lunedì 28 settembre 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Regali per gli amici"!

 Uno dei più frequenti motivi di reso di libri in libreria è ovviamente il regalo sbagliato.
Azzeccare il libro giusto non è facile, ma certe volte i clienti riescono a prendere cantonate micidiali. Questa settimana un ragazzo si è superato. Per la cronaca alla fine ha riso parecchio anche lui.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Regali per gli amici"!



giovedì 24 settembre 2015

A cosa servono gli amori infelici? A scrivere libri e poesie bellissimi (e incidentalmente a rendere eterni alcuni uomini e alcune donne) tra tentativi di rimorchio, ali per volare, friendzone eterne, ballerine e corvi

Francisco Goldman e la moglie Aura
 Una delle cose belle dei clienti in libreria è che, in modi perlopiù misteriosi, vengono a conoscenza di libri particolarissimi che si perdono nel marasma delle troppe, risparmiabili, uscite praticamente quotidiane.   
 Ogni tanto vengono lì, con dei papiri cicciuti e ti viene un colpo. Poi scopri che su quel papiro c'è una meravigliosa bibliografia di libri distopici rari (un ragazzo due settimane fa mi ha fatto avere l'improvvisa necessità di tre o quattro nuovi libri sul tema) o titoli che non sai quando ti sei persa.
Qualche tempo fa una ragazza andava cercando "Chiamala per nome" ed. Il Saggiatore in cui lo scrittore americano Francisco Goldman racconta la storia della sua giovanissima moglie morta in un incidente in mare ad appena trent'anni.
  La ragazza, Aura Estrada, era una dottoranda in letteratura di origine messicana e pare fosse anche una promettente scrittrice. Nonostante la morte fosse avvenuta accidentalmente la famiglia non perdonò Goldman e lo accusò di essere parte in causa nel decesso (come non ho ben capito visto che era cascata dalla tavola da surf). Allo scrittore non rimase che scrivere un libro in sua memoria, "Chiamala per nome", in cui con dolore si riappropriava della vita della moglie attraverso la scrittura.

 Rievocare grandi amori rendendoli eterni grazie ai libri è un antichissimo topos letterario, usato per mille motivi: dal rimpianto, alla nostaglia, dallo sfogo al rimorso, dalla disperazione al rimorchio.
 Di seguito una serie di casi di amori desperadi (e realmente avvenuti) resi eterni dai loro autori.

ORFEO E TEOGNIDE:
 Capostipite assoluto della disperazione amorosa occidentale per la perdita della donna amata è stato sicuramente il prode Orfeo, poeta che, sposato da poco alla bella Euridice, se la vide portar via dalla morte. 
All'epoca con gli dei che decidevano le sorti degli uomini ancora si poteva parlare, così Orfeo si trascinò negli inferi e supplicò cantando talmente bene il signore dell'oltretomba e consorte, Ade e Persefone, che essi gli permisero di riportare la moglie tra i vivi. 
 C'era da scarpinare però per riemergere dal sottosuolo e costoro misero una clausola: se Orfeo si fosse voltato a guardare la moglie essa non sarebbe mai più uscita di lì. Orfeo, come in molti sapranno, si voltò, stoltamente all'ultimo secondo, quando ormai sembrava fatta. Il finale fu terribile: la moglie non risorse, lui smise di cantare e le baccanti lo uccisero qualche tempo dopo.
 Ma greci e romani per quanto poetici conoscevano anche il magico potere del rimorchio che poteva dare la poesia. 
 Meraviglioso esempio è l'unico frammento del poeta Teognide (VI-V sec. a.C.) giunto fino a noi. Costui, nel tentativo di ingraziarsi un giovinetto da lui molto amato, Cirno, non solo gli dedica poesie, ma scrive anche una poesia per ricordarglielo, fargli notare che grazie a lui in fondo vivrà una vita eterna e che, nonostante tutto, il ragazzetto neanche lo fila. E' una critica pessima lo so, ma la poesia rimane splendida:
"Ti ho dato ali per volare sul mare sconfinato
e su tutta la terra, in alto librandoti
facilmente. Nei conviti e in tutti i banchetti sarai presente,
adagiato sulla bocca di molti.
Accompagnati da flauti dal suono acuto, uomini giovani
e decorosamente amabili canteranno te, con voce bella
e chiara. E quando, nei recessi dell'oscura terra,
verrai alle case molto lacrimate dell'Ade,
mai - neppure morto - perderai la fama
, ma sarai a cuore
agli uomini, avendo sempre un nome indistruttibile,
Cirno, per la terra dell'Ellade e per le isole
aggirandoti, varcando lo sterile mare pescoso;
e non seduto sul dorso di cavalli, ma ti condurranno
gli splendidi doni delle Muse dalla corona di viole.
E per tutti quelli cui sta a cuore, anche tra i posteri,
tu sarai ugualmente motivo di canto, finché ci saranno la terra e il sole.

Ma io da te non ottengo rispetto, neppure poco;
con le parole tu mi inganni, come s'io fossi un bambino"

CATULLO:
Fosse vissuto all'epoca nostra Catullo sarebbe diventato uno di quei giornalisti o scrittori con la penna sempre avvelenata e puntuta.
 I carmi che non fanno leggere a scuola sono pieni di livore e invettive verso una serie di nemici politici e scrittori o nemici in generale.
 Come accade quando si va un po' troppo cercando la propria nemesi, Catullo incappò in una donna bella, libera, volitiva e piuttosto capricciosa (o almeno è così che ce la consegna alla storia): Clodia da lui ribattezzata poeticamente Lesbia.
 Questa matrona apparteneva alla classe alta di Roma (suo fratello, Clodio, era tribuno) e aveva una decina di anni in più del poeta che trattava, stando almeno a Catullo, come un giocarello senza cuore. Lo prendeva, lo lasciava, lo lasciava lo prendeva, aveva relazioni coi suoi amici, si faceva implicare in scandali politici di vario genere. Ricca e indipendente, una volta vedova fece fruttare il suo patrimonio, cosa che le permise, nonostante fosse una donna di godersi la vita e gestirla come meglio voleva.
 Catullo la ama, la odia, si excrucia, si odia, le manda mille baci e poi cento e insomma rimane vittima di una delle prime femme fatali della storia. A cosa servono gli amori infelici? A scrivere poesie bellissime.

CESARE PAVESE: 
Constance Dowling. Pavese puntava alto
 Se nella storia è esistito un poeta che si possa definire sfigatissimo con le donne, ebbene, quello è stato Cesare Pavese.
 La sua tristissima storia affonda le radici in una presa in giro primigenia, talmente famosa tra gli studenti di liceo, che De Gregori lo cita persino in "Alice": "E Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina". Nel 1925, liceale, aveva atteso per ore sotto un diluvio una ballerina di cui si era innamorato, beccandosi un cosmico malanno.
 Da lì fu una serie di delusioni amorose che manco Emma Marrone.
 Prima si innamorò di Tina Pizzardo, antifascista che lo ammirava moltissimo che lo respinse più volte, nonostante le numerose proposte di un Pavese che non se ne faceva una ragione. Poi venne una giovanissima Fernanda Pivano: tentò la proposta di matrimonio anche con lei, ma niet.
 Ci fu dunque Bianca Garufi, partigiana con cui tentò di scrivere un libro a quattro mani (fallendo), anche con lei, che divenne poi una delle prime persone (non donne, persone) in Italia ad interessarsi accademicamente di psicologia, fallì.
 Infine venne la volta di Constance Dowling, bellissima attrice che pare lo illuse mentre nel frattempo aveva una relazione con un collega. A lei è dedicato "La luna e i falò". Non bastò, ormai quarantenne una relazione con un'aristocratica diciottenne per risollevargli il morale.
 Ricordo che già diciottenne rimanevo perplessa dall'incredibile dicotomia: grandissimo scrittore e poeta, ma incapacissimo a relazionarsi. Non riuscivo a comprendere se fosse Pavese ad avere qualcosa di strano o fosse semplicemente sfiga, ai posteri l'ardua sentenza.

WILLIAM BUTLER YEATS:
 Come Catullo e Pavese, anche Yeats subiva il fascino di donne volitive  o meglio subì quello della stessa donna che con convinzione lo respinse per tutta la vita: Maud Gonne.
 Maud Gonne fu un'instancabile sostenitrice dell'indipendenza irlandese, finì in carcere, ebbe due matrimoni e due figli, Iseult, dal primo marito, un politico irlandese, e Sean MacBride a cui venne conferito il premio nobel per la pace nel 1974 e partecipò come i genitori (il padre fu anche giustiziato) alla causa irlandese.
 Yeats la incontrò nel 1889 e se ne innamorò immediatamente, ma lei come si dice ora nel linguaggio ggggiovanile lo friendzonò subito, a vita e senza rimedio.
  Lui infatti le fece ben cinque proposte di matrimonio durante il corso della vita e, non pago, cercò di impalmare almeno la di lei figlia una volta ventenne (essa, imitando la madre, si negò). 
 I due ebbero comunque un rapporto strettissimo e Yeats ne fece la musa principale delle sue passionali poesie. Quando, cinquantenne, il poeta si arrese e sposò una giovane appassionata di occultismo, i loro rapporti non mutarono tanto che si videro fino a pochi giorni prima la morte del poeta le cui spoglie sarebbero rimaste in Francia se Maud non si fosse prodigata per riportarle in Irlanda.
 Certe volte dietro i grandi rifiuti e i grandi amori si celano misteri. Il rifiuto ostinato di Maud è uno di questi.

EDGAR ALLAN POE:
Nevermore craaaa nevermore craaa
 Nell'iconografia del caro Edgar non può mancare il tristerrimo corvo che gli ricorda, ineluttabile: "Mai più".
Virginia Clemm
Lui, solo e triste in una notte invernale, pensa alla sua dolce Lenora morta, apre la porta e sente il suo nome nel vento. Chiude la porta e un corvo comincia a gracchiare "Nevermore". Insomma, una tragedia.
 Tragedia ispirata alla morte dell'unica giovanissima moglie di Poe. A 26 anni il nostro decideva di compiere un atto fortunatamente oggi illegale: sposò la sua cugina carnale e tredicenne, Virginia Clemm.
 Costei che fu ampiamente cornificata in vita con scrittrici e potesse varie, nel 1842 mentre cantava gioiosa ebbe la rottura di una vena e le fu diagnosticata la tubercolosi di cui morì quattro anni dopo lasciando Poe nella desperazione.
 Nonostante i bagordi amorosi avuti mentre la moglie era in vita, Poe non si riprese mai più dalla perdita e le dedicò la disperata poesia "Il corvo" ed alcuni racconti, tra cui l'angoscioso Eleonora.
 Romantic tragedy.

mercoledì 23 settembre 2015

La domanda da non fare mai: vuole un sacchetto? Parte II. Con contributi e testimonianze da librai e libraie desperadi.

La scorsa settimana ho postato un fumetto sulla domanda da non fare mai ai clienti: vuole un sacchetto?
 Tale semplice illazione crea nelle masse sgomento, sconcerto e soprattutto soverchia irritazione. Su fb molti librai e libraie sono intervenuti per palesare i loro drammi e le loro esperienze al riguardo. Erano talmente tanti e alcune risposte così folli che non si poteva non disegnare una seconda parte!
Ed ecco perciò: la domanda da non fare mai, parte II!!





martedì 22 settembre 2015

Signora mia, questi giovani non studiano più. Ma è proprio vero?Sul serio studiare è rimasta una "Passione ribelle" per pochi? Non lo è sempre stata? Una critica ragionata al nuovo pamphlet della Mastrocola.

 E' l'argomento della settimana: la novella miss Italia in carica, diciottenne e per questo, teoricamente fresca di studi, ha dichiarato che le sarebbe piaciuto tanto vivere nel 1942, un periodo su cui molto si è scritto.
 
 Ok, c'era una guerra che ha fatto una cinquantina di milioni di morti, ma in fondo lei era una donna e in guerra non ci sarebbe andata (forse pensa che si sia svolta come nel medioevo con la castellana che filava a casa, mentre il prode cavaliere pugnava sugli Urali).
 Mettere alla berlina una diciottenne che non sa quello che dice, quando il mondo è pieno di persone che credono alle scie chimiche e alla teoria del gender, è un po' assurdo, soprattutto perché non credo le miss Italia precedenti pozzi di scienza. Se non altro, direte voi, avevano il buongusto di dichiarare che volevano la pace nel mondo senza avventurarsi in improbabili nostalgie storiche.
 Questa gaffe megagalattica si ricollega ad una sorta di instant book di Paola Mastrocola appena uscito per Laterza: "La passione ribelle".
 In questo pamphlet, l'autrice, che ha notoriamente insegnato in scuole pubbliche (ma non lo fa più da 16 anni) punta il dito contro la scomparsa dello studio.
 Si studia davvero a scuola? E come si studia? I genitori di adesso vogliono davvero che i figli studino o vogliono principalmente che si trovino un buon lavoro?
 Vista anche la gaffe della nuova più bella d'Italia, si capisce bene che il tema è pressante, vivo ed effettivamente calzante: studiamo tutti o quasi più a lungo, ma la qualità è scesa. Che ne sarà di noi? Lo studio e la riflessione svaniranno?
 Peccato che questo libercolo pur dicendo delle cose innegabilmente giuste, sembri frutto più che di uno studio, di un sentito dire.
 Andiam con ordine. Cose molto azzeccate, secondo me, del libro:
1) I genitori sono diventati dei grandi nemici dello studio dei figli. Non tutti ovviamente, ma è vero, per molti genitori lo studio è secondario rispetto a tutto il resto. Ho dato per due anni ripetizioni alle bambine di una famiglia alto-borghese con madre sciura insopportabile che mi costringeva a far fare loro tutti i compiti del fine settimana in un pomeriggio perché le pargole dovevano andare in montagna, a sciare, in barca, dai nonni, e in altri posti ben più interessanti. Pargole che già studiavano in modo ridicolo in una scuola privata ridicola.
 Non è un metro di giudizio, ma forse lo sono le decinaia di madri che si lamentano coi librai della lunghezza dei libri che gli insegnanti osano propinare ai figli.
2) Il tempo per lo studio è aggredito da altro. E' innegabile che avendo la perenne possibilità di stare connessi, diventa molto più difficile fare un pomeriggio di studio filato senza interruzioni. Non  è che secondo me, per questo, la gente non studi, ma la concentrazione di certo ne risente.

Cose che il libro toppa completamente.

Il buon Tiziano Treu
1) Il mito della formazione eterna.
 Forse l'ha scritto male, forse non conosce il mondo del lavoro dopo il pacchetto Treu, forse non sa cosa dice, ma ad un certo punto la Mastrocola punta il dito sulla "formazione eterna", una sorta di mitica entità in cui si crogiolerebbe una generazione pur di non lavorare. Per fare l'esempio dice: diploma, laurea, dottorato, post-doc, uno stage, due stage ecc.
 Peccato che lo stage non sia formazione, ma un forzato periodo di lavoro, spesso a tempo pieno, spesso non pagato o pagato male, che nel nostro pazzo mondo a base di precariato è diventato una regola a cui non puoi sfuggire. Non so, forse immagina orde di ragazzi che dicono "Che palle lavorare con uno stipendio, meglio fare uno stage gratis, così posso continuare a formarmi!".

2) I ragazzi non sanno/vogliono studiare.
  Tutte le generazioni precedenti, pensano che le successive studino male. Penso anche io, in effetti, che la preparazione che avevano i nostri nonni all'uscita dalle superiori fosse infinitamente maggiore della nostra, ma non credo che la colpa sia per forza degli studenti.
Il buon Alfieri
 Meno pretendi da una persona, meno quella persona si sentirà autorizzata a darti. La Mastrocola lo dice, ed è, secondo me, vero.
 Se uno studente si sente preso per scemo o trattato coi guanti con risibili riduzioni scolastiche dei classici, se i genitori mimano infarti al pensiero di un'analisi logica, mi pare evidente che si finisce per percepisce una cosa sola: posso pure non farlo.
 Poi, ovviamente, ci sono quelli che lo fanno a prescindere perché gli piace, quelli, di solito non in agiate condizioni economiche che lo fanno con una speranza (studenti non considerati dalla Mastrocola), quelli che non lo farebbero mai manco se fossimo all'epoca di De Amicis.
  E' la media generale che si è abbassata, ma non penso sia perché abbiano di meglio da fare (c'è sempre stato di meglio da fare, mi sbaglio o Alfieri si legava a una sedia gridando "Volli sempre volli fortissimamente volli"?), accade perché c'è una giustificazione sociale al non studio molto più forte.
 Mi farei sfiorare dal dubbio che ci si voglia più capre e conformi, mediamente mediocri, mediamente incapaci di pensare ad un mondo diverso (eppur affascinati, come dimostra il perenne successo di libri come "Nelle terre estreme" di Krakauer o "Walden, Vita nei boschi", letti principalmente dai giovani che a quanto pare non leggono e non studiano).

3) Finiremo tutti molto male.
Le consiglierei la lettura di
"Galassia Gutenberg" così vede che un
certo impatto sociale l'invenzione della
stampa ce l'ha avuto, e non leggero.
 C'è un lungo pezzo sul fatto che essere ottimisti per forza forse sia un errore. Dopo aver glissato sul fatto che l'invenzione della stampa non è stata impattante per la società quanto quella di internet (ma dice anche di non amare molto la storia quindi viene il dubbio che non abbia mai avuto interesse ad approfondire una questione del genere), sostanzialmente la Mastrocola dice che abbiamo tutti bisogno di sentirci rassicurati e nessuno fa più predizioni fino in fondo. Se una cosa deve andar male, bisogna dire che ci andrà. Condivido. Però. 
 La palla di vetro non ce l'ha nessuno. Keynes, dice lei, affermava che i suoi nipoti avrebbero lavorato tre ore perché la tecnologia ci avrebbe liberato dal giogo lavorativo, ciò non è successo. Vero. Ma non sono successe tante altre cose che potevano a priori finir male, come una pessima risoluzione della guerra fredda, per dire.
 Il compito dei sociologi non credo sia cassandrare per forza. Penso che un ragionevole raggio di speranza possa sussistere senza diventare gente che non vuole affrontare la realtà.

Cosa manca di fondo a questo libro.
C'è una cosa che manca in questo libro, enorme, gigantesca: una anche solo vaga analisi socioeconomica del nostro tempo. La Mastrocola si sfoga verso genitori e nuove generazioni, ma la sua, alla fine, sembra la sterile polemica di una nonna che non comprende più i giovani. Molto strano per una che ha scritto un libro, "Non so niente di te" che puntava esattamente al problema: l'invadenza del denaro nelle nostre vite.
 Non farò nessun discorso pauperistico, non credo per forza che il denaro non dia la felicità ed essere poveri e poco ambiziosi sì (e viceversa). Penso che però in un'età fortemente capitalista come la nostra, in cui il denaro ha un posto così centrale in termini di possibilità di vita, scrivere un libro in cui la scomparsa dello studio e il dominio del denaro non siano messi in correlazione sia un errore enorme.
 Il punto non è che si studia di meno, perché si vogliono studiare solo le materie che ci danno un lavoro danaroso.
 Il punto è che questa società non consente a chi vuole studiare materie poco danarose di sopravvivere.
 Chiunque volesse dedicarsi solo allo studio o a materie poco redditizie dovrebbe scontrarsi contro una forte pressione sociale, un'impossibilità di fondo se non si dispone di denaro precedente (alias genitori, rendite, eredità o boh) e alla consapevolezza che i propri figli pagheranno cara questa scelta.
 Come analizzava benissimo il professor Giovanni Solimine in un suo, sì, riuscitissimo pamphlet al riguardo "Senza Sapere", in Italia si studia meno anche perché leggere e studiare non sono più ascensori sociali.
 Pretendere di dedicarsi ad una vita di studio è impossibile per la maggior parte delle persone che appartengono a strati sociali medio-bassi. Il discorso della Mastrocola infatti ha il grande difetto di rivolgersi ad un pubblico medio-alto senza prendere in considerazione il fatto che è sempre stato così! La storia della letteratura, diciamocelo, non è fatta di indigenti.
 L'esempio che lei fa del suo protagonista di "Non so niente di te", che rinuncia ad una vita di successo per pascolare le pecore è studiare è calzante nel momento in cui il punto focale non è lo studio, ma il coraggio di imporre un modo di vivere diverso, non conforme, in un panorama sociale che ti spinge sempre in avanti, puntando all'ego di alcuni e al bisogno di altri. Ma in questo caso, lo studio, in una società immobile, non è salvifico. 

4. Il problema sembrerebbe solo dei ragazzi.

Pare che siano gli studenti e i ragazzi a non leggere e studiare.
  Direi che questa mancanza di pensiero critico vada in giro da almeno una trentina d'anni. Sento parlare del vuoto pneumatico dell'Italietta berlusconiana da quando vado alle elementari. Un mix micidiale di gente senza arte né parte (o con arti e parti poco raccomandabili) che si ritrova al potere grazie a seni prorompenti e adulazione del capo, modelli di vita passati da una tv indecente (non indecente per le veline, ma per tutto il resto), signori nessuno che fanno migliaia di euro solo per aver fatto mezza puntata del Grande Fratello, edonismo al massimo, le tre I ecc.
 Ora del vuoto berlusconiano non si parla più. Di colpo è colpa dei cattivi social network che ci costringono ad una vita connessa. Non penso. O non penso che il problema sia solo quello. Rispolveriamo la vecchia teoria e magari un'analisi più profonda del "I ragazzini di oggi leggono poco perché l'introversione viene condannata socialmente" ci scappa.
 Pasolini scriveva che "E' la falsa tolleranza a rendere i giovani nevrotici". Io un pensierino al riguardo ce lo farei.

Un ultimo appunto, se posso sull'adagio: "All'università ORA non si studia, non come ai miei tempi."
 La Mastrocola lancia un lamento a nome dei prof universitari costretti a corsi innumerevoli che non consentono loro di studiare come vogliono. 

Io ho frequentato La Sapienza (posso dirlo, l'hanno fatta altre centinaia di migliaia di persone), ci mettevo quasi due ore ad arrivare e due ore a tornare a casa, ossia 4 ore della mia vita sui mezzi, perché non potevo permettermi una stanza in città.
 Spesso e volentieri giungevo e lezione non c'era, era stata spostata, ricordo un esame il 27 luglio a cui il prof non si presentò (ce ne furono altri annullati, ma quello in particolare mi rovinò le vacanze), esoneri mai visti né conosciuti (visto che pare ci sia abbondanza di esoneri secondo lei), professori che iniziavano lezione e sparivano a metà dimenticandosi di avere una classe in attesa (successo), libri che si pretendeva comprassimo perché frutto degli studi meravigliosi del prof (peccato che uscissero dopo la sessione e lui pretendesse che saltassimo la sessione per aspettare i tempi della casa editrice) ecc. ecc. Potrei continuare all'infinito.
 Non ho mai visto i miei prof oberati da mille corsi, non ho mai fatto esami da 100 pagine e basta (e ne ho fatti 52, quindi forse erano mediamente meno cicciuti di quelli fatti da lei, ma sono almeno il doppio).
 Non solo, ho anche avuto la sventura di viverci per un anno con una prof universitaria.
 Una che si alzava la mattina, studiava quel tanto, non andava quasi mai a lezione (annullandola all'ultimo of course), si scocciava se doveva andarci e passava il suo tempo a fare i suoi comodi.
 Un caso probabilmente non è indicativo, ma sono finita proprio a coabitare con questo insopportabile esemplare che molti dubbi ti fa venire sullo studio universitario, e non per la quantità di opprimente lavoro degli insegnanti.
 Perciò prima di lanciare il peana dell'insegnante oppresso, io lancerei anche il peana dello studente universitario oppresso, che da questo libro, pare venga coccolato e studi 100 pagine per sbaglio e pure male. Per onestà intellettuale, direi che non è che è proprio così.

giovedì 17 settembre 2015

"La domanda da non fare mai" un esasperato fumetto sul terribile quesito che ha il potere di imbestialire le genti all'istante: vuole un sacchetto?

Oggi avevo iniziato a disegnare il reportage di Rimini, ma si è rivelata una cosa troppo luuuunga per questo pomeriggio, così ho virato verso un problema molto sentito da tutte le persone che lavorano in negozio: il dramma dei sacchetti/buste.
 Ci sono delle cose che a quanto pare mandano il sangue al cervello all'istante. Puoi sopportare il capo che ti vessa, l'imbecille che ti insulta, la moglie o il marito che ti esaperano, l'amico che ti fa aspettare 40 minuti sotto il portone, il tram che ti appieda per tre corse, ma la domanda "Vuole un sacchetto?" risveglia torbidi istinti di ira primordiale.
 La faccio breve e vi rimando direttamente al fumetto "La domanda da non fare mai", un insieme di cartoline dalla libreria, come già ho fatto in occasione del Natale e degli indizi dati per ritrovare i libri senza sapere titolo o autore.
 Buona fumettosa lettura!






mercoledì 16 settembre 2015

I premi della rete applicati alla letteratura. Chi verrebbe candidato ai premi più focosi della letteratura? Polemiche verso la morale comune, perfidissimi cattivi, foodblogger, community, Machiavelli, futuristi e molto altro in questa lista delirante.

L'idea primigenia di questo delirante post, mi è sorta durante l'interminabile premiazione dei Macchianera (oh, 'sta settimana rassegnatevi, è l'argomento principe).
 Mi sono chiesta: ma se fossero esistiti nei secoli, dei premi del genere, chi in ambito letterario/saggistico li avrebbe vinti?
 Pensiamo ad un Oscar Wilde nel 2015. Oltre ad essere un drammaturgo di successo in quel di Londra, sposato col suo compagno (e ben lungi dall'essere gettato in una cella perché omosessuale), avrebbe di certo un blog di estremo successo che fagociterebbe Perez Hilton e BuzzFeed in una sola rapida mossa.
 Ma allora quali altri scrittori, filosofi, saggisti vari del passato sarebbero stati candidati? Inizialmente volevo scrivere i soli vincitori per singola categoria, poi oh, m'è presa la mano. Magari nei commenti, se vi va, scrivetemi chi, secondo voi, sarebbe l'indiscusso vincitore del suo girone.
 Forza, due risate non hanno mai fatto male a nessuno!


MIGLIOR POLEMICA:

- Albert Camus vs Jean-Paul Sartre
- Giordano Bruno vs Chiesa Cattolica
- Catullo vs la Friendzone
- Cicerone vs Catilina
- Oscar Wilde vs la Morale comune
- Giovenale vs Le donne
- Antonio Gramsci vs Gli indifferenti
- Filosofe femministe vs Patriarcato
- Ipazia vs vescovo Cirillo


PEGGIOR CATTIVO:

- Pietro Aretino
- Gabriele D'Annunzio
- Martin Heiddeger
- Nerone
- Yukio Mishima
- Benvenuto Cellini
- Catone il censore

MIGLIOR ARTICOLO:

 - Madame de Stael per il suo celebre articolo "Sulla manierà e l'utilità delle traduzioni"
- Sidney Sonnino per "Torniamo allo statuto"
- Santa Caterina da Siena per le convincenti lettere che ricondussero il Papa a Roma da Avignone.
- Epicuro: "Lettera sulla felicità"
- Emile Zola: "J'accuse"
- Olympe de Gouges "Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina"
- Pietro Verri con "Osservazioni sulla tortura"
- Cesare Beccaria con "Dei delitti e delle pene"
- Ada Lovelace per la nota introduttiva e la traduzione dell'articolo di Luigi Menabrea "The Sketch of Analytical Engine"


MIGLIOR FOODBLOGGER:

- Pellegrino Artusi
- Il cucchiaio d'argento
- Apicio col "De re coquinaria"
- Amalia Moretti Foggia con "Le ricette di vita del dottor Amal e Petronilla"
- Filippo Tommaso Marinetti "Manifesto della cucina futurista"
- Maestro Martino da Como col "Libro de arte coquinaria"
- Alice Toklas per "I biscotti di Baudelaire"


MIGLIOR COMMUNITY:

- Gaio Cilnio Mecenate e i suoi protetti
- Gertrude Stein e il suo salotto parigino
- Socrate e i simposi (testimonianza di Platone)
- La corte di Carlo Magno
- La corte di Eleonora d'Aquitania
- Il gruppo 63
- Esistenzialisti francesi
- La scuola pitagorica


MIGLIOR BATTUTA:

- Voltaire: "Non sono d'accordo con quel che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire" (in realtà di Evelyn Beatrice Hall")
- Maria Antonietta d'Austria: "Se non hanno più pane, che mangino brioche!"
- Cesare: doppia nomination per "Il dado è tratto" e "Tu Quoque, Brute, fili mei"
- Galileo Galilei: "Eppur si muove!"
- Alessandro Manzoni: "Questo matrimonio non s'ha da fare"
- William Shakespeare: "Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo"
- Alexandre Dumas: "Uno per tutti, tutti per uno"
- Niccolò Machiavelli: "Il fine giustifica i mezzi"
- Luigi Mercantini: "Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti" (ne "La spigolatrice di Sapri")
- Dante: "Non ti curar di loro, ma guarda e passa"


MIGLIOR SITO TECNICO-SCIENTIFICO:

- Cartesio col "Discorso sul metodo e altri scritti"
- Galileo Galilei per il suo "Dialogo sopra i massimi sistemi"
- Keplero per "L'armonia del mondo"
- Federico II col suo trattato "De arti venandi cum avibus"
- Claudio Tolomeo per "L'Almagesto"
- Averroè
- Lucrezio col "De Rerum natura"
- Archimede 
- Pico della Mirandola (nonostante i suoi controversi studi sull'alchimia e l'astrologia)

MIGLIOR SITO POLITICO:

-Niccolò Machiavelli con "Il principe"
- Francesco Guicciardini
- Antonio Gramsci
- Platone "De republica"
- John Locke per "Due trattati sul governo"
- Pier Paolo Pasolini per "Scritti corsari"
- Jean-Jacques Rousseau con "Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza"
- Rosa Luxemburg per i suoi numerosi scritti politici.
- Alexis de Tocqueville con "La democrazia in America"
- Karl Marx per "Il capitale"

MIGLIOR SITO SATIRICO:

-Oscar Wilde per i suoi aforismi
-Seneca per "L'apokolokyntosis"
-Petronio: "Satyricon"
-Marziale: "Satire"
-Aristofane
-Dante per "L'inferno" (poi si è perso per strada).
-Luciano "Storia vera"
- Miniaturisti medievali per le loro deliziose follie a bordo pagina
- L'umanità intera per l'esistenza dei proverbi.


MIGLIOR BLOG DI VIAGGI:

- Bruce Chatwin "In Patagonia"
-  Ryszard Kapuscinski
- Gertrude Bell
- Senofonte "L'anabasi"
- Goethe "Viaggio in Italia"
- Marco Polo "Il milione"
- Cristoforo Colombo "Diario di viaggio"
- Roald Amundsen "Il passaggio a nord-ovest"
- Omero "Odissea"

MIGLIOR SITO EDUCATIONAL:

- Maria Montessori
- Seneca, per l'egregio lavoro svolto con Nerone
- Aristotele per il suo impegno come precettore di Alessandro Magno
- Edmondo De Amicis per "Cuore"
- Mishima con "Lezioni spirituali per giovani samurai"
- Don Milani con "Lettera a una professoressa"
- Marchese De Sade per "Dialoghi per l'educazione delle fanciulle"
- Euripide con "Medea"

MIGLIOR SITO BEAUTY:


 - Caterina Sforza per "Ricette d'amore e di bellezza"
- Trotula 'de Ruggiero con "L'armonia delle donne"
- Ovidio con "Medicamena Faciei Faeminae"
- Mariniello "Gli ornamenti delle donne"
- Rose Bertin "La sarta di Maria Antonietta"
- Giacomo Leopardi per il suo "Dialogo della moda con la morte"
- Cesare Vecellio per il suo trattato "Habiti antichi et moderni di tutto il mondo"
- Giovanni della Casa "Galateo"

Mi fermo qui, pareva un elenco tanto semplice, ci ho lavorato ore -.-" 
 Siete concordi con le mie proposte o ne avete altre?
Chi dovrebbe vincere per ogni sezione? Date un senso al mio faticoso delirio e partecipate!

domenica 13 settembre 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Scoperte"!

Ed ecco la vignetta della domenica.
 Ieri ho marinato perché, come ormai saprà fino allo sfinimento chi mi segue su fb, sono andata a Rimini per la festa della rete.
 Il blog era candidato tra i dieci migliori siti letterari e devo dire che la festa, soprattutto la premiazione, è stata un'esperienza, a tratti molto bella, a tratti molto surreale (la premiazione ha raggiunto picchi di rara follia). Ma fumetterò tutto in un reportage in settimana.
 Come promesso, mi sottoporrò alla tortura di "Grey", lo leggerò e fumetterò, chissà mai cosa penserà l'uomo più desiderato dalle sciure di tutto il mondo.
 Vabbeh, di seguito la vignetta del giorno, nella quale potrete vedere pronunciata una frase amatissima da molti clienti "Dovevo fare il libraio"
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Scoperte"!


giovedì 10 settembre 2015

La cognizione del dolore di Maurizio De Giovanni. Il commissario Ricciardi, la fredda narrativa italiana e quel misterioso, terribile fiume che è il dolore, il nostro e quello degli altri.

 Qualche anno fa mia madre si appassionò molto ad una scrittrice italiana: Benedetta Cibrario.

 Un Natale le comprai "Sotto cieli noncuranti"  e durante il lungo viaggio in treno verso casa pensai bene di leggermelo e buttai in tal modo ben tre ore della mia esistenza

 La trama aveva tutte le carte in regola per essere una tragedia
molto toccante in forma di 
pseudogiallo: un magistrato con tre figlie perde la moglie, investita una sera mentre porta fuori il cane. 

Nel mentre si trova ad indagare, con l'aiuto di una giovane psicologa (con ascendenze montane, non ricordo esattamente di dove, ma indimenticabile il pezzo in cui porta le bambine in montagna in mezzo a gente che parla poco perché "in montagna sono fatti così"), sul caso di un bambino precipitato da un palazzo: è caduto per sbaglio o ce l'ha buttato qualcuno.

 La trama fila, il finale non si intuisce subito, ma il libro ha un enorme problema: è freddo, freddo, freddo, come l'inverno in cui è raccontato.

 Per incredibile che possa essere, l'autrice è riuscita nella difficile impresa di infilare due morti atroci, tre minori che soffrono, genitori rimasti senza figlio e un vedovo inconsolabile, senza che una goccia di vago dolore trasudi dalle sue pagine.

 Il caso della Cibrario è, per me, forse il più emblematico di quello che è un enorme problema della narrativa italiana: il racconto del dolore.

 Rarissimamente gli autori che si confrontano con una narrazione del genere riescono nell'intento di restituire a chi legge quel flusso di indomito dolore che attraversa i loro personaggi. Il difficile non è tanto farci venire il dubbio su chi ha ucciso quel bambino, se pure qualcuno lo ha ucciso, ma precipitarci nel vortice doloroso di cui sono preda i personaggi, esattamente come ne sarebbero preda le persone coinvolte se fosse un fatto reale.

 Generalmente quando uno scrittore non è capace di gestire il dolore, di farsi da medium tra la tristezza immensa del mondo che crea e i sentimenti del mondo che lo legge, si rifugia in quella grande beffa che è: la negazione del dolore.
Tra l'altro, forse anche per gli occhi verdi in comune, mi è molto
difficile non immaginare il commissario Ricciardi con le
fattezze di De Giovanni stesso

 Questa frase, che io tradurrei anche con "buttarla in caciara", dona allo scrittore l'illusione di una giustificazione del fatto che di quel dolore non si parli e quel dolore non si senta: chi mai vorrebbe provare dolore? Chi mostrerebbe il suo volto affranto? Non ci teniamo sempre tutti a far vedere che non è successo nulla? Che siamo forti? 


 Ebbene, no. Non ci teniamo tutti. Ci sono persone che effettivamente negano il dolore (ma, non possono negarlo per sempre, prima o poi devono farci i conti, è come una ferita che se non curi manda il corpo in cancrena), ma tendenzialmente il dolore si affronta, qualcuno soccombe, la maggior parte, in un modo o nell'altro sopravvive. 

Nei romanzi italiani, invece, quasi sempre i personaggi negano il dolore e via con dio, un giorno si sfogheranno con qualcuno, ricorderanno placidi momenti, capiranno che il dolore è finito o ci faranno i conti trent'anni dopo, come una cambiale che, a quanto pare puoi rimandare all'infinito.

 Ora. Comprendo che ci sono vari motivi per cui non si vuole parlare di dolore. Alcuni di questi sono sociali (il dolore al giorno d'oggi è una cosa brutta, superflua, vivi e vai avanti, chi è morto vorrebbe tu facessi così. chi ti ha lasciato non ti merita ecc), altri sono di pura incapacità scrittoria (descrivere il dolore non è poi questa passeggiata di salute, bisogna avere una cosa chiamata talento e non si compra per strada), altri sono, credo, di inconsapevolezza (è davvero necessario parlare del dolore?).

 Tuttavia, penso anche che la letteratura non abbia motivo di esistere se non parla delle fondamenta dell'animo umano, che, per carità, non deve rotolarsi nelle pieghe della tragedia, ma non deve neanche fingere che basti dire "Nego il dolore poi si vedrà", per chiudere il discorso. 

 Il dolore, spesso, è come un fiume che scorre quieto, ma inarrestabile, attraversa il corpo, le vene, il cervello, e non c'è diga che tenga. Sta lì e la sorgente non puoi bloccarla consapevolmente. Puoi abituarti e aspettare aspettare aspettare. Il tempo prosciuga (quasi) ogni fonte, prima o poi.

Questa introduzione immensa è il motivo per cui dovete leggere Maurizio De Giovanni. 

 Per vari anni ho girato attorno ai suoi libri, indecisa perennemente se gettarmi sull'ennesimo commissario o meno. Poi, questa estate mia sorella mi ha prestato "L'omicidio Carosino", il racconto giallo con cui vinse il concorso che lo gettò, già quarantenne, nel mondo degli scrittori italiani più letti. 

 La storia era semplice semplice, il giallo forse neanche poteva considerarsi tale visto che si risolveva da solo, ma c'era una cosa assolutamente indimenticabile nel suo commissario Ricciardi: quella incredibile, voluta, decisa, sfacciata insistenza sul dolore.

 Il commissario Ricciardi che vede le anime dei morti di morte violenta insistere con la loro vaga immagine dolente sul luogo dove sono stati strappati alla vita, è un uomo a cui il dolore non lascia scampo. 

 E' votato al dolore altrui e, cosa interessantissima per un personaggio italiano, non lo è per una supposta redenzione o per una qualche confidenza col sacro (neanche un sacro privato e gestito privatamente), lo è perché non può fare altrimenti. 

Tentare attraverso le indagini di dare una giustizia ai defunti, pur non credendo ad una vita eterna, pur non avendo nessun dio in cui confidare, rende il suo personaggio disperatamente senza conforto, ma incredibilmente nobile, un essere umano che non ha bisogno della zolletta di zucchero della vita eterna per amare il suo prossimo. 

I suoi fantasmi non spariscono trovando pace dopo che ha trovato il loro assassino, insistono dolenti ripetendo incessantemente le loro ultime parole. E cosa può fare un uomo che vede i vivi e i morti al tempo stesso?

 In un romanzo qualunque andrebbe dal prete o su un eremo, troverebbe un modo per gestire il proprio dolore, magari negandolo, magari inventando mantra a caso per proteggersi.

  In un giallo qualunque salterebbe direttamente il problema: un commissario è abituato a morti, robe violente varie, al massimo ha un singolo caso che lo ossessiona per qualche motivo particolare (non fatemi pensare a Markaris che le vittime a stento le considera esseri umani).

  In un romanzo di De Giovanni no. 

 Questo scrittore lascia che il suo triste commissario si faccia attraversare continuamente dalla corrente del dolore altrui senza trovare scuse, palliativi, negandosi l'amore, l'amicizia persino il risentimento o la rabbia. Porta la sua croce in silenzio, pensando con pietà ai propri simili, che tante altre croci hanno da portare tutti i giorni in una Napoli poverissima e disperata.

 Il vero motivo per cui leggere i romanzi di De Giovanni (almeno quelli del commissario Ricciardi) non è la bella scrittura, le trame fluide, i comprimari benissimo delineati, una Napoli anni '30 incredibile, ma quella cognizione del dolore, quella pietà immensa che non si trova quasi mai nei romanzi e lascia un interrogativo alla fine della storia e non di natura giallistica.

 Quanto, noi tutti, ogni giorno, ci curiamo del dolore degli altri? 

 Sembra una domanda oziosa, ma pensateci mezzo minuto e ditemi se continua ad esserlo.

lunedì 7 settembre 2015

Perché non usciamo dalla casa stregata? "L'incubo di Hill House" di Shirley Jackson tra lezioni di ballo, tensioni erotiche imprevedibili e l'insondabile mistero della cattiveria umana.

Forse non tutti sanno che, alla scuole medie, non è obbligatorio studiare flauto. 
Il programma di educazione musicale, infatti, prevede che si possa dare sfogo ad un'attività musicale pratica anche attraverso il canto e il ballo.
 Al culmine della pigrizia studentesca, la mia classe, pur di non prendere uno strumento musicale in mano, implorò la vegliarda professoressa di musica prima di dedicarsi al canto, poi, per due anni, al ballo. Pensavamo che ciò ci avrebbe messo al riparo da studi casalinghi supplementari (con tutto il bene, nessuno può verificare che tu abbia ballato con solerzia a casa).
 La cosa ovviamente ci si ritorse contro: fomentata dall'insperato evento, la vegliarda tirò fuori un'assurda coreografia ispirata ad un canto popolare piemontese (perchè? non si sa) e pretese che provassimo un pomeriggio ogni due settimane in previsione di un saggio di fine anno. 
 Le ultime prove dovettero essere fatte ove tale saggio avrebbe avuto luogo: una chiesa sconsacrata su cui generazioni di writers avevano dipinto vari insulti innominabili. Un pomeriggio la prof si dimenticò di noi, così ci trovammo, un branco di tredicenni, alle tre del pomeriggio nel niente a fissare un portone. Dopo mezz'ora fu chiaro che costei non sarebbe arrivata, ma, visto che i cellulari ancora non erano tra noi e ci avrebbero recuperato solo un'oretta dopo, decidemmo di fare una gita alla casa dell'impiccato.
 Tale casa era una palazzina sfitta da svariati anni che si diceva fosse in tale stato a causa di una serie di impiccagioni seriali dei padroni di casa (leggenda senza alcun fondo di verità). Presi da euforia commettemmo un'effrazione e iniziammo a girare per la magione che si rivelò non abbandonata poi da così tanti anni (c'erano ancora mobili, malgrado i vetri e la porta rotti). Dopo una mezz'ora inquieta, uno di noi strillò e ci precipitammo tutti fuori in preda ad immotivato panico. La colpevole del grido aveva visto un topo, ma di fantasmi di impiccati neanche l'ombra.
 Terminammo il nostro momento Stephen King inseguiti dal vicino di casa, a quanto pare esasperato dalle continue incursioni di ragazzini nella casa abbandonata. Tacemmo il reato, in fin dei conti, una volta ispezionata, la palazzina non aveva questo gran fascino fantasmagorico e la sensazione di essere entrati in casa altrui (per quanto abbandonata), si rivelò alquanto spiacevole. Per la cronaca la prof non arrivò mai, aveva sbagliato giorno.
 Tutta questa pappardella è per introdurre un bel libro di Shirley Jackson, maestra dell'horror amatissima da Stephen King e Dorothy Parker, che, negli anni '50 (prima di morire prematuramente), scrisse una serie di romanzi di successo che ponevano le basi per una delle pietre miliari del perturbante cinematografico: la casa infestata dalla quale, la gente dentro, per qualche motivo non scappa mai.
 La quarta di copertina de "Gli incubi di Hill House" (che in una prima traduzione era intitolata "La casa degli invasati" non so bene perché) si apre con un interrogativo che tutti, prima o poi, nella vita ci siamo posti: "Per quale motivo, se non l'insipienza degli sceneggiatori, nei film horror la gente non trova la via della porta delle case stregate (se non di notte, col buio e generalmente in un bosco)?".
 Il libro della Jackson con garbo estremo, un'atmosfera da film d'antan, personaggi magnificamente doppi e persino una grossa dose di autoironia, ce lo spiega in questo libro che ebbe suo malgrado una terrificante trasposizione cinematografica ("Haunting- Presenze") in cui nessuno degli attori scelti era calzante per il ruolo.
 La storia inizia con la trentenne Eleanor "Nell" Vance che riceve l'invito da uno stimato antropologo appassionato di paranormale, a passare un certo periodo di tempo in una casa che lui ritiene profondamente infestata da spiriti, "Hill House". Eleanor ha accudito la madre malata per anni, una donna di cui si intuisce essere stata profondamente succube e la cui morte l'ha molto segnata. I lunghi anni che le ha passato accanto l'hanno resa una persona fragile, introversa, ma anche un filino paranoica, invidiosa e fondamentalmente quel che a Roma si definirebbe un accollo.
 Perché l'ameno prof ha scelto proprio lei per indagare il mistero che avvolge l'orrida casa, costruita volutamente male da un signorotto morboso con le figlie e ossessionato dall'inferno? Perché dopo la morte del padre lei e sua sorella erano state vittima di un fenomeno paranormale peculiare: per tre giorni erano state investite da una pioggia di pietre rotolanti dalle pareti di casa.
Quando giunge sognante al maniero incontra i suoi compagni di avventura: la bella e volitiva (e un filino prepotente) Theodora, una ragazza lesbica con poteri vagamente telepatici e Luke, il nipote della proprietaria di Hill House. I tre, assieme al prof, e successivamente alla sua invadentissima moglie, abitano per una settimana Hill House in un crescendo ansioso che si risolve in un finale tanto tranquillo quanto terrificante.
 Due sono le cose estremamente interessanti di questo libro:
Ve lo giuro un cast scelto peggio rispetto ai personaggi del libro,
era difficilissimo caparlo
1) I personaggi del romanzo, nonostante l'evidente infestazione, non scappano in effetti da casa e il motivo viene spiegato: la casa, in qualche modo, è un'entità che non solo li corrompe, ma li ammalia. Il terrore si fonde ad una strana euforia dalla quale gli abitanti diventano dipendenti, in un misto di terrore e piacere molto sottile.
2) I fantasmi non sono la cosa più terrificante della trama. Essi, assieme alla forzata clausura, fungono da catalizzatore a ciò che esiste di veramente orribile a questo mondo: la cattiveria degli esseri umani nei confronti dei propri simili.
 Come avviene in tutti i piccoli gruppi, individuare l'elemento debole, quello nei confronti del quale indirizzare tutte le accuse, gli scherzi, le battutine e frecciatine, (per poi, davanti alla sua ribellione accusarlo di paranoia o di voglia di attirare immeritate attenzioni), è un attimo. Talmente tanto semplice che individuarlo, anche per il lettore, è facilissimo.
 Luke è il classico ragazzotto allegro, amato e ricco (malgrado le mani bucate), il professore funge da classico adulto che considera stupide le schermaglie tra ragazzini fino a quando non è troppo tardi, Theo è la bella, vincente, con un appartamento suo, una vita indipendente, il guardaroba bellissimo e la battuta avvelenata pronta. L'amica, insomma, che davanti è uno zucchero, poi ti giri e ti fa apparire un mostro agli occhi degli altri.
 Quello che scombina l'ovvio piano narrativo è la tensione erotica che si crea tra i personaggi che crea un triangolo ben lontano da quello prevedibile.
"La lotteria" è il racconto che dà il titolo
alla raccolta, e narra di un piccolo ameno
paesino dove è in corso una lotteria tra tutti
i bravi abitanti del paese. Ma perché?
 Nell è profondamente affascinata per la prima volta in vita sua da una persona e quella persona non è Luke, ma Theo a cui tenta di accollarsi giurando che vivranno insieme e che, al termine dell'avventura, diventeranno coinquiline. Theo prima la stuzzica (principalmente per dare polpette di manzo al proprio ego), poi quando capisce che ha davanti una persona un filino emotivamente instabile cerca di respingerla con garbo/cattiveria. 
 Nel frattempo la casa trama nell'ombra ed esaspera animi già parecchio esasperati di loro ponendoci davanti un interrogativo: potrebbe la casa avere un qualche effetto sui suoi ospiti se essi non nascondessero nel profondo un qualche tipo di meschinità?
 Ovvero, è la casa ad essere malvagia o semplicemente essa attecchisce dove trova un fertile terreno? Forse non basta correre via da una casa per sfuggire alla cattiveria che nascondiamo nell'animo, a quella voglia di umiliare il prossimo, a quella crudeltà che non sappiamo riconoscere e che è prevaricazione del prossimo, gratuito scherno, desiderio profondo di dimostrare che altri sono inferiori per sentirci superiori. 
 Shirley Jackson sapeva bene che ci sono mura dalle quali non si può uscire, quelle che costruiamo noi e non vediamo, mura invisibili che diventano invalicabili e da cui sfuggire può diventare uno sforzo superiore alle nostre forze, naturali e sovrannaturali.

Ps. Di Shirley Jackson ho letto anche la raccolta di racconti "La lotteria" e sono alla ricerca di "Abbiamo sempre vissuto nel castello". I racconti confermano la sensazione dell'horror usato come mezzo per dimostrare il perturbante presente nella società.

domenica 6 settembre 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "E morì".

Continuano le avventure di uno dei titoli più storpiati degli ultimi anni.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "E morì"!
(Ps. Volevo farmi perplessa, per sbaglio mi son fatta arrabbiata)


Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Spelling".

Al mondo esistono tanti scrittori e tante scrittrici, i più dei quali ovviamente stranieri. 
 Che un libraio possa conoscere l'esatta trascrizione di ogni cognome sulla faccia della terra, in qualsiasi lingua, dall'ungherese al polacco passando per il cinese e lo sloveno, mi pare piuttosto improbabile.
 Per questo motivo si chiede un ogni tanto un vago spelling ai clienti, specialmente quando la pronuncia lascia talmente a desiderare che pure interrogando google non si saprebbe bene manco da dove cominciare a scrivere.
 I risultati sono alterni, come quello della vignetta sotto. 
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Spelling"!



ps. Per contro esistono clienti che si sentono in dovere di fare lo spelling non richiesto di cose ovvie, tipo Calvino. Ecco, in quel caso sappiate che il libraio di turno potrebbe sentire la sua intelligenza vagamente offesa.
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