mercoledì 30 maggio 2018

Né ribelli né eccezionali. L'adolescenza delle femmine che la narrativa non sa raccontare. Una recensione di "Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano".

 E' il primo giorno di scuola delle superiori.

 Io ho i capelli tagliati come Fantaghirò grazie a un parrucchiere dove mia madre amava portarmi contro ogni buonsenso, i pantaloni della tuta (adidas, me l'ero meritata come premio spasmodicamente richiesto per l'esame di terza media) e sopra, con orrore, una camicia (che da quel giorno in poi non avrei mai più messo, mai più, non le sopporto).
Ad una festa scout, assieme alla mia squadriglia, ci vestimmo da Spice Girl.
Io ovviamente ero Sporty Spice.

 Il professore di ginnastica ci sta mostrando i campetti da calcio, in puro asfalto, nel cortile della scuola.

 Guardo le mie compagne, quasi tutte femmine, e mi soffermo su Tara Teresini (nome cambiato opportunatamente) che ha, ai piedi, dei sandali col tacco. 

E' lo shock. 

Un tale shock che ancora me lo ricordo.

 Di colpo mi rendo conto che attorno a me ci sono ragazzine in tuta e aria rincoglionita, mie simili, e altre che hanno ben altro sguardo, quello di chi non è più alle medie, ma davvero alle superiori.

 Durante la ricreazione, la suddetta Tara, svela a un pubblico entusiasta che pochi giorni prima è stata agli MTV music awards a Milano con la sorella maggiore.
 Lo shock aumenta visto che a stento io riesco a convincere i miei a farmi andare ai pernottamenti degli scout.

 Nei giorni successivi rimango in classe a mangiare pizzette assieme alle mie simili che ancora sono con la mente alla terza media, in primis la mia compagna di banco, Antea, che fino alla fine delle superiori combatterà la sua battaglia contro il girovita (niente anoressia, proprio ciccia che non voleva sapere di andarsene).

 Fuori, quattordicenni e diciannovenni si mescolano nel cortile della scuola, fumando sotto gli alberi, prendendo appuntamenti, sparlando dei professori e immaginando di infilargli lo zucchero nel radiatore (che, immagino, la metà di noi non sapesse neanche cosa fosse).

 Il mio cervello rimugina e rimugina, lo shock è stato intenso, ma salutare e di colpo vedo tutto con occhi nuovi e tiro fuori allora quella che ritengo forse il mio maggiore e unico pregio: se ti buttano in acqua alta e non sai nuotare, DEVI nuotare per forza.

 Come diceva Yoda: fare o non fare, non c'è provare.

 Così, qualche settimana dopo mi presento al gruppo di teatro della scuola, dove tutti mi sembrano bravissimi e fighissimi, pronti alla serata dell'oscar. Ma questa, è un'altra storia.

 La narrazione dell'adolescenza è sempre molto maschiocentrica.

 Le avventure le vivono solo i maschi, le pulsioni erotiche le vivono solo i maschi, il senso di solidarietà o d'amicizia lo vivono solo i maschi.

 Quando a viverle sono delle ragazze, a meno che non si stia parlando specificatamente di libri per un pubblico di adolescenti (che sono un altro mondo), c'è sempre qualcosa di oscuro o di patologico o di eccezionale.

 Le pulsioni erotiche non sono mai circostanziate e fuggevoli, ma devono riguardare la persona più importante della propria vita (nel bene, stile "grande amore forever", e nel male, stile "causa di tutti i miei mali forever"). L'idea che uno possa piacere così, random, pare sconveniente.

 Le amicizie sono sempre importantissime o devastantissime, i genitori o danno una libertà sconvolgente (e di solito deleteria) oppure sono gigaoppressivi.

 E anche queste ragazze protagoniste sono comunque un unicum, speciali, che hanno le forze di rompere qualche catena oscura che le blocca.

 Di certo è anacronistico descrivere una ragazzetta del medioevo (anche se la Pitzorno, per dire, c'è riuscita e in modo molto convincente ne "La bambina col falcone") con una determinata carrellata di emozioni, quando la cosa principale che l'aspettava erano figli a tredici anni o convento.

 Tuttavia mi pare altrettanto anacronistico rendere in modo polarizzato ed estremo le sensazioni e le vite di ragazzine contemporanee.

 Insomma, esistono, ma sono una piccola fetta le adolescenti eccezionali, per il resto, orde di ragazzine normali sciamano per le strade, come in realtà già ci sciamavano negli anni '80 da che abbia memoria.

 Aver quindi scelto di parlare di un frammento che nessuno sembra interessato a raccontare agli over 16, ossia il mondo delle ragazze oltre lo stereotipo, è, secondo me, il maggior pregio del fumetto di Eleonora Antonioni e Francesca Ruggiero: "Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano" ed. Eris.

 Nelle tre storie si raccontano tre episodi di altrettanti ragazzine di (si suppone) III media/I liceo.

 Quel magmatico momento che non deve essere per forza traumatico o rivelatore di chissà quali epifanie per il futuro, ma porta comunque tasselli importanti per le persone che ci avvieremo a diventare.

 Il primo episodio, quello di Giulia, racconta l'amicizia improvvisa e dettata in verità dal capriccio, di una ragazzina che vorrebbe uscire dal guscio ormai troppo stretto dell'infanzia prolungata e le sue compagne di classe più carine e spigliate.

 E' una tipica dinamica da scuole medie che di solito esplode nel primo anno di liceo: qualcuna, rimasta indietro per motivi vari scopre di colpo che il mondo là fuori è vasto e qualcuno è già un pezzo avanti.

 Tocca recuperare! E anche di corsa! 

 E allora via vestiti che in realtà già non piacciono da un pezzo, evviva la nuova musica che appare bellissima anche se anni dopo ti rendi conto che era una porcheria, evviva le nuove amicizie, anche se alla fine non sono quelle della vita e fanno male, evviva scoprire che i ragazzi (o le ragazze) iniziano a piacerti e non solo come amici.

 Si fanno passi buoni e passi falsi, ma almeno hai cominciato a camminare e a sbaciucchiare anche qualcuno (se ti va).

 Il secondo episodio è forse quello che mi è piaciuto di più perché si svolge in una manciata di giorni che, a parte altre rare occasioni nella vita, hanno una particolare intensità solo quando sei un teen e il tempo sembra riuscire, misteriosamente, a dilatarsi all'infinito.

Anna è una ragazzina che ha principalmente amici maschi, ama le tute e le felpe (ma essendo la storia ambientata negli anni '90 era forse il principale vestiario di tutte noi) e un giorno conosce Marilena

 Nell'arco di tre giorni Anna vive, assieme a lei, una serie di piccole e grandi trasgressioni: accompagna Marilena a farsi un piercing (sulle note di "Crazy" degli Aerosmith, a ripensarci il modo in cui trovavo gnocca Liv Tyler non era proprio solo ammirazione), marinano la scuola, spiano le ragazze del primo racconto che spiano i ragazzi e si baciano, romanticamente, in una vasca.

 Al terzo giorno Marilena svela la sua faccia reale, quella di una ragazzina ambigua e manipolatrice (che, oscuramente, tenta di attirare l'attenzione di una famiglia assente).
 Anna, che invece è all'apice dell'emozione per quella nuova straordinaria relazione e che forse, forse, si sta innamorando di lei, rimane con un pugno di mosche in mano e il cuore spezzato.

 La terza storia ha per protagonista una ragazzina molto sportiva e un po' introversa, Clarice, ed è forse quella che mi è piaciuta meno perché rappresenta in modo troppo schematico il conflitto tra le aspirazioni dei figli e la mania dei genitori di mettere bocca a oltranza sulle loro vite, anche in modo deleterio.

 Certo, quando cresci, ti rendi conto che davvero i tuoi spesso avevano ragione e avresti capito solo da grande, ma altre volte avevano genuinamente torto.

 E forse avrei gradito maggiormente questo tipo di ambiguità perché nella storia è davvero troppo evidente che la madre della terza ragazzina sia da defenestrare (metaforicamente).

 Ma è l'unica pecca di questa bella graphic che rende finalmente giustizia alle ragazzine che siamo state, non sante, non peccatrici, non attaccate spasmodicamente al grande amore della vita e neanche irrimediabilmente ferite nel profondo.

 Eravamo ragazzine normali che amavano le Spice, i Backstreet Boys, litigavamo coi genitori, sognavamo di andare alle superiori come se chissà quale segreto ci sarebbe stato rivelato, le amicizie si susseguivano velocissime ed erano intense come amori, e gli amori nascevano e morivano in poche settimane, com'è giusto che debba essere a tredici, quattordici, quindici e passa anni.

 Rivendichiamo la nostra adolescenza, ci meritiamo di riviverla, nei libri, spaventosa e bellissima (lo so, non tutta, ho alcuni pessimi e odiosi ricordi anche io, che se tornassi indietro ceffonerei almeno una decina di persone), com'è stata e non il solito luogo di un immaginario finto che non appartiene a nessuno di cui traboccano troppi libri.

domenica 27 maggio 2018

"50 sfumature di rosso" parte II!! Il fumettoso riassunto nel quale scoprirete azione, pathos, anticoncezionali e vendettah!

 Volevo rimandare questo fumetto a domattina, ma visti i rivolgimenti della giornata, sono abbastanza nervosa e quindi forse è meglio che io e voi ci distraiamo (ed evito di continuare a litigare con mezzo mondo sui social che serve solo a farmi innervosire peggio).

 Che pessime giornate stiamo vivendo. PESSIME.

 Godetevi la seconda parte del fumettoso riassunto di  "50 sfumature di rosso. Parte II"!

 Qui il link alla prima -----> "50 sfumature di rosso. Parte I"





sabato 26 maggio 2018

"50 sfumature di rosso" parte I! L'inedita ultima fumettosa parte della trilogia di fuego che ha sconvolto le donne di tutto il mondo (me ne tiro fuori).

 Chiunque mi segua su fb sa che in questi giorni ho lanciato una sorta di sondaggio premio.

 Visto che sono mesi che latito causa saggio eppur non mi avete abbandonato, ho deciso di postare uno dei fumetti inediti contenuti in "Quanti dolori, giovane libraia!".

 Tra "La libreria al tempo dei complotti" e "50 sfumature di rosso" ha vinto il secondo e ve lo spiattellerò in due tranche, una oggi e una domattina!

 Nel frattempo ne approfitto per fare pubblicità e ricordarvi che comunque "Quanti dolori, giovane libraia!", 001 edizioni, vi aspetta ancora pasciuto e pieno di beltà, in libreria!

Bando alle ciance "50 sfumature di rosso. Parte I"!





giovedì 24 maggio 2018

Grandi cambiamenti (tra un po' di mesi non preoccupatevi)! Il blog digievolverà in sito!

Come se mi fossi svegliata da un lungo sonno post preparazione del saggio (che comunque non ho del tutto terminato e manca ancora l'editing), mi sembra che il mondo si sia improvvisamente riempito di bookblogger.

 Anche quest'anno al salone di Torino c'erano incontri coi bookblogger come se piovesse, quando solo due anni andavi di stand in stand e se dicevi "Ho un blog" ti guardavano come se dicessi "Rubo la pensione alle vecchiette".

 Insomma il mondo si evolve e anche io vorrei cercare di non rimanere indietro, motivo per il quale, col valoroso aiuto del fidanzato della sorella YA sto approntando tutto per migrare su un sito vero e si spera migliore.

 Niente paura, si parla di mesi perché col saggio da finire e l'unione civile che si avvicina, il tempo non è mai abbastanza.
 Ce la farò!



mercoledì 23 maggio 2018

Mai sottovalutare il potere delle fiabe. "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella, una favola tra lo spauracchio degli stranieri, la lotta di classe, la nostra mancanza di coraggio e la vigliacca connivenza coi padroni che ci ucciderà.

 Uno spettro si aggira per le librerie: lo spettro delle estati dei preadolescenti.

 E' uno dei temi dell'anno. "Stranger things" e una certa retrotopia data dall'angoscia dei tempi presenti, hanno contribuito a rendere le dense estati dei preadolescenti uno dei dei topoi preferiti della narrativa o forse dell'editoria del 2018.

 Ricordi di estate dei bei tempi andati, meglio ancora se comprese tra gli anni '60 e '80 (prima si era troppo poveri, dopo ancora troppo giovani per la nostalgia) sono la materia stessa di cui sono fatte ormai decine di trame.

 In verità, forse, di tutte le mode editoriali possibili, questa è una di quelle che incontra maggiormente il mio favore, anche se, purtroppo, i protagonisti sono quasi sempre maschi che scoprono quanto la vita adulta possa essere bella (uuuuh il sesso, le donne, urrà) o brutta (quelli che tre anni prima giocavano a nascondino con te, tre anni dopo ti tiranneggiano e indicativamente andrà così per il resto dell'esistenza).

  Le femmine guardano ai bordi di periferia o al massimo si aggirano solitarie perché qualche genitore volenteroso si è dimenticato di rinchiuderle.

 In questa vasta produzione, spicca "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella che avevo inizialmente percepito come ennesima storia di sud e preadolescenza in un passato imprecisato.
 E invece ho scoperto nelle due serate velocissime in cui il libro si è lasciato agilmente leggere che Catozzella non si era allontanato dal tema del suo successo precedente: "Non dirmi che hai paura".

 Voglio essere sincera, anche perché altrimenti le recensioni se è sempre tutto bello non hanno senso (invidio molto i blogger che incontrano solo e ininterrottamente libri che trovano fenomenali), "Non dirmi che hai paura" non mi piacque.

 E' uno di quei libri a cui calza a pennello la dicitura "necessario" perché è in effetti tale.

 Uno di quei libri che è necessario qualcuno scriva in un determinato momento perché raccontino una frazione di realtà che non possiamo e dobbiamo ignorare, ma l'ho trovato, pur con tutte le sue ottime intenzioni, molto didascalico.

 Da un certo punto di vista non poteva essere in altro modo, quando si racconta la vita di altri, morti in tragiche circostanze, come accadde a Samia, l'atleta somala protagonista del libro, c'è sempre una dose di responsabilità che non lascia grande spazio all'improvvisazione.

 Questo "E tu splendi" parla anch'esso di immigrazione, ma lo fa con un'intuizione incredibilmente più riuscita.

 Cosa determina il successo delle trame "preadolescenza nostalgica degli anni '60-'80"? A mio parere, l'archetipale cornice della favole dei bei tempi andati. 

 Non stiamo parlando di un mondo che è esistito davvero, ma di quello che a molti piace ricordare (o ad altri, più giovani, tipo me, piace dire sia esistito tanto non possiamo replicare).

 I tempi favolosi in cui stavamo tutti bene, la mamma ci coccolava, dovevamo solo andare a scuola e passavamo le estati per campi a rincorrerci con gli amici senza telefonini di mezzo? 
 Questo è quello che Catozzella ci dà: prende la moderna cornice delle favole per adulti e le piega alle sue ragioni.

 Il protagonista, Pietro è un ragazzino di Milano, figlio di immigrati lucani, che ha da poco perso la mamma, è stato bocciato anche a causa di una scuola poco sensibile ai problemi personali dei ragazzini (tendiamo a rimuovere, ma un tempo la scuola era molto più pane al pane vino al vino), e viene spedito da un padre neodisoccupato a passare l'estate dai nonni in Basilicata assieme alla sorellina.

 Lì si prospetta un'estate abbastanza identica a tutte le altre: giochi con gli amici, prove di coraggio contro leggendarie creature del folklore, interminabili pomeriggi nella bottega della nonna, l'unico negozio del paese.

 In realtà il paese siede da almeno una ventina di anni su una sorta di polveriera emotiva. 

 Una sorta di piccolo boss locale, zì Rocco, tornato dalla Germania, aveva avvelenato tutti i terreni che non era riuscito ad acquistare, portando i contadini concorrenti alla fame.

 Nessuno ha le prove (e sembra averle mai effettivamente cercate, in un clima di perversa connivenza, come si vede avanti nel libro), ma nessuno ha dimenticato anche perché zi Rocco aveva poi comprato le terre avvelenate per due lire e da allora spadroneggiava dando lavoro malpagato ai tre quarti del paese.

 Durante una delle sue sortite pomeridiane con gli amici, Pietro scopre in una vecchia torre abbandonata, una famiglia di stranieri

 Durante la storia non si specifica da dove vengano e da cosa scappino, proprio come nelle fiabe hanno un ruolo archetipale: "Lo straniero".

 Le dinamiche che questa scoperta scatenano da quel momento una serie di reazioni che riproducono in piccolo ciò che l'Italia intera vive in grande. 

 Il ragionamento però fila in modo sotterraneo, ma preciso: quando il problema viaggia sopra di noi, portato di bocca in bocca da giornali che inseguono l'allarmismo, fomentato da politici che mirano solo a scatenare il panico per tornaconto personale, è difficile averne una reale percezione.

 Mettendo un gruppo di stranieri in una piccola realtà, chiusa, impoverita, livorosa (e priva del coraggio necessario a rialzarsi) è più semplice vedere la grande falla del sistema: la facilità con cui addossiamo a chi è più debole o percepite come diverse problemi che con loro non hanno niente a che spartire.

 Il paese si riunisce perciò per un'improbabile spartizione degli immigrati che qualcuno deve offrirsi di ospitare. 

 Finisce che le donne vanno a fare le pulizie da gente ricca, il ragazzino viene preso in casa da un anziano solo e gli uomini finiscono da zì Rocco.

 Ecco, il pezzo di zì Rocco è forse quello più delicatamente interessante perché rappresenta il grande equivoco di tutto il caos odierno: la guerra tra poveri invece della guerra tra ricchi.

 La lotta di classe è finita, diceva un saggio, perché qualcuno l'ha vinta, e quel qualcuno sono i ricchi sempre più ricchi che hanno sabotato ciò che Marx aveva capito benissimo: i lavoratori di tutto il mondo devono unirsi, altrimenti sono formiche che chiunque può schiacciare o che, peggio, finiscono per uccidersi tra loro.

 Ed è quel che accade in paese: Zì Rocco prende in casa i tre uomini stranieri del gruppo, guadagnandosi il plauso di un intero paese che tre secondi prima stava per linciare il barista solo per aver offerto loro dell'acqua ("Sono tutti pazzi" pensa sensatamente Pietro).

 Li prende non per carità, ma per metterli a lavorare per un tozzo di pane nelle sue terre, approfittandone al contempo per abbassare il salario a tutti.

 Ovviamente, come accade in quest'epoca confusa e frammentata, invece di battersi per far avere una paga adeguata anche agli stranieri e stroncare in tal modo la faccenda, ci si concentra sul linciaggio degli stessi, presi in una morsa incomprensibile: sfruttati, odiati, inseguiti e perseguiti, mentre il padrone ingrassa, circondato da scagnozzi e da istituzioni che invece di inchiodarlo, lo favoriscono (il pezzo col tizio dell'unione europea è interessante, ma lasciato un po' cadere nel vuoto).

 Alla fine della storia, che non dico come finisce, la sensazione è la stessa, disturbante di alcune favole che colpiscono nel segno con una potenza che romanzi arzigogolati e pretenziosi non riescono ad avere.

 Quale racconto più de "I vestiti nuovi dell'imperatore" riesce a raccontare l'ipocrisia del potere e la piaggeria vigliacca di chi riesce a essere solo suddito oltre ogni ragionevolezza?

 E dire che "E tu splendi" sia una fiaba non vuol dire perciò sminuirlo, al contrario, non bisogna mai sottovalutare il potere primordiale delle fiabe.

lunedì 21 maggio 2018

Sii responsabile e sii felice. "Our little sister" di Akimi Yoshida, un manga che non ci si stancherebbe mai di leggere tra nostalgia, amarezza e sorellanza.

 In questi lunghi mesi di reclusione scrittoria, nei quali, oltre a lavorare, non ho fatto altro che studiare, cercare di non perdere le redini del blog e organizzare l'unione civile, credo di aver riletto non meno di cento volte gli unici (molto purtroppo) numeri di un bellissimo manga: "Our little sister" di Akimi Yoshida.

 I manga, parliamone, perché molti so che al solo leggere questa parola chiuderanno la recensione in attesa che torni a dedicarmi a cose più di concetto (ho una buona notizia: ho quasi terminato la parte grossa del lavorone del saggio, quindi tornerò a postare di più), vengono in verità ignobilmente sottovalutati.

 In realtà, considerando la qualità media di quello che viene tradotto in Italia, ossia quasi solo storielle d'amore tra adolescenti e gente che si mena a sangue (o un featuring di entrambe le cose) per vari motivi, non c'è da stupirsi che da fuori appaiano come qualcosa dall'incomprensibile successo.

  Tuttavia, al netto del trash e del troppo mieloso, del violento che Tarantino te dico fermete e del pornazzo, da vecchia lettrice di manga assicuro che oltre l'incomprensione c'è di più.

 Avevo anzi già parlato del rapporto tra narrativa giapponese attuale e manga (nel post "Forse non tutti sanno cos'è una light novel") e chiunque abbia letto "Kitchen" di Banana Yoshimoto almeno una volta nella vita conosce la breve postfazione sul tema di Giorgio Amitrano inserito sul finale.

 I manga, anche quelli più verosimili, hanno regole loro che "aggiustano" in qualche modo la realtà. 

 Se c'è bisogno che la storia preveda qualche lato assurdo, qualche personaggio improbabile e qualche coincidenza o situazione ai limiti della realtà, il manga non ha assolutamente problemi in questo senso: lo fa accadere, contro ogni buon senso.

 E' qualcosa di diverso dai romanzi un po' surreali all'occidentale perché di surreale, in verità, c'è poco intento. Tutto è funzionale per una trama che deve arrivare ad un determinato scopo.

 "Our little sister - Diario di Kamakura" ed. Star Comics in questo senso rispetta la regola.

 La trama di base è abbastanza semplice: alla notizia della morte del padre, tre sorelle, Sachi, Yoshino e Chika, di età tra i 30 e i 20 anni, che vivono insieme nella vecchia casa della donna defunta in una località di mare a sud di Tokyo, partono per andare al funerale.

 Non vedono il padre da una dozzina di anni, quando se ne andò con un'altra donna (mentre la madre attese un paio di anni prima di risposarsi e lasciarle coi nonni per trasferirsi altrove senza quasi mai tornare) e per loro è principalmente una formalità.

 Una volta sul posto, conoscono Suzu, la sorellastra che il padre ha avuto dalla seconda moglie, morta anch'essa da poco (sì, esattamente come nei romanzi, anche nei manga c'è un tasso di mortalità altissimo).

 Ricapitolando: Suzu è orfana di entrambi i genitori e le altre tre è come se lo fossero.

 Poiché in Giappone prendono alcune faccende molto seriamente, la famiglia della madre di Suzu si guarda bene dal farsi viva, avendo rotto i rapporti anni prima, quando la figlia aveva sposato un uomo che per lei aveva lasciato moglie e tre bambine.

 Suzu perciò è completamente sola e quando le tre sorelle, in un impeto di empatia, le chiedono se vuole andare a vivere con loro, accetta immediatamente.

 Potrebbe essere la madre di tutte le tragedie e un'infinita sequela di imbarazzi e recriminazioni,  e, diciamocelo, l'inizio di una telenovela sudamericana, invece la serie, che si sviluppa in un arco di tre anni, ha qualcosa di magico.

 Con una lenta quotidianità scandita da problemi scolastici, amori, amicizie, rituali familiari, doveri e delicati equilibri, le quattro sorelle diventano una famiglia e ognuna di loro trova il proprio posto nella vita.

 Non succede nulla di particolare eppure si potrebbe rileggere all'infinito, senza mai stancarsi. Perché?

 Ci sono a mio parere due motivi.

 Il primo è che tutti pensano, continuamente e non è una cosa così scontata.

 Nelle graphic e nei fumetti occidentali si pensa infinitamente meno e si agisce molto di più.
 Non solo, i ragionamenti dei personaggi sono spesso quasi una versione telefonata dell'azione: "Ah devo fare questo, sì lo farò", col risultato che i tre quarti della volte pensi che l'autore potrebbe anche risparmiarselo.

 In altri casi, invece, la graphic racconta dilemmi interiori di qualche genere rischiando fortemente l'effetto psicanalisi, nei quali i personaggi, invece di seguire un determinato ragionamento, anche a vuoto, finiscono per autoanalizzarsi in modo pedante e ossessivo (una cosa che se funziona nei romanzi, a mio parere, nelle graphic, è inutile e appesantisce).

 In "Our little sister", come in moltissimi manga, i personaggi pensano e quel quel pensiero è parte stessa della trama.

 Oltre alla situazione familiare particolare delle sorelle, anche i personaggi attorno vivono una serie di situazione allo stesso tempo straordinarie e quotidiane: malattie, beghe familiari, tradimenti amorosi, vecchi rancori, situazioni mai davvero risolte.

 Tutto va troppo veloce o sembra troppo concitato o perennemente in allarme per essere meritevole di una riflessione. 

 In questo manga invece la riflessione rappresenta più della metà del contenuto effettivo ed è un qualcosa di affascinante per un adulto, figurarsi per un ragazzino che generalmente ha un tumulto in cui mettere un grande ordine dentro di sè.

 Il secondo motivo per il quale questo manga è bellissimo è che condanna fermamente chiunque rifugga le proprie responsabilità.

 Le quattro sorelle e i loro amici sono estremamente protesi nell'essere responsabili e si angosciano quando non riescono fino in fondo o il loro comportamento può causare un qualche danno ad altri.

 Anche per questo le figure di molti adulti sono quelle più negative (anche se gli si concedono le umane attenuanti): la madre che arriva a voler vendere la casa delle figlie per ristrutturare la sua, il fratello di uno dei personaggi che riappare dal passato a pretendere un'eredità, la terza moglie del padre incapace persino di presenziare alla cerimonia funebre e subito risposata con un altro uomo.

 Le quattro sorelle sono così ossessionate dalla responsabilità perché hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze del "pensare solo a sé stessi".

 In una società che disprezza la collettività e vede gli altri solo in una funzione di opportunismo o quali parassiti (a seconda del bisogno), che invita a mettere i propri desideri davanti a tutti, è un messaggio stranamente affascinante e potente.

 Quanto tempo sprechiamo ad arrabbiarci per questioni di principio che non portano a niente?
Quanto altro ne gettiamo perché siamo profondamente incapaci di affrontare le nostre debolezze preferendo addossare la colpa agli altri? Cosa sarebbe delle vite di tutti se imparassimo ad essere responsabili?

 E' come un bicchiere d'acqua fresca in questo deserto di frustrazione e odio sociale in cui nessuno appare più responsabile di nulla e le attenuanti generiche le meritano solo alcuni, quelli che proprio non ne hanno bisogno e scaricano il peso delle loro misere azioni sul prossimo.

 Non smetterei mai di leggere questo meraviglioso manga e mi spingo a dire che queste sono le due maggior fonti di fascinazione del genere: il pensiero e un forte senso del dovere.

 Due cose che sembrano diventate fantascienza.



Ps. Esiste anche un film, vincitore a Cannes, tratto da questo fumetto, "Little sister". L'ho comprato, visto e trovato molto tristanzuolo. 

 Mentre il fumetto, pur raccontando vicende complesse e situazioni drammatiche, non perde mai una certa allegria, il film è lento, triste e noiosetto.

 Nel grigiume molto serioso, non ha colto assolutamente il punto focale della storia: la vita è un susseguirsi di momenti difficili e altri più semplici, imparare a vedere sempre il lato migliore è l'unica via per essere felici.

giovedì 17 maggio 2018

"Di coserie e di altre sciocchezze", un fumetto a base di piantine aromatiche, Pinterest, antichi vasi, Tiger e siti tedeschi che si fanno pagare in yen.

Finalmente sono riuscita a concludere un fumetto sulla preparazione dell'unione civile a cui tenevo molto: quello sulle infinite coserie e decorazioni che fanno atmosfera e portano via una quantità industriale di tempo.

 Non so ormai quante serate ho passato a scartabellare il web (e quante ancora ne passerò). Immagino che poi ci ripenserò con nostalgia.

 Bando alle ciance, ecco a voi il fumetto: "Di coserie e di altre sciocchezze"!










lunedì 14 maggio 2018

Colui che combatte i mostri deve stare molto attento. "La mia cosa preferita sono i mostri" di Emil Ferris, un graphic meravigliosa sui mostri buoni e quelli cattivi che si nascondo nelle oscure tenebre dentro di noi.

  Uno dei grandi equivoci del nostro tempo è l'incomprensibile pretesa di sentirsi straordinari rimanendo però, allo stesso tempo, normali.

 Si vuole giungere ad uno status di specialità senza capire che esso ha un prezzo che la stragrande maggioranza delle volte non siamo disposti a pagare.

 Chi è davvero straordinario, e non mi attengo al significato positivo e luminoso del termine, è considerato con sospetto dalla comunità, è qualcuno che è venuto in terra a miracol monstrare, ma di solito, più che come un miracolo viene percepito come un mostro.

 Questo grande smascheramento della nostro misero attaccamento morboso alla normalità, è benissimo espresso in un libro, una graphic novel, uscita un mesetto fa e che mi sento di consigliare come uno dei MUST HAVE non dell'anno, ma nella vita: "La mia cosa preferita sono i mostri".

 Mi spingo a tanto perché si focalizza molto bene, in questa graphic, il prezzo da pagare per essere speciali e cosa avviene, soprattutto, quando sei davvero STRA-ordinario, ossia fuori dalla norma e dall'ordinario, qualcuno che eccede, in un qualche modo o per qualche motivo, i limiti della normalità. 

 Molte recensioni si sono concentrate sulla peculiare biografia di Emil Ferris facendone il punto focale quando invece è interessante principalmente per spiegarne lo stile.

  "La mia cosa preferita sono i mostri" è la sua prima graphic e l'autrice non è proprio un virgulto avendo costei una cinquantina di anni.

 La necessità di scrivere una storia di questo genere, molto lunga e interamente disegnata con le penne biro, è nata dopo aver avuto le peggiori conseguenze possibili dalla puntura di una zanzara che, nel bel mezzo degli stati uniti, le ha passato il virus del Nilo occidentale.

 Solitamente decorre, pare, con una febbriciattola, ma di tanto in tanto ha conseguenze ben peggiori quali la morte o neurologiche, come nel caso della Ferris che si sveglia paralizzata dalla vita in giù e con la mano destra, quella con cui disegnava (era già un'illustratrice e una designer) bloccata.

 Nel disperato tentativo di recuperare la mobilità della mano, la Ferris si lancia in un'incessante e titanica lotta contro questa gigantesca graphic dalla quale si avverte, in effetti, uno strano tipo di energia, tumultuosa, quasi feroce.

 Altre recensioni si sono concentrate sulla parte più ovvia: i mostri, senza però davvero capire il problema.

 La storia, per sommi capi, è il diario personale, scritto e disegnato (è impaginato infatti come se fossero dei fogli protocollo per un quaderno ad anelli) di Karen, una ragazzina di undici anni che vive in un quartiere degradato della Chicago degli anni '60.

 Suo padre, messicano, è andato via di casa anni prima, sua madre metà indiana (d'America), metà irlandese, è dedita a una sorta di religioso sincretismo culturale che la vede affidarsi a cure sciamaniche, superstizioni e dettagli cattolici.

 In più è provvista di un fratello, Diego Zapata detto Deezee che dalla parte materna non ha preso niente e sembra in tutto e per tutto un messicano e come tale deve vivere e difendersi tutti i giorni in un America che all'alba del 2018 non è ancora in grado di considerare allo stesso modo i cittadini non WASP, figurarsi allora.

 E' un quadretto familiare che potrebbe preannunciare catastrofi, ma, in qualche modo, fila. Deezee fa il tatuatore e tenta di inculcare l'amore per l'arte a Karen, che lo adora, e Karen, dal canto suo, cerca di fare del suo meglio per dare un senso alla sua giovane, ma già complicata vita.

 Il suo disagio interiore, molto taciuto a livello verbale in tutto il fumetto, è evidentissimo nel modo in cui Karen si rappresenta: non una bambina, ma un licantropo in trasformazione preso dall'immaginario dei filmacci horror di serie bcz che vede la notte.

 E' il disperato eppure orgoglioso e pervicace modo di Karen per dirci che non è come gli altri e che per vari motivi, (origini messicane, povertà, mancanza del padre, omosessualità, visto che sa già di essere lesbica ed è innamorata di una sua compagna di classe), avverte questa sua essere stra-ordinaria in modo talmente prepotente da non riuscire letteralmente a vedersi come gli altri che la circondano.

 Messa così sembra una cosa devastante.

 Invece, Karen nelle sue vesti di piccolo licantropo è infinitamente meno spaventosa di chi la circonda: la madre e le amiche della sua migliore amica/amata, tutte rosa e perfettine e crudeline, il fratello con un oscuro segreto, i compagni di classe precoci prevaricatori e molestatori, la piccola delinquenza che ha in mano il quartiere e via discorrendo.

  La sua amata Missy l'ha abbandonata dopo che sua madre le ha imposto di diventare una "bambina come le altre" e di non frequentarla più, ma Karen si è consolata trovando due nuove amicizie: una ragazzina scheletrica che forse è un fantasma e un ragazzo di colore alto e grosso che probabilmente è gay come lei.

 Che la cosa preferita di Karen siano i mostri è perfettamente comprensibile: i mostri sanno di essere cattivi e non lo celano, inoltre hanno chiari scopi e intenti per essere malvagi, e, se proprio vogliamo dircela tutta, spesso la loro unica colpa è che "mostrano" altro, l'altro, quello che noi non vogliamo vedere perché, nella nostra normalità ci fa ribrezzo.

 A questo livello di interpretazione, leggendo la storia, era abbastanza scontato arrivarci sin dalle prime pagine, quando Karen sogna una folla perbenista che cerca di mandarla al rogo.
 L'odio verso un singolo percepito come estraneo è qualcosa che permea l'aria che respiriamo e inquina i sogni delle vittime, le bracca, le isola e talvolta le uccide.

 Ma non è questa la parte, a mio parere, la parte più interessante della storia, bensì  quella dedicata ad Anka. 

 E mò chi è?

 La storia di Karen, in principio, prende le mosse da un fatto sanguinoso: la bellissima e tormentata vicina del piano superiore, Anka, muore improvvisamente e in modo misterioso. 

 Nessuno sa o nessuno vuole dire a Karen come sia successo: suicidio? Omicidio?
E nel caso di omicidio chi è il colpevole?
 Il marito? Deezee che ne era l'amante?
 O una di quelle varie persone che si presentavano alla sua porta per rinfacciarle qualcosa del suo misterioso passato?

 Karen indaga, convinta che dietro la storia di Anka ci sia qualcosa in grado di gettare luce su un secondo segreto, legato a Deezee e a sua madre.

 Ed è qua che si nasconde, a mio parere, il punto davvero interessante. 

In una sua molto abusata frase, Nietzsche diceva che: 

 "Colui che combatte i mostri, deve stare molto attento, perché lui stesso potrebbe diventarlo, e se gettiamo uno sguardo nell'abisso, l'abisso getterà uno sguardo verso di noi".

 Ecco, io sono convinta che la Ferris abbia intensamente pensato a questa frase perché è proprio lì che si nasconde il cuore oscuro di questa graphic.

 Nel suo passato, nella Germania nazista, Anka vive una vita difficile e una scelta impossibile.

 Quando, comodamente, nelle nostre tranquille case, filosofeggiamo su questa o quella scelta da compiere, convinti non solo che sia semplice riconoscere quella giusta, ma che essa non abbia, certe volte un prezzo assurdo da pagare, non sappiamo di cosa stiamo parlando.

 Il passato di Anka, il motivo per il quale si intuisce sia morta, pone un dilemma a cui è incredibilmente complicato dare una risposta.

  Se colui che combatte i mostri deve per forza diventare come loro per impedire che essi trionfino, riportando danni, vittime e devastazioni forse anche peggiori, chi è che vince davvero alla fine?

Colui che ha sconfitto il mostro o il mostro che è sopravvissuto rendendolo, ai fatti, come lui?

 E se tu non avessi nessuna scelta e l'abisso reclamasse la tua anima in cambio della tua vita, come potresti reagire? Quale margine di scelta, di colpa, di merito, di rimorso o di rimpianto avresti?

 Questo è un libro bellissimo perché, nei suoi tanti, tantissimi strati che tessono una trama fitta come la tela di un ragno, riesce a metterci a disagio.

 Parti convinta che i mostri siano gli altri o e arrivi, ad un certo punto, in cui ti rendi conto che invece, il mostro, in determinate circostanze, potresti diventare tu. 

 E non un mostro benevolo, venuto in terra a miracol mostrare, non un mostro percepito come tale, ma uno di quelli veri, che precipita nell'abisso e da lì divora i sogni, il passato, uomini, donne, la persone che eri e quella che avresi voluto essere, ogni cosa.

giovedì 10 maggio 2018

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Victory garden".

 Ed ecco che posto finalmente una nuova vignetta, fresca fresca di giornata!

 Trattasi di un geniale strafalcione davvero davvero pregevole.

 Ne approfitto per ricordare a tutt* che sarò al salone del libro di Torino il 12-13 Maggio allo stand della 001 per saluti, disegni, baci, abbracci e via discorrendo!

 Intanto godetevi la vignetta!
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Victory Garden"!


Ed ecco, di rapina, la locandina per Torino! La 001 sarà al Padiglione 3 stand P80!


giovedì 3 maggio 2018

Piccole recensioni tra amici! Un triplete a base di "Mio caro serial killer", "Più veloce dell'ombra" e "Le risposte" tra gialli, finta fantascienza e anni '80

 Visto che i libri letti e le recensioni in proposito si andavano accumulando (e visto che volevo scrivere qualcosa di un po' diverso), ecco a voi un velocissimo "Piccole recensioni tra amici"!

 Sono tutte e tre delle novità e due sono accomunate dal fatto che le ho lette per assoluto caso, segno che la serendipità ogni tanto arride ai lettori.

 Non mi dilungo troppo che devo tornare alle sudate carte del saggio!
Buona lettura!


MIO CARO SERIAL KILLER di Alicia Gimenez Bartlett ed. Sellerio:

 Ho sempre avuto più di un problema con Alicia Gimenez Bartlett.

 Ho provato a leggere qualche indagine di Petra Delicado e l'ho sempre abbandonata con fastidio dopo qualche riga. 
 Persino "Dove nessuno ti troverà", il romanzo di docufiction ispirato alla vera storia di un partigian* ermafrodita imprendibile sulle sue montagne durante la guerra civile spagnola, ho dovuto abbandonarlo a metà dopo aver fatto davvero qualsiasi cosa per finirlo.

 Credevo non dovesse in nessun modo essere amore. 

 Invece, complice il fatto di dovermi far perdonare da Dolcemetà per una qualche mia nefandezza (non grave visto che ho già dimenticato quale fosse), ho acquistato il suo ultimo libro e me lo sono fatta autografare durante il suo recente tour in Italia.

 A quel punto un libro nuovo in casa non puoi non provare a leggerlo e così, senza nessuna e dico nessuna aspettativa l'ho iniziato e sorpresa! mi ha preso immediatamente.

 Non conosco ovviamente le vicissitudini sentimentali e lavorative precedenti della famosa Petra perciò dare eventuali giudizi sull'evoluzione del personaggio è impossibile, anche se, a occhio, azzarderei uno status "Montalbano": tutto imperturbabile, tutto identico, gente che viene e va, ma nulla cambia davvero.

 In questo libro è sposata con un architetto con 4 figli nati da matrimoni precedenti, ha una cinquantina di anni e si ritrova a collaborare coi famosi Mossos, i poliziotti catalani che ormai pure l'ultimo abitante dell'Unione europea sa chi siano.

 La storia prende le mosse dall'omicidio, insolitamente violento e insolitamente rituale, di una donna di mezz'età sola e con pochi amici.

  Tutto ciò che si riesce a scoprire prima che anche un'altra donna, più giovane e senza nessun punto in comune con la prima, muoia allo stesso identico modo.

 Un serial killer di donne sole è in giro?

 E se queste donne sole fossero, come dice il proverbio, solo state male accompagnate?

 L'indagine prosegue con un ritmo incalzante e momenti scarsamente verosimili che però rendono il romanzo molto più godibile. 

 Quando hai tra le mani un'idea felice e un modo tanto fluido di raccontarla non devi concentrarti troppo su spiegoni o dati scientifici o controprove del dna, il lettore prende per buono tutto e cerca solo di capire qual è la chiave giusta che può svelare il mistero.

 Davvero bello e, aggiungo, anche abbastanza lungo da darti il tempo di rilassarti un po', senza l'ansia che finisca troppo presto. 

 Essendo un giallo non sono potuta entrare nei dettagli, ma vi do solo un indizio: Marta Flavi.



PIU' VELOCE DELL'OMBRA di Federica Tuzi ed. Fandango:

 Gli anni '80 sono la moda del momento. 

 Pur avendo la crisi e le generazioni precedenti tentato di saccagnare in ogni modo i trentenni di adesso, essi prosperano e dettano nostalgie e nuove mode di consumo (ogni tanto è spassoso leggere gli articoli dei giornali d'economia su come i millennials stiano portando alla rovina, con le loro abitudini sconcertanti, questo o quel comparto economico).

 Nella storia di Federica Tuzi, gli anni '80 sono l'80% dell'atmosfera, il resto è concentrato nel personaggio della protagonista assoluta: Alessandra, una preadolescente impigliata tra l'infanzia e le prime avvisaglie di un'adolescenza che si prevede molto tumultuosa.

 Figlia bruttina di due genitori bellissimi (capita di tanto in tanto che la genetica invece di migliorare peggiori la situazione) si trasferisce assieme a loro da Roma a Torino perché suo padre viene assunto nelle risorse umane di un'imprecisata grande azienda.

 Sua madre, splendida come tutte e tre le Charlie's Angels, e in carriera, è costretta a lasciare il lavoro e a Torino cerca in ogni modo di trovare una nuova ragione di vita. 

 Non riuscendoci, concentra tutti i suoi sforzi nei disperati tentativi di rendere sua figlia simile a lei.

 Peccato che, come accade talvolta, non ci siano persone che si somiglino meno che certe madri e certe figlie. 

Alessandra infatti non solo non è bellissima e dolcissima, bensì paffuta e amante di dolci e gelati, ma ha anche una certa propensione a mettersi in guai molto più grossi della sua età.

 Un mix fatale di incoscienza, mancanza di amici, spirito d'avventura e, bisogna ammetterlo, disperazione per un luogo, Torino, poco accogliente e molto chiuso, lancia Alessandra verso l'inizio di una giovinezza che si prospetta ricca, ma non facile.

 Ma non cantava già così De Gregori tanti anni fa in "Caterina"?

 "E la vita Caterina lo sai non è comoda per nessuno, quando vuoi gustare fino in fondo tutto il suo profumo, e rischiare la notte il vino e la malinconia, la solitudine e le valigie di un amore che vola via".

 Ben scritto, scintillante e a tratti oscuro, proprio come gli anni '80 perché le vere bambine ribelli non sono per niente patinate.


LE RISPOSTE di Catherine Lacey ed. Sur:

 C'è una cosa che sopporto poco (ce ne sono molte, ma vabbeh sorvoliamo): i libri instagrammabili. 

 Intendiamoci, non i libri con cui fare le foto su instagram, quelle le faccio pure io e devo dire che, da biblioteconoma, sono quasi sollazzata dall'attenzione estetica che finalmente il libro in quanto oggetto sta doverosamente ricevendo.

 I libri instagramabili sono quelli nati per essere cool: hanno un autore cool, una veste cool, una casa editrice cool e persino una trama cool!

 Anche per questo mi ero doverosamente tenuta alla larga da questo libro la cui quarta di copertina era lievemente agghiacciante: una donna in crisi decide di partecipare all'esperimento "fidanzata" in cui un attore famoso cerca, con l'aiuto di un'imprecisata equipe, di sviscerare le diverse sfaccettature delle relazioni umane.

 Praticamente vengono scelte alcune donne e a ognuna di loro viene affidato un compito diverso: la fidanzata con cui vivere i momenti romantici, quella con cui vivere momenti ordinari, quella con cui litigare ecc.

 Un libro del genere, lo devo ammettere, non lo avrei mai preso se non fossi stata in ritardo per il treno e non ci fosse stata la gustosa copia che inviano ogni tanto le case editrici in libreria a uso dei librai.

 E sarebbe stato un peccato perché soprattutto la prima parte, quella che la Lacey dedica alla protagonista, Mary, una trentenne piena di debiti, senza amici, con uno strano passato e un incerto presente di disturbi psicosomatici che solo una stramba cura fricchettona sembra riuscire a curare, è veramente considerevole e ricorda la Zadie Smith degli esordi.

 E' una bella scrittura, fresca, concisa, poco commerciale e molto particolare che rende le vicende, per quanto surreali, ricche di un certo fascino.

 E' un peccato che nella seconda parte la Lacey abbia deciso di concentrarsi sulla parte dell'assurdo esperimento che, se poteva avere una sua coerenza come elemento disturbante di fondo, diventa totalmente superfluo quando si cerca di porlo al centro.

 Se si vuole giocare con la fantascienza bisogna saperla usare, altrimenti diventa il pastrocchio che alla fine finisce per essere. 

 Relazioni che non si capiscono bene, cose che accadono a caso, personaggi introdotti di colpo che perdono il controllo e di cui non si capisce il senso.

 Bastava rimanere sul punto focale della storia: Mary. E' di lei che vogliamo sapere, della sua storia, del suo futuro, del suo passato. 

 Gli altri sono pallide figure di contorno che a un certo punto prendono il sopravvento nel tentativo, credo, di volerci raccontare qualche cosa di profondo sulle relazioni umane, fallendo.

 Ecco, io terrei d'occhio la Lacey perché può fare molto di meglio con una bella idea portata fino in fondo e il prossimo titolo lo guarderò con meno pregiudizio.
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