mercoledì 23 settembre 2020

Una storia d'amicizia o una battaglia per cambiare classe sociale? Una recensione della tetralogia de "L'amica geniale" di Elena Ferrante

 Ci ho messo anni a decidermi a leggere la tetralogia de "L'Amica geniale". Avevo letto un paio di libri della Ferrante e, a esser buoni, li avevo trovati fastidiosi, quindi mi riusciva difficile pensare che di colpo potesse aver scritto qualcosa di nettamente superiore.

Foto presa da Repubblica Napoli
 Poi, complice la vacanza sulla costiera sorrentina, mi sono fatta coraggio ed effettivamente, come moltissimi, ho letteralmente divorato i 4 libri in, credo, meno di una settimana.

 Prima di scrivere questa recensione, ne ho spulciate un po’ delle millemila già presenti su giornali e web, e ho notato che tutte tendono a concentrarsi sul rapporto tra Lila e Lenù.


 Ovviamente, dirà chi lo ha letto, su cosa ci dobbiamo concentrare visto che questa amicizia che dura mezzo secolo è, fondamentalmente, l’ossatura stessa della storia?

 In realtà, forse per una certa affinità di ansie e inquietudini personali con la narratrice, Elena Greco, detta Lenù, a me è sembrata molto rivelatrice una frase che lei stessa, con un certo sconcerto, si ritrova a pensare, rimuginando ormai in là con gli anni su un raccontino scritto da Lila alle elementari come di una quasi opera letteraria perduta, a metà del quarto libro: "Se il genio che Lila aveva espresso da bambina con la Fata blu, turbando la maestra Oliviero adesso, in vecchiaia, sta manifestando tutta la sua potenza? [...] L’intera mia vita si sarebbe ridotta soltanto a una battaglia meschina per cambiare classe sociale".

In effetti ci sono due cose che voglio assolutamente dire in questa recensione.

La prima è che sì. Io credo che la vita di Lenù e la tetralogia siano fondamentalmente il racconto di un titanico sforzo di una ragazza straordinariamente intelligente per cambiare ceto sociale.

Nata in una famiglia povera, ma non poverissima come quella della sua amica Lila, con padre usciere del comune, madre casalinga, due fratelli e una sorella (alla quale viene cercato di dare un vago ruolo nell’ultimo libro), Lenù studia con incredibile cocciutaggine. 

 Studia, mossa da un sentimento non ben definito che ha confusamente a che fare con la sua amicizia con Lila, figlia dello scarparo del loro poverissimo rione, bambina brillantissima, dal carattere tanto forte, quanto despotico.

L’amica geniale” è un titolo volutamente ambiguo perché se in prima battuta il lettore tende a credere che si tratti di Lila, bravissima a scuola, pronta d’ingegno, con grande e originale inventiva, nel corso del libro diventa evidente che sono entrambe e vicendevolmente le loro amiche geniali.

E non è poco, è tutto.

Se Lenù riesce nel suo percorso tenace nella vita, se non si arrende al liceo, all’università, al suo costante sentirsi fuori posto, è perché Lila rappresenta sempre e comunque un margine di confronto, uno specchio che conferma la sua esistenza in un mondo senza punti cardinali. 

 E lo stesso avviene per Lila. Se sempre, anche quando le viene imposto di lasciare la scuola, quando si trova costretta a sposarsi adolescente per sfuggire alle attenzioni di un camorrista, quando lavora in una fabbrica di insaccati in condizioni di schiavitù, se non si arrende mai è perché ha una sorta di punto fisso in Lenù.

Se Lila e Lenù sanno di esistere nello stesso istante, allora il gioco della vita, per entrambe, funziona. E infatti la storia inizia quando Lila decide scientemente di sparire e Lenù deve ricordare nei minimi particolari tutta la loro storia insieme, da principio, perché sente di avere ancora lo specchio nel quale rivedersi in caso di bisogno.

E’ una storia feroce di enorme amicizia, ma ha anche molto a che fare con la rappresentatività. In molti trovano estremamente tediose e anche capziose le polemiche sulla rappresentatività delle minoranze o anche delle donne nei film o nei media. Ma la rappresentatività costituisce un immaginario saldo a cui aggrapparsi: se ti vedi, esisti.

 Lila e Lenù si incontrano, si riconoscono e questo dà loro modo di costruirsi una vita fuori dai canoni ideali del rione. Tutte le loro coetanee e amiche d’infanzia, si sposano e mettono su famiglia molto giovani, alcune lavorano se c’è necessità, ma nessuna esce dal seminato che è stato loro accuratamente preparato. Come anche gli uomini.

 Sono le uniche a distinguersi e a combattere con tutte le loro forze (perché servono, costantemente, un’incredibile quantità di forze per non lasciarsi schiacciare dal sistema) ed è la loro ostinata amicizia, il loro confronto bellicoso e ineluttabile che rende possibile la loro ribellione.

 Hanno però due obiettivi diversi. L’obiettivo di Lila è cambiare le cose in un rione sempre più in mano alla camorra, dove lo stato non esiste (e se esiste non ha una forma che risulti comprensibile né efficace in un mondo che risponde ad altre leggi e dinamiche), e per raggiungerlo sa che l’unica possibilità è salvarsi ad ogni costo.

 Si salva da un camorrista sposando in fretta e furia un marito che detesta sin dal primo momento. Si salva dal marito scappando in un altro quartiere e finendo a fare l’operaia. Si salva dall’essere un desiderio sessuale desiderando ardentemente e contro ogni logica un’altra, sbagliatissima, persona. Si salva da un presente di miseria studiando una materia complicatissima, che non conosce nessuno.

Si salva, si salva e scappa. E se alla fine sembra che le rimanga poco tra le mani rispetto alla gigantesca fatica che l’ha perseguitata per un’intera esistenza, dovremmo pensare a quale sarebbe stato il suo destino se si fosse arresa in uno qualsiasi di questi momenti.

Salvarsi è assolutamente imperativo, anche quando il premio finale è in proporzione misero e ingiusto.

L’obiettivo di Lenù è invece lo stesso obiettivo di Nino Sarratore, l’oggetto dell’amoroso contendere tra le due ragazze, il gattomorto forse meglio descritto al maschile da parecchi decenni a questa parte. Entrambi mirano ad elevarsi socialmente. La differenza è che la prima non ne ha una vera coscienza, il secondo persegue il suo obiettivo con studiata ferocia.

Che Nino Sarratore sia detestatissimo l’ho letto ovunque (ho visto anche magliette contro di lui), eppure, diciamoci il vero, nessun uomo, forse esclusi il povero Franco Mari ed Enzo, fa un’ottima figura all’interno della storia. Gli uomini del rione sono prigionieri come le donne di un sistema patriarcale fondato sulla mascolinità tossica: devono primeggiare, devono picchiare, devono sottomettere, devono dimostrare.

I padri di Lenù e Lila sono quasi pupazzi sullo sfondo. I mariti di entrambe le ragazze non sono alla loro altezza e si comportano, seppure con le dovute differenze di status e cultura, allo stesso modo: si attendono una moglie che li riverisca e riversi ogni energia nell’accudimento dei figli e del focolare domestico.

Gli unici personaggi maschili che non cercano di soffocare le intelligenze delle due ragazze sono: Michele Solara, il camorrista (quando sei all’apice della catena alimentare puoi permetterti di infrangere le regole perché nessuno può dubitare della tua integrità) e Nino Sarratore che, nonostante dissemini, soprattutto in gioventù, episodi in cui reagisce in modo infantile alla superiorità di Lila e Lenù, in età adulta, tutto sommato sarà lo sprone che porterà Lenù a scrivere ancora, a liberarsi di un marito lamentoso, a credere in un futuro da scrittrice.

Ovviamente lo fa in base ad un suo calcolo personale. Tanto Lenù si affida alla corrente e riesce nella sua ascesa sociale grazie al suo talento letterario, tanto Sarratore (che non ha il jolly del talento) si prodiga in ogni modo per raggiungere il suo obiettivo.

E’ non solo un trasformista della politica, ma anche della vita. Tiene il piede in mille correnti diverse, in mille relazioni diverse, tra mogli, amanti, compagne, figli disseminati qui e lì con una certa assoluta scienza. Solo Lila, osserverà Lenù molti anni dopo, è sfuggita a questa sua ossessiva persecuzione della sua irresistibile ascesa.

Perché Sarratore ha accettato una relazione che poteva compromettere la sua ascesa?, si chiede, rodendosi, Lenù, che lo ama sin dall’infanzia. E teme sia accaduto perché, al contrario di tutte le altre donne con le quali si rapportava in relazione a ciò che loro potevano dargli, Nino era sinceramente innamorato di Lila.

Visto il personaggio in prospettiva, è difficile vederci un sentimento sincero. Sembra invece una sbandata giovanile, di quelle che prendono insensatamente e che, a posteriori, vanno ridimensionate e dimenticate.

Tuttavia è facile giudicare Sarratore con gli occhi di Lenù. 


Se Lenù non avesse potuto fare affidamento su un talento e un buon matrimonio, cosa sarebbe stato di lei? Sarebbe diventata forse un’insegnante di liceo e i suoi sogni di una vita migliore, più stimolante e indipendente, cosa sarebbero diventati?

Ciò che Sarratore persegue con feroce calcolo, a Lenù arriva quasi per grazia ricevuta. Lo dirà lei stessa nel libro di aver sempre avuto una grande fortuna. Di certo nessuna fortuna sarebbe venuta a visitarla se non avesse studiato con ostinazione e non avesse lottato, anche da adulta, per essere una donna libera, ma resta il fatto che la massima di Moll Flanders rimane, come sempre, attualissima.

La dignità ce l’ha chi può permettersela”.

C’è un secondo elemento che rende Sarratore e Lenù distanti nel loro atteggiamento. Quando si entra all’interno di un altro ceto sociale, l’attrito è fortissimo.

In Lenù assume la sensazione di una costante inferiorità, un mondo nel quale non è mai abbastanza raffinata o intelligente. Durante l’università, la Normale di Pisa, viene presa in giro per il suo aspetto e il suo accento, sospettata di furto, ha pace solo quando qualcuno “garantisce” per lei, come i suoi due fidanzati, entrambi benestanti e conosciuti. Perché il bel mondo l’accetti ha bisogno di qualcuno che validi e in qualche modo giustifichi la sua intrusione.

Lenù lo sa e si chiude a riccio, cerca di adattarsi, di rubare il modo di stare al mondo, ma è un esercizio che risulta difficilissimo a chi lo pratica senza esservi nato.

Qualche mese fa lessi un articolo bellissimo, “Il lavoro culturale ha bisogno di una lotta (creativa) di classe”, in cui l’autore descriveva benissimo quello che sente Lenù e che, devo dire, sento anche io.  Racconta come il lavoro culturale in Italia sia mediamente appannaggio delle classi sociali superiori, un gruppo ristretto di persone provvisto dello stesso milieu, qualcosa che hi giunge dall’esterno, pur con grosse dosi di recitazione ed immedesimazione (le stesse che, a vagonate, usa Nino Sarratore), non può assolutamente replicare.

 Gli outsider, come in tutti gli ambienti progressisti, vengono accettati, ovvio, ma raramente vengono davvero assorbiti. Serve un qualcosa di straordinario come un talento geniale, una carriera sfolgorante, un qualcuno di geniale e sfolgorante che attraverso matrimonio o amicizia “garantisca” per te.

 E questa sensazione che Lenù ha sin dalle scuole medie, che si sviluppa già al liceo classico, con la professoressa Galiani decisa a vendicarsi della poveraccia che crede abbia rubato il fidanzato alla sua figliola cresciuta con ogni cura, esplode all’università e soprattutto nell’enorme confusione del periodo successivo.

 

Quando gli anni ’60 e ’70 arrivano coi loro slogan e le loro anche sincere (sul momento) rivendicazioni sociali, di colpo sembra che le differenze di classe possano essere appianate.

 O almeno, sembra a chi queste differenze non le ha mai davvero subite (la figlia della prof Galiani, la sorella del marito di Lenù, Franco Mari che è uno dei personaggi più coerenti e tra i miei preferiti) lasciando perplesso chi, come Lenù, non riesce a non vederci della maniera o chi, come Lila, teme di essere usata per scopi politici e poi lasciata al suo destino.

 E nessuno dei tre né Lila né Lenù né Sarratore si fida.

 La prima perché mentre gli altri parlano di operai E’ l’operaio, ma per sua natura non può diventare un operaio di stampo ideologico, la seconda perché sa quanto possa essere doppia la natura di chi proviene da un ceto sociale superiore e cerca di tenere una mente aperta lottando contro uno spirito di autoconservazione di classe (lo stesso che avrà lei nel quarto libro quando sua figlia scapperà col figlio di Lila, devo dire forse la parte peggiore della serie) e Sarratore perché avendo un atteggiamento più utilitaristico e meno utopico delle varie ideologie dominanti, sa che prima o poi, tutte, vanno ad esaurimento.

 Alla fine, fondamentalmente i tre, pur con percorsi diversi, riusciranno a distinguersi dalla gente del rione che avrà destini più o meno infelici tra malattie, post terrorismo, manovalanza della camorra, povertà.

 La cosa forse che rimane interessante è che tutti vi riusciranno anche perché avranno con la propria prole un tipo di rapporto poco esplorato nella letteratura contemporanea. Adesso le cose sembrano solo due: distacco e freddezza totale o l'alone mistico dell’amore assoluto e inspiegato.

 Tutti e tre invece amano i propri figli, ma nessuno di loro gli sacrifica o ne fa il centro della propria esistenza. 

 Lila lo fa per un breve periodo col primogenito, ma si rende presto conto che l’educazione può poco se l’ambiente e l’indole sono di altro genere. 

 Lenù ama le proprie figlie, ma ama anche avere una propria esistenza. Quindi non sacrifica alla loro tranquillità un matrimonio ormai arenato né si fa scrupolo di portarle a vivere in un rione povero di Napoli quando potrebbero vivere nell’agio coi ricchi nonni genovesi. Sbaglia? Ha ragione?

 Malgrado trovi il pezzo delle figlie adolescenti il peggiore del libro, penso che il finale del loro rapporto sia giusto e in qualche modo onesto.

  Lenù è una donna indipendentissima e il rapporto con le figlie non poteva essere di natura diversa. E intendiamoci, io non do nessun giudizio morale. Anzi. Forse perché sono cresciuta con dei genitori molto simili, mi trovo costantemente spiazzata dalla retorica della maternità amorosissima, dai genitori iperpresenti, dalla cappa di attenzioni costante. Mi sembra assurdo sia l’unico modo per essere genitori e che sia l’unico modo degno di essere raccontato per non passare come dei genitori indegni.

Cosa penso dunque di questa tetralogia (scusate la recensione lunghissima)? 

Che ha un’enorme fascino perché la Ferrante è riuscita in due cose, rare:

1) Indovinare tre personaggi in modo vividissimo e farli interagire tra di loro in modo continuo e convincente (i personaggi secondari sono talmente poco caratterizzati che fino alla fine alcuni li ho confusi).

2) Raccontare quello che stranamente viene poco raccontato in un paese come l’Italia: la quasi estraneità tra ceti sociali e l’incredibile attrito quando qualcuno tenta l’ascesa.

 La complessità e in qualche modo la tragicità dello scontro dovrebbero essere forieri di storie, invece ci si concentra quasi sempre sulle grandi tragedie interiori della borghesia o del mondo quasi pasoliniano dei ceti più bassi. 

 Qui e lì si appiccano sentimenti di categoria (il piccolo borghese con grandi ambizioni, l’operaio che vorrebbe ma non può, il provinciale che si inventa imprenditore e soccombe, il ricco borghese che ha qualche sicuro problema con mogli e figli ecc), ma non si indaga mai sull’ambivalenza di questa coesistenza. 

 Sul fatto, ad esempio, che può interessare una scalata sociale per alcuni fattori culturali, per una maggiore ricchezza di prospettive, ma che al contempo si possono disprezzare alcune pieghe decadenti, alcune pose artefatte, il totale distacco dal mondo reale. In questo senso il personaggio di Lenù è assolutamente perfetto.

Spiace, e lo dico sinceramente, che non si possa sapere di più sull’autrice. Perché anche se l’opera esiste oltre l’autore, alcuni sentimenti hanno sete di spiegazione e di approfondimento, anche solo per il gioco tra Lila e Lenù, per vedersi rappresentati, per avere la certezza che qualcun altro esiste come te in quel momento e in qualche modo sta giustificando la tua esistenza stessa.

martedì 22 settembre 2020

Il male entra dove viene invitato. Una recensione di "Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe" di Grady Hendrix

 Quando lavoravo in libreria, una delle cose che più trovavo assurde, divertenti e moleste allo stesso tempo, era la collocazione dei libri di Fannie Flagg.

  Il nome non dirà molto a tanti, ma se vi dico che è l’autrice del libro da cui è stato tratto il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” forse riuscirete a inquadrare lei e il problema.

Fannie Flagg
Sin dalle copertine, discretamente a mio parere discutibili, delle edizioni Bur, la collocazione di Fannie Flagg sembra quella di uno zuccheroso romanzo rosa. 

 Magari non rosa rosa sul livello di Harmony o del manager sadico che si innamora della santarellina di turno (aridatece i medici che salvavano le orfanelle avvenenti dalla povertà, erano più dignitosi), ma un rosa un po’ vintage in stile “I ponti di Madison County”, roba insomma che si colloca in quell’incerto mondo della narrativa rosa che però è una spanna letteraria sopra.

In verità i libri di Fannie Flagg sono scritti con piglio di certo ironico e hanno per protagoniste donne picaresche, ma che di rosa hanno ben poco. Sono donne, innanzitutto, che vivono in un contesto sociale molto preciso: quello del sud degli Stati Uniti, dove si mangia molto bene, sembra, per carità, ma il razzismo e il sessismo sono a livelli fuori controllo.

Il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” non dà un’idea abbastanza veritiera del contenuto dei suoi libri.


Lo stesso film si prende un paio di licenze di trama
così grosse da distruggere gran parte della portata eversiva della storia:

1) Un personaggio omosessuale diventa nel corso della vita eterosessuale.

2) La scomparsa dei gemelli di colore Jasper e Artie, diversissimi e speculari, specchio delle possibilità di vita di un afroamericano in un America intrisa di razzismo.

Alla fine, nel ridimensionamento generale, si evince solo che le due protagoniste hanno una specie di amicizia amorosa che è poi quella grande nebulosa dove vengono di solito ficcati i rapporti tra donne: amicizie intime, ma insomma, nulla di davvero serio. Ovviamente, pur mancando i gemelli, si parla di razzismo, ma il contesto quasi favolistico non rende i toni più drammatici e struggenti del libro.

Con questi presupposti potete facilmente evincere che non esiste alcun motivo logico e sensato per il quale un’autrice del genere dovrebbe avere copertine zuccherine vivacchiare negli scaffali della narrativa rosa. Meriterebbe ben altro trattamento e ragazzi, se l’autore fosse un uomo, senza per forza cercare il sessismo in ogni dove, lo avrebbe.

Eppure. Ho sempre trovato in qualche modo interessante l’idea di una specie di cavallo di troia tra gli scaffali. Una lettrice media (anche un lettore per carità, ma la statistica pende verso le donne in questo caso) va cercando una storia d’amore senza impegno e pem, si ritrova trascinata in una faccenda molto più grande, più complessa, più struggente. Considerando che non ho mai visto riportare indietro una copia di questo libro, il cavallo di Troia ha sempre discretamente funzionato, o almeno spero.

Perché questa solita lunga intro che sembra non c’entri molto con “Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe”?

Perché “Pomodori verdi fritti alla fermata di Whistle Shop”, in qualche modo è un’ideale preambolo di questo libro dal titolo altrettanto lungo.


L’autore, Grady Hendrix, spiega all’inizio di aver voluto mettere sua madre contro Dracula,
in uno scontro evidentemente impari. Il motivo per il quale lo scontro è impari però non è tanto da attribuirsi a motivi sovrannaturali quanto all’humus nel quale lo scontro si sviluppa.

La protagonista, Patricia Campbell, è una casalinga di inizio anni ’90. Ha un marito medico poco presente e perennemente a lavoro, il tipico coniuge che non si rende conto che il motivo per il quale può stare 14 ore a lavoro e tornare in una casa pulita, con due figli che non barboneggiano abbandonati a loro stessi, il frigo è pieno, la tavola imbandita, le bollette pagate, la madre invalida accudita, non è per grazia divina, ma perché qualcuno se ne è occupato.

Anche i figli, un maschio e una femmina, sono il solito concentrato di odio adolescenziale. Non per colpa di qualcuno, ma bisogna forse venire a patti che ci sono degli anni in cui genitori e figli sono pianeti che orbitano vicini, ma che non possono mai sfiorarsi, pena una collisione disastrosa.

La sua unica gioia è un gruppo di lettura che ha con alcune altre donne del quartiere. In principio leggono libri impegnati, poi, grazie all’idea di una di loro, nasce un secondo gruppo dove si dedicano a letture ben poco da casalinghe: delitti atroci, cronaca nera, serial killer, omicidi efferati.

Il male cartaceo è in qualche modo catartico della frustrazione reale. Per giunta, il fatto che li leggano all’oscuro di mariti con un’apertura mentale degna degli anni ’50, dà quel gusto del proibito, del proprio pezzetto di vita segreta, che non guasta.

Tutto sembra scorrere più o meno normalmente fino al giorno in cui Patricia viene aggredita da una vicina in preda ad un’incomprensibile frenesia, quasi rabbiosa. E’ un’anziana del vicinato che muore lasciando la casa ad un suo lontano nipote, un uomo avvenente e ambiguo che Patricia prende immotivatamente in simpatia.

Da quel momento tutto prende una strana piega. Alcuni bambini del quartiere dove vivono a maggioranza persone di colore, iniziano a deperire e suicidarsi o scomparire e, quando Patricia decide di aiutare la badante della suocera a indagare, le cose peggiorano drasticamente.

Il male sovrannaturale in effetti c’è. Vampiri che succhiano il sangue di innocenti dei quali non interessa a nessuno (ennesima conferma che la colpa è sempre di chi muore), ma il vero orrore si annida nella presa di coscienza di Patricia.

Patricia si rende rapidamente conto che poco è cambiato dai tempi in cui i mariti internavano le mogli troppo vivaci o troppo intelligenti o troppo poco accomodanti. E capisce anche che la parola di una donna vale sempre meno di quella di un uomo, anche agli occhi delle persone a cui vogliamo più bene.

La vera trappola, che permette la morte seriale di innocenti, è un contesto sociale che cambia per non cambiare mai.

Ora le mogli sono laureate, ma lasciano comunque il lavoro per accudire la famiglia che altrimenti non avrebbe mezzi per andare avanti. Ora le mogli guidano, hanno un conto in banca, una vita sociale, ma mai che questa vita sociale sia eccessiva o tolga tempo all’accudimento della famiglia, soprattutto se questa cosa si connota nel campo dello svago fine a sé stesso (ah! Togli tempo alla tua famiglia per le tue amiche!).

L’isolamento cresce in proporzione al calo dell’autostima che non trova più conferme da nessuna parte: né in un lavoro che non c’è più, né nei figli che sono presi da altro, né dagli amici che si sono stancati di essere chiamati, a dire tanto, una volta al mese, né dal coniuge, preso da un mondo esterno dal quale sono escluse.

Il quadretto è anni ’50, ma riguarda vaste sacche molto trasversali del mondo odierno e ha conseguenze che si espandono a macchia d’olio. Il doppio carico di lavoro, la minor autorevolezza, la perenne sensazione condizione di minorità. Ed è in questa trappola che il male fa il nido.

 E in questo caso è particolarmente parlante una delle peculiarità dei vampiri, una delle poche che Patricia cerca in "Dracula" per trovare conferma: i vampiri non possono entrare se non vengono invitati.

E il male è esattamente così, entra dove lo si invita.

Sa chi colpire, sa tra chi cercare sponda, sa svanire dopo aver seminato distruzione. Forse, col tempo, e con le serie tv che lo fanno sembrare una cosa molto più manichea e semplice e tutto sommato dai risvolti meno malvagi del previsto, ci siamo dimenticati quanto sottile e astuto possa essere il male.

Il finale è molto Stephen King vecchia maniera e in tono con un libro che vuole raccontare qualcosa di serio senza prendersi troppo sul serio.

Incredibilmente ironico e soddisfacente nonostante il prezzo da pagare. Un bell’horror scorrevole e gustoso, come non ne leggevo davvero da tempo.

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