbocca, in tanti tantissimi modi, ma la politica dio mio no. E capisco anche questo. Ma quello che non capisco e non ho mai capito e rischio di non capire mai è, al netto della componente anarchica, abbiamo ben chiaro che le cose le fa e e le decide principalmente chi governa?

Perché a me 'sto rapporto di causa-effetto sembra sia andato in crash svariato tempo fa. Immagino, voglio immaginare, nel momento in cui i partiti massa sono andati depauperandosi, un po' per suicidio politico, un po' perché obiettivamente erano mutati i tempi e i modi.

 Proprio perché come diceva Don Milani "A che serve avere le mani pulite se le tieni in tasca" a me la risposta sardina del non impegno sembra condannare il movimento alla stessa fine dell'Onda. Magari, al contrario dell'Onda almeno avrà il duraturo risultato di evitare all'Emilia Romagna una triste fine in mano leghista, ma si è saggi quando si guarda sul lungo periodo e non sul breve.

 Vorrei essere entusiasta, ma non ci riesco. Come si dice, sono bravi ragazzi, ma forse è il momento di crescere per la mia generazione e qualcosa la dobbiamo fare e seriamente. Lamentarsi e sgobbare, sgobbare e lamentarsi, come facciamo da anni, non serve a niente. Bisogna reagire e FARE qualcosa.

Storia di Leda Colombini e della vocazione
 pedagogica che i grandi partiti di massa
 seppero esercitare in quegli anni
nei confronti della base
 Sul virtuoso e interrotto dialogo tra massa e partiti massa che decenni fa salvò molta gente dalla facile trappola del buon selvaggio che delega il pensiero ad altri, voglio citare a margine una storia che ho colpevolmente scoperto da poco: quella di Leda Colombini.
 Bracciante poverissima dell'Emilia Romagna divenne dirigente di partito e dedicò la sua esistenza prima ai diritti dei braccianti, poi dei disabili e infine dei figli delle detenute. E' morta a 82 anni, al termine di una riunione sulla legge a tutela delle madri detenute con figli.
 A 82 anni.
 Voi dite, è semplice ed emotivo portare questi esempi, ma io dico: dovremmo sentirci persone microscopiche quando li leggiamo, perché ci dimostrano che gli unici responsabili del modo in cui vanno le cose siamo noi. Ma non ci pensiamo, ma ci perdoniamo e lasciamo che tutto proceda ineluttabilmente. 
Perciò per me brave sardine, bene le sardine, benedette sardine, ma non basta. E' ora di fare politica sul serio e anche di rivendicarlo.

Ps. Sottolineo a beneficio di chi non legge tutto lo spiegone che ovviamente non credo la politica si faccia solo nei partiti, ma che non possiamo prescindere dal fatto che è al governo che si decidono le politiche di un paese e questa faccenda da anni sembriamo non avercela presente.

sabato 23 novembre 2019

Piccole recensioni tra amici! Sedaris, Aciman e Zerocalcare: un ni, un NO e un sì!

 Ridendo e scherzando siamo arrivati alla fine di novembre.


  Vuol dire che tempo tre secondi sarà natale e io starò rincorrendo i post per i consigli da darvi fino al 24 notte.


 Smaltisco perciò con questo post un po' di letture di questo ultimo mese che è stato meno proficuo del solito (si va a mesi ahimé)!


Piccole recensioni tra amici, una insomma, una negativa e una positiva, tutte per voi!




CALYPSO di David Sedaris ed. Mondadori:

 Se Sedaris fosse nato trenta e non sessanta anni fa, non sarebbe diventato un scrittore, ma un blogger di successo. O meglio, sarebbe probabilmente diventato un blogger di successo e poi uno scrittore.

 Calypso, una serie di raccontini di vita privata più adatti a un blog che a un libro ne sono la dimostrazione.

 Perché dico questo (consigliandovi comunque il libro che è godibilissimo, magari forse meglio in edizione economica)?

  Perché Sedaris ci racconta una serie di episodi legati alla sua famiglia e alla sua vita con la chiara volontà di rimanere in totale superficie, quindi di non donargli alcuno specifico valore di tipo letterario.
 Io amo da impazzire i memoir, mi piace leggere le vite degli altri perché mi illudo sempre che potendo rintracciare il percorso altrui io possa in qualche modo comprendere e correggere il mio.

 Si tratta poi sempre un’illusione totale visto che talvolta le vite prendono pieghe avverse per dolo personale, ma più spesso per disgrazie difficilmente prevenibili.

 Il libro di Sedaris però non va nella direzione del memoir. Ci racconta del padre anziano che, come molti anziani, rifiuta ogni aiuto e vive in una casa stipata di oggetti. Ci racconta della sorella minore morta suicida e della madre morta di malattia intorno ai sessant’anni. Parla della casa al mare che ha comprato perché lui e i suoi quattro fratelli superstiti potessero incontrarsi ogni tanto.

 Tuttavia, nei racconti quotidiani non emerge mai una volontà di andare più a fondo. Stai leggendo un resoconto e non una storia.

 Si evince drammaticamente nella storia della sorella suicida. Un’anima fragile di cui sappiamo solo che sapeva sperperare denaro, aveva un imprecisato problema mentale e non amava avere contatti coi propri fratelli. En passant, come se dopotutto non fosse davvero importante, ci dice che i genitori, dopo una sua fuga da casa al liceo, l’avevano spedita in una sorta di collegio per ragazzi difficili e lei non lo aveva mai perdonato né a loro né ai fratelli.

 Si erano giustificati dicendo che avevano altri cinque figli a cui badare e Sedaris non racconta altro, non commenta, non riflette.

Ci dà questo assioma nudo e crudo. Ovviamente non credo che non ci abbia riflettuto, ma ha deciso di non condividere col lettore i suoi pensieri. Legittimo, ma tutto rimane nell’assoluta superficie, come quando incontri uno che conosci bene, ma non tanto e ti fa un po’ un recap veloce delle sue disgrazie. Cosa ti lascia? Nulla se non la spiacevole sensazione che forse sarebbe stato meglio non incontrarlo.

 Il libro ovviamente è scritto bene, ma manca quel legame di reciproca fiducia che deve esistere tra uno scrittore e un lettore. Nessuno obbliga lo scrittore a raccontare la sua vita personale, ma nel momento in cui decide di farlo non può dare dei raccontini da blogger di successo.
 Altrimenti, appunto, apri un blog.


CERCAMI di André Aciman ed. Guanda:

Vorrei poter fare una recensione di questo libro, ma è talmente pessimo che non ne ha bisogno.

Avevo amato tantissimo il film che mi aveva profondamente commosso e anche il libro, meno bello e delicato del film, con alcune inutili fronde (tipo la bambina malata), ma comunque ben scritto.
  Mi attendevo molto da questo seguito.
Oscuramente credevo sarebbe stata una versione estesa del finale di “Chiamami col tuo nome”, ossia il pezzo in cui i due protagonisti si incontrano adulti e invecchiati dopo tanti anni.
E INVECE NO.

Il libro, diviso in tre parti, ci racconta tre episodi rispettivamente del padre di Elio, Elio e Oliver.

Immotivatamente la storia inizia con questo lunghissimo, insensato, inutile episodio in cui il padre di Elio (personaggio che appare quasi quale comparsa nel primo libro, degno di memoria solo per il discorso fatto al figlio nel finale) incontra una giovane e avvenente fotografa su un treno per Roma e scoppia la passione. Una roba luuuuuuunga, tedioooooosa, inverosiiiiiiimile. Noiosissima.

 Sono comunque sopravvissuta a questa prima parte eroicamente. 
Mi sono detta: “Vabbeh, magari voleva esplorare un personaggio a lui caro e vicino per età”.

Poi però a metà del libro, ergo a metà della storia di Elio, mi sono arresa. Aveva lo stesso schema della prima: incontro casuale, pasto insieme, verbosità inutile a non finire, noia totale.

Non so cosa abbia spinto Aciman a tentare l’impresa.

 Non voglio pensare siano stati solo i soldi. Anche perché insomma, i soldi non per forza ti spingono a scrivere male. E’ una storia piatta, inutile, che gira su sé stessa, un libro che è davvero pesante leggere e che onestamente non sembra neanche il seguito di “Chiamami col tuo nome”. Cioè se invece di chiamare i personaggi padre di Elio, Elio e Oliver, gli avesse dato altri nomi, non sarebbe cambiato assolutamente nulla.

 Non trovo motivo per consigliarvi questo libro che io stessa ho interrotto a metà.
 Serbate il ricordo del primo libro che è meglio.


LA SCUOLA DI PIZZE IN FACCIA di Zerocalcare ed. Bao Publishing:

 Recensire un libro di Zerocalcare lascia il tempo che trova (nel senso che non sarà certto la mia recensione a convincervi se comprarlo o meno), ma ci tengo comunque a scrivere due righe.

 Il libro è una sorta di miscellanea che mette insieme una serie di storie pubblicate qui e lì negli ultimi anni da Zero.

 Molte le avevo già lette, molte, soprattutto la parte finale dedicata al festival del cinema di Venezia no. Ed è in realtà su questa parte che mi vorrei concentrare.

 Come ho scritto in precedenti recensioni, a mio parere Zerocalcare non regge ancora le storie lunghe. 

Il punto è che in verità non ho proprio capito se lui lo è un narratore da storie lunghe. 

 C’è chi è più portato stilisticamente verso storie brevi e concise e chi, invece, senza l’arco narrativo di 200 pagine non riesce a esprimere ciò che vuole.

 Io rimango convinta che il suo forte siano le storie brevi, anche brevissime e questo libro me lo conferma.
 La parte dei “fumettosi riassunti” dei film visti a Venezia è qualcosa di fantastico, penso di non aver mai riso tanto leggendo un fumetto.

 E’ possibile sia così anche perché, al contrario degli altri argomenti che affronta solitamente, non deve continuamente spiegarsi o scusarsi e quindi la storia rimane quel che è, ossia, divertimento puro.

 Quindi per me è un sì e aspetto caldissimamente una nuova storia lunga, magari con meno patemi personali nel raccontarla.


giovedì 21 novembre 2019

The Crown e i sogni di gloria dei biblioteconomi

Sto vedendo la terza stagione di "The Crown" e, come ogni volta, alcuni sogni che covo dai tempi lontani in cui leggevo "Gente" con mia nonna appassionandomi alle vicende dei reali affiorano inesorabili.




lunedì 18 novembre 2019

"Come fu che divenni un'archivista", un fumetto di casualità, trattori, professoresse, rivalità e molto altro.

Ed ecco dopo molto lavoro (e l'intera serie di "Pose 2") il nuovo fumetto sul magico mondo degli archivi.

Tutto era partito su una mia vaga idea sulle "leggi di Murphy" in archivio, ma poi quella che doveva essere una paginetta di intro mi ha preso la mano ed ecco qui!

Non mi dilungo troppo! Bando alle ciance!
 "Come fu che divenni un'archivista" (piùomenopercasomanontantopercaso)!








lunedì 11 novembre 2019

Sempre pronti (al peggio). Una riflessione, a base di ricordi, su gruppo, adattamento e sacrificio dopo la lettura di "Sempre pronti" di Vera Brosgol.


 Mi capita di leggere spesso (e oserei dire incredibilmente) nelle biografie dei politici l’aver fatto lo scout come un titolo di merito. Non ne ho mai, onestamente compreso il motivo.

 Non c’è molto di cui vantarsi nell’aver fatto parte di un’organizzazione di origine paramilitare votata al volontariato e alla vita nei boschi, alla quale, di solito, vieni iscritto dai tuoi genitori per stare un po’ all’aria aperta, perché ci vanno tutti o perché comunque è una roba d’ispirazione cattolica (sì lo so esiste il CNGEI,ma non raccontiamocela è l’AGESCI che domina).

 Lo dico con cognizione di causa, ne ho fatto parte per 12 lunghi anni, anche appassionatamente, perché appunto, la parte del volontariato, dei boschi e anche del sentirsi parte di qualcosa è in effetti inebriante. 

 Tuttavia, se mi guardo indietro mi rendo conto che le cose brutte che mi ha lasciato sono assai più numerose e maggiormente marcate a fuoco di quelle belle.

 L’esperienza per quanto brevissima (un unico campo scout) di Vera Brosgol in “Sempre pronti”  ed. Bao Publishing rende bene l’idea di quel che voglio dire.

 Nel libro, l’autrice, figlia di immigrati russi negli USA, insiste mortalmente con la madre per essere spedita ad un campo estivo

Tutte le sue amiche ci vanno (a quanto sembra in America è praticamente LA cosa da fare in estate) e ne esistono di diversi tipi (in effetti anche Charlie Brown ci andava sempre).

 Lei, per ragioni economiche e di comunità, viene infine spedita ad un campo scout per figli di immigrati russi.

  E’ inutile che cerchiamo di trovarci un senso perché in Italia: 
1) Non esistono campi scout divisi per etnie/discendenze (OVVIAMENTE) 
2) Non puoi andare ad un campo scout se non hai frequentato da scout per tutto l’anno.

Il titolo originale è "be prepared". Considerando
che uno dei motti base dello scoutismo è, appunto,
"Estote parati", mi stupisce abbiano deciso di
cambiare il titolo in traduzione
 Il motivo è anche comprensibile leggendo il libro di Vera: non puoi essere preso e sbattuto a fare cose di cui non si comprende il senso, dove tutti già si conoscono e dove non viene fatto nessuno sforzo per l’integrazione.
 Tuttavia, questo è solo una parte del problema. 

 Quel che Vera vive durante il campo scout è quel che può accadere (non necessariamente accade, non tutti i gruppi sono uguali, ma quando accade avviene in modo prodigiosamente identico) a chiunque non sia particolarmente portato a unirsi ciecamente a un gruppo.

 Diciamo che molte cose accadono nei gruppi scout, ma, almeno nel mio, non era particolarmente incoraggiato il pensiero critico

 Tutto diveniva secondario rispetto all'appartenenza ad un gruppo e, per carità, dal punto di vista sociologico, nell’ottica anche di un eventuale film di fantascienza post-atomica, la cosa ha di certo un senso, ma quando ti ci trovi dentro (e soprattutto non sei in un film di fantascienza post-atomica) non lo ha.

 Ma mi spiego meglio.

 Vera arriva al campo scout. 
 Scopre cose ovvie come il fatto che dovrà dormire in tenda e usare una latrina e cose meno ovvie come “non è il gruppo che deve assorbire te, ma sei tu che devi farti assorbire dal gruppo”. 

 Sembra poco, ma è tutto. Infatti lo zero impegno profuso da chi si conosce già da una vita e frequenta il campo da anni nel farla sentire a suo agio, ha subito i suoi effetti negativi.

 E’ ovvio che una persona estroversa, carismatica e dal carattere socievole riuscirà a integrarsi immediatamente, ma è altrettanto vero che qualcuno un po’ più timido, introverso o con dal carattere particolare farà estremamente più fatica e rischierà la solitudine o l’emarginazione.

Certo, è quel che accade in tutti i gruppi, ma è quel che non dovrebbe accadere in un campo scout.

 La storia è poi costellata da “piccoli” episodi di bullismo: le ragazze più grandi che si approfittano della voglia di Vera di essere integrata impossessandosi dei suoi dolci, le mutande sporche di sangue di una delle ragazze più grandi messe sull’alzabandiera. 

 Cose che, intendiamoci, da un punto di vista darwinista ti preparano alla vita: nessuno sarà sempre gentile con te, meglio che ne prendi atto e ti fai un po’ di muscoli.
 I ragazzini sono cattivi perché gli adulti sono cattivi.

 “Il signore delle mosche” ci ha già vaccinati sull’illusione della naturale bontà scaturita dalla minore età.


 Tuttavia un episodio è significativo e, a mio parere, rappresenta ciò che ho sempre sempre sempre rimproverato e sempre sempre sempre rimprovererò alla mia esperienza scout: il voler minimizzare alcuni episodi di “bullismo” che, se pur possono nascere naturalmente all’interno di un gruppo di ragazzini costretti a stare sempre insieme per venti giorni, non possono in nessun modo essere minimizzati dai capi.

Il minimizzare, il far apparire chi si trova in mezzo come uno che non sa stare al gioco, è il vero problema.

 Accade che Vera e i suoi compagni partano per una gita nei boschi. Si fa sempre. 
 Passi una notte fuori, cucini senza stoviglie (la cucina trapper, molto divertente, incredibile che nessuno sia mai morto mangiando uova cucinate con un fil di ferro passato in mezzo), canti sotto le stelle.

 Tuttavia è anche il momento in cui i più deboli devono fare LA STESSA strada dei più forti portandosi dietro zaini abbastanza pesanti. 
Si ha un bel dire che si va “al passo del più lento”, a me non è mai successo. 
Io sono alta un metro e mezzo, non sono mai stata una silfide e dovevo seguire le falcate di ragazzi alti un metro e ottanta assai più prestanti di me. Per loro era una simpatica passeggiata, io volevo solo morire.

 Nel racconto, un ragazzo particolarmente preso di mira perde una scarpa nella fanga.

 Non riescono a recuperarla e così, sempre in modo molto darwinista, si decide di mettergli una specie di sacchetto intorno al piede e di proseguire. Dopo un po’, lo stesso ragazzo viene attaccato da alcune vespe e punto. Tutti iniziano a prenderlo in giro, compresa Vera che fino a quel momento lo ha compatito.

 Vera si unisce al coro ed è parte di loro. Rinuncia a solidarizzare per farsi accettare.

Non dubito sia una dinamica dei gruppi già abbondantemente studiata, quello che non accetto e non ho mai accettato è che venga presa sottogamba da chi dovrebbe invece vigilare, spiegare e far riflettere. 

 Qualcuno ha azzardato l’ipotesi che di certo la struttura gerarchica scoutistica in qualche modo agevoli tali episodi.

  Questo non so dirlo, ma posso dire di averne visti a iosa di questi episodi, di averne subiti a iosa e di provare ancora a distanza di anni un certo rancore verso chi non fece nulla.
 Episodi che peraltro, da persona più adulta e cambusiera, ho visto accadere e ugualmente prendere sottogamba (ma forse il fatto che i capi fossero quelli che si erano precedentemente accaniti su me e altri può essere una spiegazione della recidiva).

 Per quale motivo decisi di perseverare? Innanzitutto posso dire che, adesso, non ripeterei l’errore, ma posso capire perché all’epoca lo feci.

 E’ sempre descritto molto bene nel libro di Vera Brosgol: a fronte di tante cose molto spiacevoli, ci sono esperienze che è altrimenti difficile vivere. 

 Un grande contatto con la natura, un certo superamento dei propri limiti, dall’uso delle latrine al coraggio di andar per boschi da sole.

 C’è comunque un corollario di momenti preziosi che in qualche modo contribuiscono a renderti la persona che sei, e il gruppo, quando è benevolo, trasmette davvero una sensazione di collettività, di totale comunione con l’altro, difficile da riscontrare in altre situazioni nella vita. 

 Non a caso chi ha vissuto, al mio contrario, un’esperienza completamente positiva, anche da adulto difficilmente si distacca dall’esperienza scoutistica.

 Tuttavia mi sento di dire, come dice anche Vera, molto sinceramente alla fine del libro, quando ha trovato un’amica, ha visto un’alce, ha vissuto un’estate finalmente diversa e assai più costruttiva delle precedenti, che certe dinamiche non sono per tutti.

 Certo, aiuterebbe essere compresi e non minimizzati, aiuterebbe trovare un appoggio e non un “vabbeh dai passerà” oppure “non possiamo fermare tutto il gruppo SOLO perché tu non puoi camminare senza una scarpa”, aiuterebbe diciamo affrontare tutto come se la responsabilità del benessere fosse collettiva e non personale al fine di non turbare la collettività. 

 Un gruppo può anche non tornare indietro per una scarpa, ma ci si può dividere il peso dello zaino, ingegnarsi per rendere meno difficile il cammino a chi è in una condizione di debolezza.

 “Sempre pronti” è un libro molto molto molto onesto sullo scoutismo che consiglio di leggere sia a chi lo ha praticato sia a chi avrebbe voluto e non lo ha fatto o ha figli che vorrebbe iscrivere.

 Non fa terrorismo psicologico e non è L’ESPERIENZA UNIVERSALE, ma è un’esperienza comune a tanti.

 Io tuttora a distanza di anni non comprendo se ci ho più perso, (ho davvero dei ricordi pessimi che avrei potuto risparmiarmi) o più guadagnato (è pur vero che nella vita le brutte esperienze temprano e imparano a gestire conflitti e problematiche in momenti difficili).

 Probabilmente in generale racconta con estrema onestà uno degli innumerevoli episodi che possono rendere anche l’adolescenza più protetta assai difficoltosa.

 Non possiamo sempre schivare il pericolo e anche questo è un grande insegnamento.

martedì 5 novembre 2019

Piccola città, bastardo posto. Scrittori che hanno detestato le città dove hanno vissuto (ma che forse, senza di esse, non avrebbero scritto i loro capolavori).

 Se c'è un posto nella mia esistenza che non ho sopportato con tutte le mie forze, quello è stato Bergamo.

  Non me ne vogliano i bergamaschi, ma come cantava Guccini la ricordo "come un incubo oscuro, un periodo di buio gettato via".

 Quanto sono stata infelice in quella città è difficile spiegare anche se, anni dopo, a posteriori, posso ovviamente dire che la maggior parte delle colpe fossero ovviamente mie (sebbene continui a pensare che il luogo non ne sia completamente esente).

 Prima, non mi era mai successo di detestare una città.

 Ho sempre amato moltissimo il posto dove sono cresciuta e ho sempre trovato splendida la città dove avrei voluto vivere e sono riuscita a passare un solo bellissimo e fondamentale anno della mia vita, Roma.

 Non avevo mai preso in considerazione l'idea di vivere altrove, ma si sa, l'amore fa fare cose orribili.

 Perciò quando mi trasferii a Bergamo venivo da una città che adoravo e in cui mi trovavo benissimo, vicino a casa, che conoscevo da sempre, un posto che mi sembrava il centro di tutto.

 Trovarsi dall'altro capo d'Italia in una cittadina dai costumi diciamo diversi (non essendo una fervente cattolica o un'amante della montagna molte attività mi erano precluse), senza nessun amico, senza parenti e senza, ovviamente, lavoro, fu lo shock totale. 

 L'amore aiutava, ma l'amore non è che può tutto e, anche quando mi trasferii a Milano, le cose non andarono bene per altri due anni. Quattro anni che mi sono sembrati infiniti, in cui ho detestato ogni singolo ciottolo che ho calpestato.

 Eppure, senza quei quattro anni non avrei niente di quello che ho oggi: l'amore, il lavoro, il blog, i fumetti, i miei nuovi amici.

 Le città che amiamo hanno una grande influenza su di noi, ma assai più misteriosa è l'influenza delle città che odiamo.

 Se anche non fosse vero che l'odio è composto per tre quarti dal nostro amore (e non lo è), di certo è un sentimento potente in grado di accendere qualcosa di forte dentro di noi.
Quando riusciamo a dominarlo, a non lasciarci sconfiggere, possiamo farne grandi cose.

 Per dare man forte al mio delirio, ho ideato questo post sulle città detestate dagli scrittori (o sugli scrittori che detestarono alcune città).

 Di sicuro ci sono tanti altri esempi che saprete fornirmi e che io, ovviamente, attendo con ansia!


OVIDIO E TOMI:

 Uno dei capostipiti dell'odio per un luogo è indubbiamente Ovidio.

 Il ritratto che i professori fanno alle superiori di questo prolifico scrittore è ai limiti di "Chi" o "Novella 2000". Descritto come un raffinato viveur, dedito alla bella vita, alle poesie e alle feste, benvoluto dalle alte cariche e con una verve creativa irresistibile, a un certo punto viene spedito a languire e, infine, a morire, sul Mar Nero, nell'attuale Romania.

 Di colpo la capitale sgargiante gli viene proibita, proprio a lui, stella incontrastata del belmondo romano.

 Perché? Per come? L'ipotesi più accreditata, o che ti lasciano intendere al liceo, propro in nome del momento Novella 2000, è che avesse avuto una storia con la donna sbagliata: la figlia dell'imperatore Augusto.

 Di certo c'è che per sua stessa ammissione qualcosa combinò e quel qualcosa lo portò in un esilio talmente drammatico da spingerlo a scrivere un complesso di componimenti detto "Tristia".

 L'attacco riassume tutto il dramma di chi si consuma di nostalgia:

 "Senza di me - ma non sono geloso - andrai, piccolo libro, a Roma: ahimè, che non è permesso andarvi al tuo padrone. Va', ma disadorno, come si addice al libro di un esiliato. Infelice, metti l'abito che si conviene a questo mio tempo!"


LEOPARDI e QUALSIASI CITTA':

 L'emblema assoluto della persona che riuscì nella rara impresa di odiare praticamente tutte le città in cui mise piede fu Leopardi.

 E' la cosa che più mi rimase impressa alle superiori su quello che è in realtà uno dei più grandi poeti italiani della storia. Ma cosa vogliamo farci? Non faceva altro che lamentarsi!

 Recanati no perché era un posto sperduto nelle Marche, il padre tirannico, la gobba, l'infelicità. Possiamo capirlo del resto, in tanti ci siamo sentiti stretti nel posto dove siamo nati.

Tuttavia il resto della sua esistenza non può che suggerirci due possibili soluzioni: o si trattava di una persona particolarmente lamentosa e incontentabile, oppure, più empaticamente, le sofferenze interiori ti rendono insopportabile qualsiasi luogo.

 Questo perché.

 Roma no, perché se la immaginava in un modo dai libri e invece si rivelò un luogo squallido e corrotto.

 E Milano no perché era noiosa e c'era un pessimo clima.

 E Firenze no perché era fetidissima ed ebbe una serie di quegli sventurati affari amorosi con donne nobili, già sposate che proprio non lo volevano.

 Napoli non si capisce bene, forse trovò una certa pace perché era una città che più si confaceva al suo carattere o forse perché finalmente aveva finalmente un amico (qualcuno dice anche un amore): Antonio Ranieri. Certo è che alla fine ci morì.


GUCCINI e MODENA:

 Non è propriamente uno scrittore, anche se è ANCHE questo, ma Guccini è di certo colui che mi ha dato lo spunto per questo post.

 In autunno mi piace ascoltare alcune sue canzoni, come "La canzone dei dodici mesi" o "Eskimo", ma quest'anno mi è presa brutta anche con "Piccola città" che avevo sempre sottovalutato.

 Alcuni versi come "Piccola città che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele", mi spezzano il cuore per la nostalgia.

  Ed è strano, visto che per sua stessa ammissione Guccini dedicò questa canzone alla sua città natale: Modena, in un momento di particolare adorazione verso la città d'elezione del suo cuore, Bologna.

 Per lui Modena rappresentava un periodo oscuro del dopoguerra, quando miseria e mancanza di prospettive non riempivano proprio il cuore di un giovane di belle speranze.

 Eppure è difficile pensare che questa sia canzone cattiva verso una città, è un tale concentrato di ricordi d'infanzia, di quel periodo che, qualsiasi cosa faremo, ovunque andremo, chiunque conosceremo, rimarrà la nostra pietra d'angolo, da lasciare stupefatti.

 Più passano gli anni, malgrado faccia nuove cose, per quante persone conosca, rimango sconcertata dalla forza invincibile di quei primi vent'anni della mia vita, un monolite che niente riesce a scalfire nel bene e nel male.


SIMONE de BEAUVOIR e ROUEN:

 Quando piangevo il mio esilio bergamasco, una delle cose che mi davano una certa speranza nel futuro era il pensiero che anche Simone de Beauvoir aveva passato due odiosi anni in una cittadina di provincia dove l'unica cosa che le faceva passare il tempo era andar per montagne.

 Il posto in questione era Rouen, dove insegnava in una scuola femminile dove non succedeva mai niente se non qualche scandalo lesbico tra insegnanti e storie varie di esuli russe bianche.

 Rouen era quanto di più noioso potesse accadere a una delle più grandi scrittrici del novecento: il nulla cosmico, la noia, un lavoro che la appassionava solo a tratti e il pensiero continuo che la vita stesse scorrendo in tutta la sua potenza. Altrove.

 Fu però anche il posto dove Simone de Beauvoir conobbe un'alunna fondamentale per la sua esistenza di scrittrice, quell'Olga che le diede successivamente l'idea per "L'invitata", il suo fortunato romanzo d'esordio.


BIANCIARDI e MILANO:

Milan l'è un gran milan, ma è anche una città difficile, dura, che tanto dà, ma molto di più chiede. 

 Pochi posti in Italia possono vantare un tale ventaglio di possibilità per chi desidera lanciarsi verso più grandi orizzonti, ma pochi posti risucchiano in modo altrettanto voluttuoso energie e stipendi. 

 Bene lo sapeva Luciano Bianciardi che basò la sua opera narrativa sull'ossessione che questa città (e il lavoro che gli aveva dato) procurò a un'esistenza sempre in lotta.

 Voglio dirlo, pochi scrittori mi danno un senso d'immedesimazione, d'identità, come Bianciardi. 

 Nella sua totale insofferenza verso un mondo ipocrita, verso tanti salamecchi, verso i ricchi che si atteggiano a poveri e i poveri che venderebbero l'anima pur di essere (o peggio apparire) ricchi, mi rivedo in un modo quasi straniante.

  Probabilmente perché Milano ha su di me la stessa impressione: un luogo verso il quale sono andata (io più casualmente di lui) e che mi ha dato in un certo senso ciò a cui aspiravo, ma anche un posto dove chi è insofferente e "contro" trova un'esasperazione ai suoi pensieri tortuosi.

 Bianciardi lottò fino alla fine per non integrarsi in un mondo che disperatamente lo avrebbe accolto e divorato. Milano della quale non poteva fare a meno e che infine lo distrusse.


GOETHE e L'ITALIA:

Il grand tour nel sud dell'Europa era il must per giovani del nord e mitteleuropa dell'ottocento.

 Erano molto innamorati dei nostri cieli, di un buon clima che potesse guarire le infinite malattie polmonari che molti lutti addusse ai nordeuropei e di, incredibile ma vero, una certa libertà di costumi.

 Leggere adesso "Viaggio in Italia" di Goethe è un vero spasso.
 Nessun travel blogger può permettersi di essere così sincero, né, probabilmente vorrebbe (ho in canna da tempo un post sui rapporti tra blogger e servizio al potere che non ho cuore di pubblicare), ma Goethe, che non aveva problemi social e neanche di autobranding poteva pur scrivere quello che gli pareva.

 Scopriamo perciò che Venezia non gli piacque particolarmente, la considerò sporca e poco accogliente, che a Firenze si concentrò immotivatamente su monumenti minori e che visitò Bologna di una manciata di ore decretando fosse noiosa e per niente affascinante.

 Pieno di pregiudizi verso Roma che da buon protestante considerava il corrotto centro del cattolicesimo, scopre invece una città viva e piena d'interessi in cui si intrattiene piacevolmente prima di partire alla volta di Napoli, amatissima e dove secondo me c'è la frase top del libro.

 Un locale infatti gli dice che al nord: "sempre neve, case di legno, gran ignoranza e denaro assai".

 Il gran finale però non è all'altezza.
La Sicilia si rivela un luogo troppo difficoltoso però il nostro che si imbatte in una Messina rasa al suolo dal terremoto, in grandissime difficoltà di viaggio nell'entroterra e in generale Goethe è ormai folgorato dalla sympatia napoletana che non ravvisa nei siciliani (infatti a un certo punto prende armi e bagagli e torna prima a Napoli e poi a Roma).

 Un gran tour così sincero adesso sarebbe impossibile. Nessuno vuole finire male all'epoca dei social.


DOSTOEVSKIJ e SAN PIETROBURGO:

Strano forse a dirsi vista la preminenza dell'atmosfera cittadina nei suoi romanzi, ma Dostoevskij detestava la sua San Pietroburgo. 

 I motivi di tale odio possono essere stati molteplici: nato a Mosca vi venne spedito dal padre per frequentare un'accademia militare in vista di una carriera che non prese mai il via (e che non prese neanche mai in considerazione davvero).

 Era, San Pietroburgo una città che doveva forse apparire strana all'epoca, lui la descrive "astratta e premeditata", essendo stata costruita dallo zar con uno scopo preciso: quello di sembrare una città quanto più simile all'Europa.

 In perenni economie, cambiò venti casi scrivendo un capolavoro dietro l'altro, ci sarebbe comunque riuscito lontano da lì?


JOYCE  e ROMA:

Roma è una città con la quale i nordici, intesi come nord Europa, hanno sempre avuto un ambiguo rapporto.

  Keats ci andò tentando di non morire (e ci morì), gli Shelley ci persero una figlia (in generale l'Italia non portò fortuna alla loro prole) e Joyce, a quanto sembra, la odiò visceralmente.

 Mentre già si trovava a Trieste, rispose a un annuncio di lavoro di una banca che cercava in quel di Roma un corrispondente in grado di leggere e scrivere in varie lingue.

  Joyce rispose e fu assunto andando ad abitare vicino via Frattina. Tuttavia, come scrisse in numerose lettere al fratello, odiò Roma con tutte le sue forze.

 Sette mesi pessimi che gli bastarono a decidere di scappare, ma che vengono ritenuti dagli studiosi fondamentali nella genesi del suo capolavoro, l'Ulisse, confermando questo strano rapporto fruttuoso tra scrittori e città profondamente odiate.


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