sabato 15 aprile 2023

La Dolcevita di Dolcemetà! "Come il Papa"!

 In realtà durante lo scorso anno, di tanto in tanto, ho continuato a produrre qualche fumetto della serie della Dolcevita di Dolcemetà.

 Non molte, ma i ricordi di fb, mi ricordano cose che avevo dimenticato ed è un peccato, anche perché tra le Cronache dalla reclusione (durante il lockdown feci una barca di vignette/piccoli fumetti, praticamente uno al giorno) e Dolcevita, magari un librettino autoprodotto ci esce.

 Vabbeh, ci penserò. Per adesso cercherò di recuperare le vecchie vignette della Dolcevita e di postarle qui e, sappiate che è in arrivo, incrociando le dita, fooooorse una fumettosa novità. Dico forse perché questo giro voglio essere scaramantica (anzi, è il caso che vada a disegnare subitoora se no la vedo dura).

 Intanto godetevi "Come il papa"!




giovedì 13 aprile 2023

Resistere serve a tutto. Tra "Tempi eccitanti" di Naoise Dolan e Aggretsuko una riflessione sulla rabbia che manca e sul livore che ci consuma

 Premetto che questo post farà idealmente coppia con quello che spero di scrivere presto sulla figura di Teresa Noce, madre costituente, partigiana, politica infaticabile, partigiana, che ho scoperto solo di recente e la cui storia è secondo me emblematica e da riscoprire.

 Ho letto recentemente la sua autobiografia e sto cercando un modo per scrivere un post degno, ma è dura perché nella sua vita c'è tanto, mi verrebbe da dire che c'è tutto quello che dovremmo reimparare a immaginare, ma soprattutto A FARE.

 Spero in questi post di riuscire a spiegare quello che mi frulla in testa da quando è iniziata una sorta di crisi di coscienza politica interiore, immagino dovuta a un fatale mix di età e stravolgimenti vissuti in questi ultimi anni tra covid, vita e lavoro.

Ormai un anno fa trovai all’usato un libro che mi intrigava molto, “Tempi eccitanti” di Naoise Dolan ed. Atlantide.

 

Dall’ottimo lavoro dell’ufficio stampa, mi era parso di capire che parlasse della frustrazione dei millennial verso un capitalismo divorante che non riuscivano a combattere, il tutto ambientato a Hong Kong, uno degli epicentri del capitalismo più divorante. 

 Il claim by Zadie Smith prometteva infatti: "Una commedia dei nostri tempi spassosa, tagliente, femminista, marxista e davvero cattiva".

 Con queste ottime premesse, mi sono gettata nella lettura con una certa fiducia e all’inizio, devo dire, le premesse sembravano confermate. 

 Ava è un’insegnante di inglese per ricchissime famiglie cinesi. Malgrado queste famiglie cinesi siano così straricche, a quanto sembra, non spendono però i loro soldi per garantire agli insegnanti (percepiti livello più o meno “autista di Downton Abbey”) uno stipendio tarato sull’esosità del luogo. 

 Quindi Ava si trova ad affrontare uno dei grandi problemi (non sono per niente ironica) del nostro secolo: si lavora, ma quel lavoro non basta neanche a pagare una stanza microscopica in affitto.

 Siccome, a causa dell'estensione di Hong Kong, non si può fare come a Milano e dire alla gente di lavorare per un tozzo di pane e poi affittarsi una casa a 80 km, verso la provincia di Sondrio, o direttamente a Novara in un’altra regione (anche se penso sia critica la situazione degli affitti anche a Novara a causa dell’esistenza del treno per Milano), la nostra non sa come risolvere questo problema.

 Mentre sta lì che viene maltrattata da ragazzini saccenti, fa pensieri che si traducono talvolta in telefonate in Irlanda sulla decadenza del capitalismo e su come una laurea, soprattutto umanistica, ormai non sia più un valido ascensore sociale per le classi meno abbienti. L’unico ascensore sociale che esista ormai è il denaro. Se puoi pagare puoi avere tutti i lavori affascinanti che vuoi, se non puoi pagare non riesci a trovare un letto neanche in uno sgabuzzino.

 Tutto questo mi era sembrato un ottimo inizio. 

 Ah, finalmente non ero la sola ad essere arrabbiata, a notare contraddizioni feroci che, a mio parere, necessitano di altrettanta ferocia nell’affrontarle!

 Poi no. La storia vira verso storie d’amore. La nostra Ava infatti ha la ventura di essere abbastanza avvenente e di innamorarsi di gente abbastanza abbiente, prima un tizio inglese che fa il financial qualcosa, guadagna una barca di denaro in uno di quei lavori manageriali bancari mai abbastanza chiari a chi disgraziatamente non ha un MBA da 100.000 euro, poi di una ragazza cinese piena di soldi, ma che ovviamente non può certo dire ai suoi che ha una relazione con una donna.

 Questa seconda parte, che in realtà copre quasi tutto il libro, è narrata con una dovizia di particolari di cui penso nessuno in particolare sentisse la necessità. 

 Ava si aggira per l’appartamento di lusso del tizio inglese dove è andata a vivere dopo che lui opportunamente è stato trasferito per un periodo a Londra. Dilapida i suoi pochi denari in candele costose, va in giro, fa cose, vede gente.

 Quando l’ho terminato mi sentivo abbastanza irritata. Tutta sta grande indignazione verso un sistema economico oppressivo, alla fine sembrava dissolta da fortuiti incontri. Una specie di versione del nuovo millennio delle popolane che trovavano protezione verso i nobili locali che garantivano loro benessere e una vita migliore, pur stando sempre attenti a tracciare un solco di classe sociale tra di loro.

 Poi dopo un po’ ho realizzato che forse non avrei dovuto attendermi dal libro ciò che il libro non poteva raccontarmi. 

 Alla fine non risulta che nelle stesse condizioni molte persone della mia generazione si comporterebbero in modo diverso. 

 Stiamo sempre lì che un po’ ci lamentiamo, un po’ tiriamo a campare, un po’ diamo la colpa (intendiamoci, per me in larga parte condivisa) a generazioni che si sono mangiate tutto e hanno poi creato condizioni socio-economiche da neoschiavitù distruggendo il lavoro fatto da quelle precedenti. C’è una commistione di alzolamanismo (cosa posso fare io davanti a tutto questo?) e vittimismo (ah, è quello che ci hanno lasciato!) di cui ovviamente comprendo le motivazioni e che però non lascia mai spazio ad una qualche elaborazione successiva.

 Ossia, abbiamo appurato che il sistema che ci hanno mollato non funziona. Cosa possiamo fare per migliorarlo? Questa parte successiva cade sempre nel vuoto.

 Non mi va di scrivere un post in cui magnifico i miei coetanei o compagn* generazionali che hanno combattuto e fatto qualsiasi cosa per resistere. Non mi va perché non voglio utilizzarli come scudo per giustificazioni che mi sono stufata di sentirmi raccontare, ma anche di raccontarmi.

 Brav* loro, ma non basta un piccolo gruppo, per contare e cambiare serve la massa. E la massa dov’è?  La massa, dobbiamo ammetterlo, è con Ava a cercare di sopravvivere, a cercare un senso nelle candele costose, a raccontarsi con livore che la propria istruzione senza il giusto denaro dietro a comprare master in università internazionali forse non garantisce l’ascensore sociale.

 Il senso di tradimento che proviamo verso il futuro si è trasformato in livore e non è riuscito a diventare rabbia.

 Sono anni che ci rimugino, che cerco di capire quale potesse essere la soluzione, politicamente.

  E purtroppo ho capito che senza una reazione di un qualche tipo, un’imposizione, una lotta rabbiosa, di te fanno polpette.

 Capisco che non è un discorso assertivo da fare e che ultimamente dobbiamo essere tutte e tutti estremamente assertivi, che non dobbiamo cedere alle provocazioni e tante altre storie fantastiche, ma diciamocelo, non sta funzionando. E forse non funziona perché la lotta non può prendere quelle strade.

 Immagino che parte di questa mia deduzione provenga dal mio vissuto. 

 Se la comunità Lgbt non fosse lì a combattere tutti i santi giorni per avere diritti, sarebbe schiacciata. Il mio pensiero fisso è che se non combatti tu per i tuoi diritti, non lo farà nessuno al posto tuo. Ed è per questo che mi danno fastidio i vari personaggi famosi che non fanno coming out o pontificano dall’estero: tesoro, tutt* vorremmo avere una vita tranquilla, ma come cantava Bertoli “Non credo alla vita pacifica, non credo al perdono”.

 Fare questo discorso sulla rabbia è mooooolto difficile perché c’è sempre il retropensiero che la rabbia sia pericolosa socialmente, ossia che la rabbia si traduca per forza in violenza. 

Ergo, dire che sei arrabbiata/o è tipo un’autodenuncia sociale: ommioddio è arrabbiato, è capace di tutto.

 Questo è stato in effetti un enorme deterrente perché chissà cosa potremmo fare da arrabbiati, molto meglio che stiamo buoni e compriamo candele mentre vampirizziamo l’affitto di qualcuno che poi quando gli gira ci butta fuori di casa. 

 Ma la rabbia non è solo una forza negativa, uno psicologo utilizzerebbe di certo qualche mito greco per spiegarlo meglio e bene, ma è anche forza generatrice, un sentimento necessario a cui aggrapparci per cavarci da questo impiccio: se si vuole un mutamento radicale bisogna essere radicali, bisogna ammettere delle rinunce, bisogna spendere il proprio tempo libero, bisogna confrontarsi e anche arrabbiarsi sì nel confronto, bisogna scendere in piazza, immaginare, permettersi di pensare che non è tutto inutile, ma è tutto possibile e che resistere non è un sogno, resistere serve a tutto, anche se nella contingenza si ha la sensazione di aver perso.

 Il futuro non è scomparso come noi pensiamo, semplicemente a un certo punto è stato comodo assecondare i nostri foschi pensieri sul fatto che fosse impossibile pensare a un futuro diverso e allora non ci restasse letteralmente che piangere.

 E’ un pensiero potente eh, perché se fai un qualsiasi discorso di cambiamento vieni trattato come il cretino di turno, vieni sminuito, vieni preso per lo scemo che crede nelle favole e probabilmente ci crede perché fondamentalmente è un privilegiato.

 E’ passato il concetto manipolatorio che chi immagina è perché non ha problemi, mentre il discorso è che chi non immagina non vuole problemi.

 Ma una vita senza problemi è la vita che ti viene imposta. Sono lavori qualificati sottopagati, sono contratti precari che però devi prima pensare a quanto è difficile per il padrone pagarti (quindi devi ovviamente pensare col cuore in mano prima a lui che a te stesso, poveretto, tanto te campi d’aria no?), devi pensare alla situazione geopolitica, alla crisi energetica, a tutto, ma non a quello che puoi fare per cambiare.

 I desideri sono secondari, dobbiamo stare buoni, dobbiamo essere bravi, dobbiamo comprare candele, non disturbare e trovare un modo per pagare l’affitto, non  finire per strada e guadagnarci uno specchietto motivazionale su qualche giornale per essere d’esempio: “Faccio 100 km al giorno per lavorare 20 ore a 800 euro e sono FELICE!”.

L’utile servo serve sempre.

Come noterete dalla lunghezza di questo post ci ho rimuginato davvero tanto, ma disgraziatamente da sola perché i luoghi in cui bisognerebbe farlo insieme, sembra non esistano.

 Ho capito che forse era un’idea condivisa e passibile di condivisione qualche settimana fa, mentre guardavo l’ultima stagione di “Aggretsuko”, un anime geniale sul mondo del lavoro in Giappone che spaventosamente ricalca il nostro mondo del lavoro.

Nella quarta serie addirittura si affrontava il tema del demansionamento e del bossing per costringere alle dimissioni. 

 Nella quinta e ultima, la protagonista, una mite orsetta lavatora che sfoga la sua rabbia in sessioni di karaoke metal, viene scelta come candidata nel partito della rabbia.

 La metafora non è neanche suggerita, ma proprio esplicita: una generazione si lamenta che le cose non funzionano, ma poi cosa fa oltre a lamentarsi? Dov’è la loro rabbia?

 E mi sono chiesta, se è così lampante il problema, perché non accettiamo di discuterne?

 Abbiamo un problema con la rabbia generazionale. Dobbiamo accettarla come parte del discorso e motore del cambiamento. Non si cambiano le cose lamentandosi e comprando candele.  

 Bisogna prenderci quello che è nostro, strapparlo come fecero i nostri ormai bisnonni, le cose non si accomoderanno da sole mentre cerchiamo di fare 16 lavori per pagare una stanza e continuiamo a ricevere lettere dell’Inps in cui si dice che andremo in pensione a 77 anni.

 Non si accomoderà niente da solo e al contempo nulla è ineluttabile.

 Quella è solo una fiaba per tenerci buoni, a immaginare, proprio come la protagonista di "Tempi eccitanti", che tutto sommato la vita è bella e che basta trovare la persona con lo stipendio giusto per essere felici e sfruttare gli altri, esattamente come noi veniamo sfruttati, è un modo come un altro per affrontare un problema sistemico. 

 Eppure se ci soffermassimo a pensare più lucidamente, capiremmo da soli che attivarsi è di certo più sensato di star fermi, che subire e alzare le spalle in segno di resa non può essere la risposta e che la risposta può venire solo da noi.

 Ha senso che Ava stia ad Hong Kong a fare la fame fantasticando accademicamente su vaghe teorie marxiste mentre dei ragazzini saccenti mentre la maltrattano?

 Ha senso lavorare per non pagarsi neanche l'affitto? Strappare stipendi che sono come briciole? Fare quattro lavori per mantenersi e dover vivere a 80 km dalla città perché non si hanno i soldi neanche per una stanza?

La nostra vita attuale non meriterebbe forse una crisi di coscienza di portata drammatica.


giovedì 23 marzo 2023

Piccole recensioni tra amici! Un giallo brutto, una graphic novel per chi ama Sanremo e una storia di fantasmi per Halloween

 Ed ecco, che dopo una vera eternità, tornano anche le Piccole recensioni tra amici.

Quando ho iniziato il post quasi non ci stavo credendo neanche io che avrei avuto il tempo di finirlo e mi sono resa conto di aver accumulato una quantità di recensioni in un anno che per smaltirle tutte dovrei riavere i ritmi dei bei tempi che furono. 

 Comunque, l'importante è iniziare e ho scelto tre titoli assolutamente randomici e senza soluzione di continuità: un giallo, una graphic novel e un romanzo breve di fantasmi di epoca vittoriana.

 Devo dirvi che lo scorso anno ho letto pochi libri imperdibili, ma appunto, lo attribuisco al fatto che la mia mente era in altre faccende affaccendata (per chi non sapesse i miei tormenti, ero alle prese con un master molto molto molto impegnativo), quindi ho molte aspettative per questo nuovo anno.

 Non indugio oltre, e passo subito alle prime tre recensioni!


KIPPUR di Faye Kellerman:

 Trattasi di un titolo che fa parte di una serie di gialli ambientata nel mondo degli ebrei americani ortodossi.

 Il primo, “Il bagno rituale”, mi era piaciuto molto e avevo alte aspettative, tutte disattese. Il protagonista, Peter Decker, è un tipico poliziotto americano tutto chiacchiere e distintivo, fisico prestante, divorzio alle spalle e figlia grande. 

 

 Ne “Il bagno rituale” si imbatteva nella comunità ebrea ortodossa della sua città a causa di una serie di omicidi e conosceva in tale occasione un tenero bocconcino di donna, opportunamente vedova, Rina Lazarus, provvista di due figli piccoli. 

 Scoppiava l'amore e per fortuna il nostro Peter, adottato da bambino, scopriva che la sua madre biologica era ebrea, altrimenti niente secondo matrimonio ebraico.

 Io non ho nessuna simpatia per nessuna religione portata alle sue estreme conseguenze, ma insomma, il libro si faceva leggere e l'ambientazione era interessante e suggestiva.

Ecco, “Kippur” non si fa leggere per niente.

 Peter e Rina si sono sposati e lei ha la bella pensata di portarlo a passare una parte della luna di miele a New York dalla famiglia del primo marito defunto. Costoro vivono in una comunità autosufficiente e anche parecchio grossa, ma hanno vari problemi coi loro giovini, assurdamente (davvero assurdamente oh guarda incomprensibile) attratti dal mondo che li circonda.

 Mentre sono lì a spassarsela, sparisce un ragazzino della comunità (dopo un anno non mi ricordo più se fosse parente o meno di Rina, ma non è rilevante ai fini della trama) e Peter, esperto in adolescenti in fuga, inizia a indagare.

 Vabbeh, era un inizio interessante, è la resa che è drammatica. Se “Il bagno rituale” si barcamenava sull'ebraismo ortodosso con un certo equilibrio, in “Kippur” a questo povero ragazzino che osa scappare da un mondo che trova soffocante (cosa che mi sembra anche prevedibile) succede di tutto, ogni forma di punizione. Un po' come succedeva qualsiasi punizione divina al figlio ribelle della serie tv “Settimo cielo”.

 Così ecco che il suo amico e compagno e ispiratore di fuga è un pazzo psicopatico con manie da serial killer figlio di una funesta unione combinata. I due vagano per l'America uccidendo omosessuali e il finale è una roba trashissima che non fa prigionieri e dà un'idea di come si percepisca negli Usa un certo giustizialismo personale. Terrificante. 

Seriamente uno dei gialli più moralmente brutti mai letti.


DISCOSOGNI di Alessandra Rostagnotto ed. Bao Publishing:

 Anche questa lettura, poveretta, ha praticamente un anno ed è un anno che ci tengo a fare una recensione.


E' una storia graziosa e ironica ambientata nelle follie canore degli anni '80, quando la mancanza di internet e di fact checking continuo e incessante permetteva di creare falsi cantanti e falsi miti col solo scopo di dare al pubblico ciò che il pubblico voleva. Una sorta di costruzione del personaggio mediatico alle sue ingenue ed estreme conseguenze.

 La protagonista, Ambra, ha il profilo nasuto del grande Battiato, ma siccome è una fanciulla, benché anch'essa si scriva le canzoni da sola, non viene considerata. 

 La presenza scenica è fondamentale ora, per l'epoca tra trine, pizzi, tulle, fisico da Jane Fonda e trucco scifi, forse ancor di più. 

 Trascina quindi un'esistenza carica di sogni, ma con poche aspettative in quel della riviera Romagnola, dove lavora come gelataia per la sua tirannica zia e cerca di farsi un nome nelle discoteche e nelle fiere di paese. Il suo migliore amico, …, è il suo esatto opposto: non ha particolari talenti, ma è bello e originale e sarebbe forse perfetto per cantare le sue canzoni spacciandole per proprie.

 Infatti è proprio quello che propone il discografico che li porterà a Sanremo. Eppure davvero dobbiamo piegarci ai trucchi del sistema per realizzare un briciolo dei nostri sogni? 

 La storia è carina, il tratto non particolarmente originale, ma ho apprezzato molto l'uso dei colori che restituiscono molto l'atmosfera dei tempi. La parte migliore del libro rimane di sicuro la grande ironia di fondo che avvolge il tutto. 

 Lo consiglio a chi è un fan degli anni '80 e di Sanremo.


“LA CASA DISABITATA” di Charlotte Riddell ed. Abeditore:

 Questo era addirittura un consiglio di Halloween (che però ho comunque dato sulla pagina di fb). L'ho letto tutto d'un fiato in un pomeriggio di febbre ed è una storia che parte come storia di fantasmi e finisce come un giallo.

 

L'inizio infatti è il più classico dei classici: c'è una bella dimora in quel di Londra che, peraltro, è l'unica forma di sostentamento di una gentile fanciulla, miss Helena, il cui padre è morto suicida.

Il problema è che la casa è inaffittabile perché, ogni volta che vi si insedia qualcuno, iniziano a manifestarsi oscure presenze.

A indagare sul misterioso mistero, viene mandato un giovane che lavora per l'avvocato che gestisce la proprietà per conto di Helena e della sua arcigna zia.

 Questa benedetta casa è infestata oppure qualcuno ha interesse che lo sembri?

Il racconto è proprio una storia vittoriana in piena regola, del resto è del 1883 quindi proprio dop doc, anche qui c'è molta ironia, un mistero, una piccola storia d'ammmore e si fa leggere abbastanza velocemente.

Vi consiglio di ripescarlo quando vi sentite in vena di una storia di fantasmi superclassica (oh a me ogni tanto vengono queste specifiche voglie) o a ottobre per Halloween.

E primo round di recupero andatoooooooooooooooo

giovedì 16 marzo 2023

La mia pazza vita in archivio! I faldoni - Parte II

Dopo un saaaaacco di mesi torno sul blog. 

 No, non lo avevo abbandonato, stavo solo cercando di sopravvivere a un master molto tosto in cui mi ero coraggiosamente imbarcata un anno fa. 

 Non vi tedierò sull'importanza delle sfide nell'età adulta perché ho deciso una decina di minuti fa che dedicherò a questa esperienza un fumetto, che probabilmente sarà criptico per tutt3 i non archivist3, ma non importa, mai una valutazione di questo genere ha sfiorato i contenuti di questo blog, che va sempre sulla scia dei miei momenti.

 Il primo post da rediviva è dedicato ai faldoni. Credo un anno e mezzo fa (mio Dio) dedicai a questi magici oggetti un primo fumetto, che vi consiglio di rileggere per entrare nel mood e avere un intro.

 Ecco quindi il secondo fumetto sul tema, che volevo fare anche più lungo, ma continuavo a rimandare. Ci ho quindi dato un taglio e presto spero potrete ammirare il terzo!

"La mia pazza vita in archivio: I faldoni parte II"!









mercoledì 16 novembre 2022

La matta nella soffitta. "The Crown 5" tra revisionismo, "Jane Eyre", saggi femministi e royal addicted.

 Come ho scritto molte volte, ho una certa passione per le storie delle case reali nata in tenera età non per una qualche tendenza assurdamente monarchica, ma a causa dei "Gente" che leggevo da mia nonna.

Come tutte le cose divulgative per un pubblico femminile, anche quel genere di riviste sono sottovalutate, ma la storia delle case regnanti, sebbene infiocchettata e romanzata a uso domestico, era letteralmente una parte della storia, non più distante dalle interminabili pagine sugli Asburgo, Asburgo-Lorena, Stuart, Orleans e qualsiasi casata regnante abbia infestato la storia moderna europea.

 Per qualche motivo che indubbiamente un buono psicologo saprebbe spiegare, durante la pandemia avevo trovato una nuova declinazione delle mie passioni reali, a uso instagram: le storie dei gioielli delle casate regnanti.

 Io sono una che nella vita mette addosso giusto la fede e un su coccu, ma di colpo, sotto gli strali del Covid, quando come tanti non riuscivo a dormire, mi sono scoperta appassionata di tiare, diamanti a taglio cuscino e cabochon. 

 Quello che mi affascinava era il fatto che dietro a tali gioielli ci fossero spesso storie intricatissime che di solito facevano capo a una qualche dinastia in disgrazia che, al culmine dell'infelicità e povertà, doveva disfarsi dei suoi gioielli (non sempre, qualche volta, raramente, c'erano storie di matrimoni felici).

 Tutto ciò mi ha portato involontariamente a contatto con uno strano mondo: quello degli appassionati di gioielli reali e di reali. 

 Visto l'argomento forse dovevo anche aspettarmelo, ma ho scoperto che tendenzialmente queste persone non erano come me, ossia non consideravano la monarchia un pezzo d'antiquariato della storia straordinariamente pervicace e colmo di storie interessanti. 

 No, loro ai monarchici erano appassionati anche politicamente, cioè credevano autenticamente che fosse una valida forma di governo mettere in mano il potere a un primogenito casuale. 

 Appassionati, ma prevalentemente appassionatE visto che la maggior parte erano donne.

 Non ero comunque lì per giudicare, ma per apprendere quando una tiara potesse dirsi kokoshnik e quando no.

 Tuttavia ben presto ho capito che tra questi gruppi di appassionat3 reali c'erano delle convinzioni e delle simpatie e antipatie granitiche nei confronti di alcune figure.

 Ovviamente tutte amavano Elisabetta la Queen e su questo ci siamo. Praticamente quando è morta Elisabetta era diventata una cara nonnina che piaceva pure ai sassi.

 Poi venivano però cose più elaborate. Ad esempio Letizia di Spagna pare sia considerata antipaticissima, colei che ha fatto litigare l'affascinante principe Felipe (che non si spiegano davvero come abbia potuto sposarla) e il suo adorato cugino Pavlos, un nobile senza corona che vaga per le corti europee con moglie americana e milionaria al seguito. Ecco, su Letizia enorme croce sopra: è troppo borghese, poco elegante, scortese con la suocera (vera maestra di grazia, soprattutto nel gestire le corna).

 Molto amata è ovviamente la fu Grace Kelly, ma la sua nuora Charlene, altra controversa principessa, non è ben compresa e per risolvere la situazione, visto che Alberto non è charmant come Felipe, pare che la soluzione sia non ritenere il Principato di Monaco un regno vero e proprio, quindi insomma, se pure non hanno una principessa vera e propria un po' chissene (e comunque è meglio Caroline perché ha avuto il buon gusto di sposare un Hannover e diventare SAR).

 Tutte cose che insomma mi stupivano, ma fino a un certo punto. 

 Quello che però davvero a un certo punto mi ha fatto strabiliare sono stati la trascinante passione e l'adorante trasporto nei confronti di Carlo d'Inghilterra, un personaggio che nella mia vita ho sempre visto considerare debole e fondamentalmente inadatto al ruolo.

Preciso di non aver mai avuto una passione per Diana, (non ho mai avuto la passione per nessun reale), ed è morta quando ero ancora troppo giovane per capire le dinamiche di una coppia abbastanza complessa e sotto pressione, ma insomma, la storia di Carlo che la sposa per avere dei figli e intanto tiene stretta l'eterna amante al suo fianco, beh me la ricordavo bene.

 Comunque, mi sono detta, de gustibus non disputandum est. La bellezza non è tutto e che Carlo abbia un certo ascendente su gente che passa le sue giornate a disquisire di spille vittoriane non deve stupirmi, l'eccezione sono io. Il re è re e i monarchici amano i re, è lapalissiano.

 Però. Leggendo commenti e post alla fine ho capito una cosa: stavano riscrivendo la storia, o meglio, stavano scrivendo una loro convinta versione della storia recente dei reali inglesi.


 In questa versione della storia,
Carlo è un re in potenza meraviglioso, ecologista, moderno, ricco di idee e di charme. Purtroppo la lunga vita della sempre amata Elisabetta gli ha impedito finora di dimostrarlo, ma presto farà vedere a tutti di che pasta è fatto. Accanto avrà l'amata Camilla, su cui devo dire non si spendono mai particolari parole, (si tende a omettere che abbia dei figli ad esempio), se non che lo sostiene e lo ama come lui ha bisogno.

 Vabbeh, mi sono detta, alla fine tutti i rospi diventano principi a un certo punto, soprattutto quando alla fine hanno una corona in testa.

 La sorpresa però è stato il trattamento riservato a Diana. 

 Dell'amore a lei riservato alla sua morte e durante la sua breve vita non vi è traccia. Il meglio che possono dire, ma solo perché nonostante tutto non si può proprio negare, è che sia almeno stata una "madre esemplare".

 Per il resto è una cascata di: Diana era fragile, una personalità problematica, soffriva di una spasmodica ricerca di attenzioni, aveva bisogno di aiuto, aveva tradito il povero Carlo con mille amanti (pare che il fatto che Carlo ne abbia avuto una fissa annulli l'adulterio, pure se sei il capo della chiesa anglicana). 

 Insomma, usano tanti giri di parole, ma fondamentalmente, gira che ti rigira, il concetto è che era una pazza.

 Ho pensato varie volte se replicare che dare della pazza a una morta e sepolta da tempo e incapace di difendersi fosse il caso, ma è molto tempo che sono stufa di litigare su internet e ho sempre evitato di turbare i sonni di queste sciure e sciuri.

 Questi giorni però è uscito "The Crown 5" e ovviamente mi sono fiondata a vederlo. 

 Ebbene. La narrazione dei royal appassionat3 che leggevo su Instagram nelle serate pandemiche è diventata LA narrazione mainstream. Carlo è impersonato da un attore affascinante, charmant, sicuro di sé, una proiezione mistica di una persona che non è mai stata, ma che ora, essendo sul trono, evidentemente viene riscritta e sovrascritta.

 Siamo oltre ai dipinti migliorativi dei sovrani tramandati nei secoli, siamo al dipinto migliorativo in presa diretta.

 Nella fiction, Carlo diventa un homo novus, liberandosi di timidezze e incertezze dopo il divorzio con Diana (la regina dice proprio che sembra si sia "liberato"). Una teoria che risulta poco credibile anche se volessimo considerare "The Crown" come uno script senza fondamento reale visto che nella serie precedente il giovane Carlo (la cui gioventù arriva fino ai 40 anni almeno) è completamente diverso e dopotutto è stato sposato con Diana per tempo relativamente breve.

Diana, ovviamente, non essendoci più una controparte altrettanto problematica a giustificarne le azioni (come avveniva nella quarta serie) viene quindi dipinta come una mezza pazza dagli occhioni sempre sgranati, l'innamoramento compulsivo, la tristezza in tasca e nessuna ragione per essere paranoica. 

 Camilla appare, opportunamente senza figli e senza marito, silenziosa e sorridente, a fianco del futuro consorte, pronto a sostenerlo. 

 Quello che ho letto su Instagram è ora lì sullo schermo. 

 Sono rimasta discretamente sconcertata, ma poi, come accade spesso, la letteratura mi è venuta in aiuto. Io questa cosa l'avevo già letta e l'avete letta anche voi.

 Questa non è la trama della storia di Carlo, Diana e Camilla, questo è l'impianto sentimentale della trama di "Jane Eyre", preciso preciso.

 Nel libro, la bella, brava, buona e giusto un filino ribelle Jane conosce il presunto vedovo Mr Rochester che vive nel suo bel maniero nella brughiera. 

 Rochester ha un segreto e quel segreto è il motivo per cui non può sposarsi: ha una prima moglie che tiene in soffitta. La donna, un tempo bellissima, che ha sposato in Giamaica dopo averla vista appena una manciata di volte, è diventata pazza e incontrollabile e lui è costretto a tenerla in soffitta, guardata a vista da un'infermiera.

 Rochester definisce così il loro matrimonio:

"Fui abbagliato, i miei sensi furono eccitati, ed inesperto com'ero credei d'amarla. 
Non vi è nulla che trascini un uomo quanto le stupide rivalità della società, i desideri febbrili, l'accecamento giovanile. I parenti di Berta mi incoraggiavano, i competitori mi eccitavano l'amor proprio, lei stessa mi attirava a sé e così il matrimonio fu concluso prima che avessi tempo di riflettere. Quando penso a quell'atto non posso davvero stimarmi! Il disprezzo di me stesso mi assale e mi tortura! 
Non l'amavo, né stimavo e non avevo potuto conoscerla."

 Nonostante ciò, la donna, Bertha, è violenta, tenta di scappare e commette atti inconsulti, non ultimo il fatale incendio finale dove, molto opportunamente, perirà lasciando Rochester ferito, ma libero finalmente di sposarsi con la donna che ama.

 Il collegamento con Jane però non mi è venuto grazie a un mio (inesistente) amore per la letteratura inglese. 

 Semplicemente vedendo "The Crown 5" e la pessima scrittura della povera Diana mi è tornato alla mente il titolo di un libro che avevo visto citato nella nota di un qualche saggio femminista che avevo letto durante i primi anni di università.

 Il titolo era "The madwoman in the attic": la pazza nella soffitta.

 Si tratta di un saggio di critica femminista sulla narrativa vittoriana scritto da Sandra Gilbert e Susan Gubar nel 1966.

 Le due critiche descrivevano la polarizzazione, nella narrativa vittoriana opera di autrici donne, di due sole tipologie di personaggi femminili: l'angelo e il mostro, in contrapposizione tra loro.

 Una dicotomia funzionale ovviamente alla stereotipata visione femminile in un contesto patriarcale di cui le autrici, benché donne, non erano riuscite a liberarsi.

 Ma del resto sembra che non siano riusciti a farlo neanche gli autori di "The Crown" quasi 150 anni dopo.

 Diana è diventata la matta nella soffitta, sposata per sbaglio e perenne ingombro tra il Principe e il suo vero amore. 

 Camilla è un angelo, certo, un angelo stiracchiato, ma che con un po' di omissioni può essere considerato passabile in nome del suo amore imperituro e purificatore per il principe.

 E così "The Crown" ha incontrato le royal narrazioni uso instagram che hanno incontrato Jane Eyre e che, fondamentalmente, ricalcano uno schema talmente già visto che neanche ce ne accorgiamo.

 Il potere sa come dipingersi al suo meglio e la tendenza a dimenticare con estrema facilità degli esseri umani fa il resto.

 Così per una favoletta revisionista che imbelletti il nuovo re con regina consorte è bastato meno del previsto, del resto le donne sono ancora angeli o mostri, a seconda di come conviene al momento.

 La trama vittoriana regge ancora. Le mogli sposate per sbaglio muoiono ancora bruciate nella soffitta dei ricordi e i re regnano felici sul loro trono, come se non fossero mai esistite.


sabato 6 agosto 2022

Piccole recensioni tra amici! Quattro gialli dal Brasile all'Egitto passando per la Pennsylvania fino a Roma

  In questa estate troppo afosa, finalmente le vacanze stanno per giungere anche per me, anche se, fino all'ultimo sono preda di lavoro di disgraziato studio.

Non me la sono sentita di fare un post sui consigli estivi perché umanamente in una libreria non dell'usato non sono riuscita a fare un vero giro (tanto che avevo adocchiato un manga e ho dovuto mollarlo lì perché non avevo tempo di fare la fila in cassa).

 Tuttavia quest'anno, complice il fatto che il Lazio è provvisto di una costa, sono già andata al mare parecchie volte e ho avuto modo di leggere un bel po' di gialli.

 Ho pensato quindi che un post al riguardo, rubando tempo alle lezioni, potevo anche farlo!

 Unico avviso: nutrendomi ormai quasi solo di libri usati per ragioni economiche, ma anche solo urbanistiche (ne ho vicine due), i libri di cui vi narro non sono sempre reperibili in commercio, ma di certo in biblioteca sì!

 Buona letturaaaaa, e domani, per me, ultimo giro all'usato per il bottino da portare in vacanza!


POLVERE DI DIAMANTE di Ahmed Mourad ed. Marsilio:

 E' un giallo mooooolto strano questo di Ahmed Mourad Ambientato al Cairo, e ha come protagonista un giovane informatore farmaceutico, Taha, che vive da solo col vecchio padre invalido.

Un giorno, dopo uno screzio con una sorta di capo delinquente locale che cerca di estorcergli droga durante un turno notturno in farmacia, Taha torna a casa e trova suo padre assassinato.

 La storia sembra  inizialmente volerci condurre da una parte: chi ha ucciso il padre di Taha? 

 Invece la trama non ha un vero centro, ma si scompone in modo caleidoscopico tra molti personaggi: il commissario di polizia corrotto, il politico onnipresente sulla scena egiziana sin dalla caduta del re, la bella vicina di casa che sogna un Egitto più moderno e giusto, e un sistema di corruzione generale inquietante.

 Non so dirvi se lo abbia trovato un giallo piacevole, perché pur essendoci un'indagine, un colpevole e un ingegnoso metodo per l'omicidio (o gli omicidi) non sono davvero certa che sia un giallo.

 Racconta molte cose, con una morale per noi inquietante e perturbante: chi sono i cattivi? Ci sono cattivi? Alcuni omicidi sono meno gravi di altri? 

 Interessante la costruzione priva di centro e la trama cangiante in cui cattivi e buoni si mescolano continuamente, ma di certo non è un giallo da prendere a cuor leggero.


"BELLINI E GLI SPIRITI" di Tony Bellotto: 

 C'è tutto un filone di gialli scritti da uomini in cui i protagonisti sono PALESEMENTE una proiezione fantastica di ciò che questi uomini ambiscono ad essere: belli, pieni di donne che si spogliano al loro passaggio, intelligenti, virili, con un fisico prestante nonostante si ingozzino di cibo spazzatura e bevano come spugne.

 Bellini è esattamente tutto questo. Con un sacco di donne che si spogliano al suo passaggio, di ogni età e nazionalità mentre lui distrattamente indaga sulla morte di un avvocato spiritista assassinato durante una maratona, non si sa bene come (e neanche se sia stato davvero assassinato).

 L'ambientazione brasiliana è piacevole e insolita, e devo ammettere che gioca molto per me il fatto che il Brasile è il secondo posto extraeuropeo, dopo il Giappone, che mi attira di più.

 Affascinante anche il fatto che sia coinvolta la comunità dei migranti asiatici, un tratto poco conosciuto da noi europei, e in generale ammetto che trama è costruita abbastanza bene.

 L'unica cosa è che davvero, sto testosterone ambulante dopo un po' diventa eccessivo, e fa quasi rimpiangere quando i detective sublimavano nel cibo, di cui peraltro, purtroppo, si parla molto poco.

 Credo che comunque questo sia l'unico libro della serie di Tony Bellotto tradotto in Italia e sia abbastanza introvabile, visto che, oltre all'edizione in allegato coi gialli de La Repubblica, l'unica altra esistente era quella del Cavallo di Ferro (dalla cover a dir poco orrenda), casa editrice fallita anni fa.

Ps. Comunque mi è venuta ancora più voglia di andare in Brasile.


LA PAZIENZA DEL DIAVOLO di Roberto Cimpanelli ed. Marsilio/Feltrinelli:

 Vale per questo libro, il discorso di cui sopra: scrittore che infonde nel protagonista del suo giallo tutte le sue proiezioni fantastiche.

Al contrario del protagonista di Bellotto che comunque si muoveva in una trama che si faceva leggere volentieri e aveva quel tono ironico a reggere il tutto, qui siamo proprio nel campo del giallo trash.

 Siamo a Roma, dove inizia un'assurda scia di omicidi ai danni di efferati assassini e stupratori che non solo nessuno piange, ma che tutti sono un po' contenti vengano ammazzati. 

 Cosa che insomma, possiamo di certo aspettarci dall'opinione pubblica, ma lascia un po' perplessi che la polizia non indaghi a dovere, come sembra accadere durante tutto l'arco della storia.

 Ermanno d'Amore, ex poliziotto che a seguito di un crudo omicidio non risolto è rimasto traumatizzato decidendo di lasciare il lavoro e aprire una libreria, si trova coinvolto suo malgrado e inizia a indagare.

 La trama è piena di tutto: belle donne che cadono al suo passaggio, serial killer, complottismo all'italiana, depistaggi, quintalate di aggressioni e omicidi, assassini tipo Scream che non muoiono mai. Fino a un finale che se tagliavano le ultime trenta pagine era meglio.

 La storia è scorrevole, ma confusionaria, inverosimile anche per un thriller, piena di troppe cose e in cui davvero i personaggi femminili sono una presa in giro: tutte gnocche di qualsiasi età, tutte pronte a cadere ai piedi del sexy Ermanno, tutte che sembra nella vita non abbiano niente da fare se non pensare agli uomini (del resto le donne cosa vuoi che facciano nella vita?).

 Esistono molti altri gialli scritti in modo scorrevole MA con una trama valida. Leggete quelli.

 Un peccato perché fa parte della serie Feltrinelli dei due libri a 9,90.


"IL TEMPO DELLA VENDETTA" di Linda Castillo ed. Piemme:

 Non sono mai stata una grande amante dei crime all'americana perché li trovo molto violenti.

 C'è sempre molto spargimento si sangue, molta voglia di usare le pistole, un sacco di morti, tanta scena.

Sembra che se non muoiano almeno 3 o 4 persone non sia un giallo degno di questo nome, con buona pace dell'investigazione. E' una roba che se la fa Chandler ha un suo fascino da vecchia Hollywood hard boiled, ma dopo un po', come si dice, stucca.

 Senza il contorno alla Humphrey Bogart tutto diventa molto meno affascinante e molto più squallido, che è un po' in generale uno dei problemi dell'immaginario americano di adesso.

 "Il tempo della vendetta" di Linda Castillo non è che faccia eccezione. In 4 giorni si ammassano morti e feriti a tutto andare, il tutto condito da un sacco di pallottole. Però. Però almeno l'ambientazione è interessante: tra gli Amish della Pennsylvania.

 La protagonista, la detective Kate Burkholder è un'Amish che, una volta adulta, è uscita dalla comunità ed è diventata una poliziotta.

 La storia prende le mosse da un'anziana Amish uccisa brutalmente da qualcuno che ne ha anche rapito la nipotina disabile. Si innesca quindi una convulsa indagine che scava nel passato di una famiglia che appare innocua, ma che ovviamente sembra nascondere un oscuro segreto.

 E chi meglio di Kate può indagare nei meandri di una comunità chiusa e complessa da decifrare (sin dalla sua lingua: il tedesco della Pennsylvania??)?

 L'ambientazione e la penna felice della Castillo fanno andare oltre le immancabili americanate e questo giallo è proprio una tipica lettura da ombrellone al cardiopalma. 

Fa parte di una serie edita prima da Fanucci e poi da Piemme con la stessa protagonista e la stessa ambientazione che sembra promettere molto bene.

mercoledì 20 luglio 2022

La Dolcevita di Dolcemetà! "Roma nord"

 Per la serie "Sono viva e lotto insieme a voi", mi ricordo finalmente di postare una delle vignette della Dolcevita di Dolcemetà, le avventure di una nordica a Roma.

 Dolcemetà dopo due anni ha capito che i romani tocca seccarli con la battuta pronta.



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