E' un po' complicato
scrivere questa recensione su “Corpi minori”, secondo romanzo di
Jonathan Bazzi, astro nascente della narrativa italiana,
celebratissimo dopo lo splendido (a me piacque davvero tanto)
esordio, “Febbre”.
Tuttavia, sebbene tema,
vista l'interminabile ondata di recensioni lusinghiere, di attirarmi
gli strali di chiunque, ci tenevo a farla.
Quando scrissi la
recensione di “Febbre” ebbi l'impressione che il suo allora
editore, Fandango, non avesse ben capito la bomba che aveva tra le
mani e, nel tentativo (giusto a livello commerciale) di dargli
maggiori pezze di appoggio, avesse puntato a presentarlo come un
libro in cui si parlava anche della condizione contemporanea di
qualcuno che ha fatto coming out come sieropositivo.
In verità, come ormai
ben sappiamo, quel libro parlava di altro: una giovane vita con una
sensibilità altissima e un certo personale grado di inquietudine ed
eclitticità immersa in un contesto familiare e periferico che di
sensibile ed eclettico non aveva niente.
Ho come la sensazione
che anche “Corpi minori” sia un libro presentato (in realtà in
questo caso anche pensato) con un certo tema di fondo, ma che in
realtà sarebbe stato molto più efficace e sincero se si fosse
accorto di parlare di altro.
Sin dall'incipit che dal
titolo che dalla frase scelta su retro della copertina, si evince che
l'idea di fondo sia quella di presentare una sorta di educazione
sentimentale dell'autore/protagonista (essendo, anche questo un
memoir) nei confronti della persona amata e nei confronti di Milano.
In verità, il libro, a
mio parere è una grande occasione persa per parlare di qualcosa che
affiora e si prende continuamente la scena, in qualsiasi momento, e
che divora le varie storie sentimentali e i molti discorsi in cui l'autore si aggroviglia.
Dico questo, subito,
perché a me piace moltissimo come scrive Bazzi, ma non quando usa
molti lunghi periodi circonvoluti per giustificare azioni discutibili
agli occhi del lettore.
Non sta alla narrativa
essere accomodante, ma se ti esponi al giudizio poi non è scontato che io riesca a empatizzare perché qui e lì scodelli qualche
lunga dissertazione sui corpi desideranti.
I corpi desideranti non
sono comunque autorizzati a fagocitare le esistenze altrui.
Ma andiamo un po' oltre,
perché su questo, tornerò. Il vero tema del libro, quello che si
prende la scena è evidentemente MILANO.
Milano è una città
difficile da capire per chi non l'ha vissuta, come in verità tutte
le città.
Ma soprattutto è una
città difficile da capire per chi non l'ha vissuta senza avere soldi o
una famiglia dietro.
Lo dico con la massima cognizione di ogni causa.
Quando andai al nord, avevo letteralmente 500 euro in tasca, senza
aiuti, e ho vissuto numerose situazioni picaresche che ho rivisto con
una certa dose di empatia nel libro di Bazzi.
Premetto. Non ho mai
subaffittato niente a nessuno né mi sono mai permessa cose che il
mio ignobile stipendio di molti anni non mi abbia concesso di fare.
Lo sottolineo perché Milano è una città incredibilmente diversa, e
sottolineo INCREDIBILMENTE, per chi ha e non ha i soldi.
Non è solo questione di
affitto, è questione di opportunità.
Assai più di qualsiasi
città italiana, Milano è un posto dove qualcuno di brillante, pur
non essendo necessariamente figlio di qualcuno, può farcela. Questo
non significa che sia un paradiso meritocratico, anzi, l'alta
borghesia riserva sempre le giuste quantità di posti di lavoro sopra
una certa RAL ai propri rampolli. Lo fa in tutti i settori, dal
commercio all'editoria, dalle multinazionali al mondo culturale.
Diciamo che, vuoi perché
comunque si percepisce che i povery talentuosi possano essere un
valore aggiunto, vuoi che ci sia ancora adesso una disponibilità
lavorativa assai più elevata del resto d'Italia, ci sono molte
variabili impazzite. Io, lo ammetto sono stata una di queste (ho
svolto un lavoro che mai pensavo nella vita, ovviamente con un RAL da
povera perché poi bisognerebbe anche aprire una discussione su
questo, ma non qui).
La variabile impazzita
però non può essere presa come regola e cancellare tutte le persone
che, non potendosi permettere stage non pagati e master esosi, si
trovano a fare lavori malpagati vivendo in posti indecenti (ci ho
vissuto anche io), affittati a prezzi da strozzini da gente o fondi
immobiliari che posseggono interi palazzi.
Non può far dimenticare
il fatto che a Milano paghi tutto e paghi tutto tanto e che questo,
mi spiace, non sia giustificato da niente. Io sono anni che sono
inferocita con l'idea delle gabbie salariali perché non c'è nessun
motivo per cui uno stipendio del nord debba valere più di quello del
sud solo perché al nord si specula con maggior follia.
Sulla Milano
stratosferica e sbrilluccicante che tutto ha da offrire a chi viene
dalla sua periferia o dal resto d'Italia, ma solo se sei hai il cash
giusto, ci sarebbe da scrivere un libro di epica generazionale.
E, in
parte Bazzi sembra, qui e lì, che desiderasse quasi scriverlo.
Per qualche motivo però
ha deciso che no, il suo sarebbe stato un romanzo d'amore in cui
spiegava una cosa in verità non molto interessante: ho un fidanzato
bramatissimo, ma a un certo punto mi sembra di non amarlo più, cerco
di capire perché, in qualche modo lo capisco (anche se nel libro
onestamente non è molto chiaro cosa succeda a tal proposito) e via
come se non fosse mai successo niente.
Non voglio essere
brutale e non mi permetto di giudicare l'interiorità e il vissuto di
Bazzi, ma analizzo il modo in cui l'ha raccontato e in cui l'ho
percepito.
Il racconto
sull'emotività dell'autore, onestamente, non è che abbia fatto
grande breccia nel mio animo. La freddezza con cui liquida il povero
primo fidanzato che lo mantiene per anni, il modo feroce col quale
giudica praticamente tutti coloro che incontra, tentando di capire
quasi sempre come sfruttarlo al momento a suo vantaggio, il suo vagare per università proposto come inquietudine di vita e
morale non è che sia proprio la lettura più digeribile del mondo.
Il libro mostra un
autore che in parte, ripeto, si espone al giudizio altrui senza farsi
sconti, ma in parte sembra nascondere un approccio incredibilmente egoriferito dietro a contorti concetti filosofici rubati qui e lì da
insegnanti e autrici. Una citazione di De Monticelli o Stein è
inutile se il libro non riesce andare oltre a una superficie e questo
desiderio tra essere e apparire esplode anche a livello
universitario.
Posso studiare alla
Statale, ma perché non andare al San Raffaele? La scuola dei ricchi
milanesi, simbolo e status?
Il problema, in
generale, di tutto il libro, secondo me si esplicita proprio lì.
Bazzi non sembra avere non dico una coscienza politica o di classe,
perché mi rendo conto che sono termini desueti, ma una coscienza del
fatto che provenire da un ambiente sociale considerato minore è una
percezione che introiettiamo dagli altri, ma quando esci dall'adolescenza, deve
smetterla di essere un tuo problema.
Non c'è nulla da
dimostrare, nessun simulacro a cui aggrapparsi, nessuna università
cool da frequentare, nessun circolo di poetesse che fanno yoga e
sussurrano alle orecchie, o credulerie sulla cabbala assieme a Paola
e Chiara a cui aggrapparsi.
La Milano di adesso si
basa tanto su questo equivoco: l'idea che maggiore è lo splendore
sociale che puoi dimostrare, maggiore sarà il tuo valore.
Quindi la
laurea vale di più se è privata, sei più giusto se fai un lavoro
fighissimo pagato una miseria e non il commesso da Zara con uno
stipendio da CCNL del commercio, lo psicologo che ti cura è bravo
solo se lo paghi tanto.
Non c'è valore
oggettivo della persona, c'è il valore che quella persona può
mettere sul piatto perché tutti lo ammirino. Partendo da questo
presupposto, è ovvio che non si possa mai uscire dall'idea che
comunque i natali te li ha dati la temibile Rozzano.
Ed è proprio per questo
motivo, credo, immagino, Bazzi non sia riuscito a scrivere un
racconto picaresco sulla Milano brillante e feroce di adesso. Un
enorme circo dove puoi ambire a tutto, ma il tuo valore è deciso, se
non dalla famiglia, dal cash, e se non dal cash dai posti che
frequenti, le persone che conosci, i circoli esclusivi dove bazzichi.
Ed è, sottolineo,
un'epica oscura della città che ha radici profonde. Se si legge
Bianciardi, Milano è sempre stata così: pronta a ingoiare i suoi
abitanti non integrati, a succhiarne lo spirito dopo avergli offerto
opportunità che altrove sarebbero impossibili. Non puoi vivere da
nessun'altra parte, ma se ci vivi, se non stai molto attento, ne
vieni spolpato.
Ma Bianciardi aveva una
coscienza di sé, di ciò che era rispetto a Milano, del rancore e
della riconoscenza che le portava, del dolore che questa città gli
infliggeva e della riconoscenza che le doveva, che Bazzi non sembra
neanche lontanamente contemplare.
Milano è il posto dei
sogni, un parco giochi che però caspita costa e allora troviamo un
pollo a cui affibbiare quasi tutto l'affitto, della scuola privata da
fare anche senza i soldi per farla, della voglia di viverci, ma di
lavorare anche no, di mollare l'affitto non pagato ai coinquilini e
di schifarli pure anni dopo.
Cosa c'è oltre al corpo desiderante che
desidera e fagocita e pretende e fagocita in nome di un passato di
svantaggio che pone in perenne condizione di risarcimento sociale?
Cosa c'è oltre alla
citazione filosofica, se poi la città (e quello che ti fa) non
riesci a vederla?
Mi spiace, ma il libro, pur scritto davvero bene, per me è un'occasione mancata. Il memoir è un genere che dovrebbe andare oltre alla pirandelliana visione della realtà, raccontarci qualcosa anche di noi, cosa che in "Febbre" succedeva.
In "Corpi minori", personalmente, questa astrazione almeno io non l'ho avuta e, onestamente, le recensioni basate sullo sguardo borghese che gioisce del giovane autore che viene dalla periferia (consiglierei sul tema la lettura di quel capolavoro che sono le pochissime pagine autobiografiche di Scerbanenco), mi sembrano solo una conferma della mia sensazione generale.