domenica 27 febbraio 2022

Il corpo è minore se non riusciamo mai a liberarci dello sguardo degli altri. Una recensione di "Corpi minori" in una Milano crudele che dona, brilla, pretende e divora

 E' un po' complicato scrivere questa recensione su “Corpi minori”, secondo romanzo di Jonathan Bazzi, astro nascente della narrativa italiana, celebratissimo dopo lo splendido (a me piacque davvero tanto) esordio, “Febbre”.

Tuttavia, sebbene tema, vista l'interminabile ondata di recensioni lusinghiere, di attirarmi gli strali di chiunque, ci tenevo a farla.

 Quando scrissi la recensione di “Febbre” ebbi l'impressione che il suo allora editore, Fandango, non avesse ben capito la bomba che aveva tra le mani e, nel tentativo (giusto a livello commerciale) di dargli maggiori pezze di appoggio, avesse puntato a presentarlo come un libro in cui si parlava anche della condizione contemporanea di qualcuno che ha fatto coming out come sieropositivo.

 In verità, come ormai ben sappiamo, quel libro parlava di altro: una giovane vita con una sensibilità altissima e un certo personale grado di inquietudine ed eclitticità immersa in un contesto familiare e periferico che di sensibile ed eclettico non aveva niente.

 Ho come la sensazione che anche “Corpi minori” sia un libro presentato (in realtà in questo caso anche pensato) con un certo tema di fondo, ma che in realtà sarebbe stato molto più efficace e sincero se si fosse accorto di parlare di altro.

 Sin dall'incipit che dal titolo che dalla frase scelta su retro della copertina, si evince che l'idea di fondo sia quella di presentare una sorta di educazione sentimentale dell'autore/protagonista (essendo, anche questo un memoir) nei confronti della persona amata e nei confronti di Milano.

 In verità, il libro, a mio parere è una grande occasione persa per parlare di qualcosa che affiora e si prende continuamente la scena, in qualsiasi momento, e che divora le varie storie sentimentali e i molti discorsi in cui l'autore si aggroviglia.

 Dico questo, subito, perché a me piace moltissimo come scrive Bazzi, ma non quando usa molti lunghi periodi circonvoluti per giustificare azioni discutibili agli occhi del lettore.

 Non sta alla narrativa essere accomodante, ma se ti esponi al giudizio poi non è scontato che io riesca a empatizzare perché qui e lì scodelli qualche lunga dissertazione sui corpi desideranti.

I corpi desideranti non sono comunque autorizzati a fagocitare le esistenze altrui.

Ma andiamo un po' oltre, perché su questo, tornerò. Il vero tema del libro, quello che si prende la scena è evidentemente MILANO.

 Milano è una città difficile da capire per chi non l'ha vissuta, come in verità tutte le città.

 Ma soprattutto è una città difficile da capire per chi non l'ha vissuta senza avere soldi o una famiglia dietro.

 Lo dico con la massima cognizione di ogni causa. Quando andai al nord, avevo letteralmente 500 euro in tasca, senza aiuti, e ho vissuto numerose situazioni picaresche che ho rivisto con una certa dose di empatia nel libro di Bazzi.

 Premetto. Non ho mai subaffittato niente a nessuno né mi sono mai permessa cose che il mio ignobile stipendio di molti anni non mi abbia concesso di fare. Lo sottolineo perché Milano è una città incredibilmente diversa, e sottolineo INCREDIBILMENTE, per chi ha e non ha i soldi.

Non è solo questione di affitto, è questione di opportunità.

 Assai più di qualsiasi città italiana, Milano è un posto dove qualcuno di brillante, pur non essendo necessariamente figlio di qualcuno, può farcela. Questo non significa che sia un paradiso meritocratico, anzi, l'alta borghesia riserva sempre le giuste quantità di posti di lavoro sopra una certa RAL ai propri rampolli. Lo fa in tutti i settori, dal commercio all'editoria, dalle multinazionali al mondo culturale.

 Diciamo che, vuoi perché comunque si percepisce che i povery talentuosi possano essere un valore aggiunto, vuoi che ci sia ancora adesso una disponibilità lavorativa assai più elevata del resto d'Italia, ci sono molte variabili impazzite. Io, lo ammetto sono stata una di queste (ho svolto un lavoro che mai pensavo nella vita, ovviamente con un RAL da povera perché poi bisognerebbe anche aprire una discussione su questo, ma non qui).

 La variabile impazzita però non può essere presa come regola e cancellare tutte le persone che, non potendosi permettere stage non pagati e master esosi, si trovano a fare lavori malpagati vivendo in posti indecenti (ci ho vissuto anche io), affittati a prezzi da strozzini da gente o fondi immobiliari che posseggono interi palazzi. 

 Non può far dimenticare il fatto che a Milano paghi tutto e paghi tutto tanto e che questo, mi spiace, non sia giustificato da niente. Io sono anni che sono inferocita con l'idea delle gabbie salariali perché non c'è nessun motivo per cui uno stipendio del nord debba valere più di quello del sud solo perché al nord si specula con maggior follia.

Sulla Milano stratosferica e sbrilluccicante che tutto ha da offrire a chi viene dalla sua periferia o dal resto d'Italia, ma solo se sei hai il cash giusto, ci sarebbe da scrivere un libro di epica generazionale.
  E, in parte Bazzi sembra, qui e lì, che desiderasse quasi scriverlo.

 Per qualche motivo però ha deciso che no, il suo sarebbe stato un romanzo d'amore in cui spiegava una cosa in verità non molto interessante: ho un fidanzato bramatissimo, ma a un certo punto mi sembra di non amarlo più, cerco di capire perché, in qualche modo lo capisco (anche se nel libro onestamente non è molto chiaro cosa succeda a tal proposito) e via come se non fosse mai successo niente.

Non voglio essere brutale e non mi permetto di giudicare l'interiorità e il vissuto di Bazzi, ma analizzo il modo in cui l'ha raccontato e in cui l'ho percepito.

 Il racconto sull'emotività dell'autore, onestamente, non è che abbia fatto grande breccia nel mio animo.  La freddezza con cui liquida il povero primo fidanzato che lo mantiene per anni, il modo feroce col quale giudica praticamente tutti coloro che incontra, tentando di capire quasi sempre come sfruttarlo al momento a suo vantaggio, il suo vagare per università proposto come inquietudine di vita e morale non è che sia proprio la lettura più digeribile del mondo.

 Il libro mostra un autore che in parte, ripeto, si espone al giudizio altrui senza farsi sconti, ma in parte sembra nascondere un approccio incredibilmente egoriferito dietro a contorti concetti filosofici rubati qui e lì da insegnanti e autrici. Una citazione di De Monticelli o Stein è inutile se il libro non riesce andare oltre a una superficie e questo desiderio tra essere e apparire esplode anche a livello universitario.

Posso studiare alla Statale, ma perché non andare al San Raffaele? La scuola dei ricchi milanesi, simbolo e status?

Il problema, in generale, di tutto il libro, secondo me si esplicita proprio lì. 

 Bazzi non sembra avere non dico una coscienza politica o di classe, perché mi rendo conto che sono termini desueti, ma una coscienza del fatto che provenire da un ambiente sociale considerato minore è una percezione che introiettiamo dagli altri, ma quando esci dall'adolescenza, deve smetterla di essere un tuo problema.

Non c'è nulla da dimostrare, nessun simulacro a cui aggrapparsi, nessuna università cool da frequentare, nessun circolo di poetesse che fanno yoga e sussurrano alle orecchie, o credulerie sulla cabbala assieme a Paola e Chiara a cui aggrapparsi.

 La Milano di adesso si basa tanto su questo equivoco: l'idea che maggiore è lo splendore sociale che puoi dimostrare, maggiore sarà il tuo valore. 

 Quindi la laurea vale di più se è privata, sei più giusto se fai un lavoro fighissimo pagato una miseria e non il commesso da Zara con uno stipendio da CCNL del commercio, lo psicologo che ti cura è bravo solo se lo paghi tanto.

Non c'è valore oggettivo della persona, c'è il valore che quella persona può mettere sul piatto perché tutti lo ammirino. Partendo da questo presupposto, è ovvio che non si possa mai uscire dall'idea che comunque i natali te li ha dati la temibile Rozzano.

 Ed è proprio per questo motivo, credo, immagino, Bazzi non sia riuscito a scrivere un racconto picaresco sulla Milano brillante e feroce di adesso. Un enorme circo dove puoi ambire a tutto, ma il tuo valore è deciso, se non dalla famiglia, dal cash, e se non dal cash dai posti che frequenti, le persone che conosci, i circoli esclusivi dove bazzichi.

Ed è, sottolineo, un'epica oscura della città che ha radici profonde. 

 Se si legge Bianciardi, Milano è sempre stata così: pronta a ingoiare i suoi abitanti non integrati, a succhiarne lo spirito dopo avergli offerto opportunità che altrove sarebbero impossibili. Non puoi vivere da nessun'altra parte, ma se ci vivi, se non stai molto attento, ne vieni spolpato.

 Ma Bianciardi aveva una coscienza di sé, di ciò che era rispetto a Milano, del rancore e della riconoscenza che le portava, del dolore che questa città gli infliggeva e della riconoscenza che le doveva, che Bazzi non sembra neanche lontanamente contemplare.

 Milano è il posto dei sogni, un parco giochi che però caspita costa e allora troviamo un pollo a cui affibbiare quasi tutto l'affitto, della scuola privata da fare anche senza i soldi per farla, della voglia di viverci, ma di lavorare anche no, di mollare l'affitto non pagato ai coinquilini e di schifarli pure anni dopo. 

 Cosa c'è oltre al corpo desiderante che desidera e fagocita e pretende e fagocita in nome di un passato di svantaggio che pone in perenne condizione di risarcimento sociale?

Cosa c'è oltre alla citazione filosofica, se poi la città (e quello che ti fa) non riesci a vederla?

 Mi spiace, ma il libro, pur scritto davvero bene, per me è un'occasione mancata. Il memoir è un genere che dovrebbe andare oltre alla pirandelliana visione della realtà, raccontarci qualcosa anche di noi, cosa che in "Febbre" succedeva. 

 In "Corpi minori", personalmente, questa astrazione almeno io non l'ho avuta e, onestamente, le recensioni basate sullo sguardo borghese che gioisce del giovane autore che viene dalla periferia (consiglierei sul tema la lettura di quel capolavoro che sono le pochissime pagine autobiografiche di Scerbanenco), mi sembrano solo una conferma della mia sensazione generale.

domenica 13 febbraio 2022

Il lavoro, questo sconosciuto. Tra Aggretsuko e "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura, la grande scomparsa del lavoro dai grandi temi della narrativa

 E' una strana faccenda quella del lavoro al giorno d'oggi.

 Pur essendo la cosa più pervasiva della nostra vita, il luogo (oddio adesso con lo smart working è spesso un metaluogo) in cui passiamo più tempo e che assorbe la maggior parte delle nostre energie, pur essendo ciò che sostanzialmente determina se mangeremo, se avremo un tetto sopra la testa e altre facezie similari, è forse uno dei grandi temi meno indagati dal mondo audiovisivo e letterario.

 Al cinema non ci sono vie di mezzo.

 Si passa da situazioni sociali di indigenza totale o a un mondo meraviglioso e completamente immaginario e probabilmente qualche trenta-quarantenne vive sul serio, ma non io e neanche le persone che conosco (che non sono neanche così poche, anche se mi rendo conto che la classe sociale fa molto).

 Apprezzo che non si attribuisca alla mia generazione quella nevrosi da matrimonio imposto che in effetti si è smesso di vivere, (da questo punto di vista siamo indubbiamente più tranquilli dei nostri predecessori e abbiamo imparato dagli orribili film di Muccino), ma quello splendido universo fatto di case di design, lavori fighissimi e un tenore di vita che adesso può permettersi solo chi è ricco di famiglia, non fa che aumentare quella sensazione di disagio che provo spesso.

 Mi chiedo sempre perché solo io sono molto arrabbiata per le condizioni lavorative in cui versiamo, strabilio quando la gente si mette a discutere con me quando dico cose ovvie come "Se uno lavora dovrebbe essere pagato" (infiniti i distinguo sul tema che vanno dal povero imprenditore che paga tante tasse all'importanza di formarsi in eterno per essere il lavoratore perfetto che un'azienda cerca per circa 3 minuti ogni 5 noviluni quando Venere è in quadrante), mi abbatto e al contempo ho istinti di rivoluzione bolscevica quando scopro che la gente non solo accetta di non ricevere un compenso, ma ha anche un certo moto di fastidio se le fai notare che spaccarsi la schiena per un rimborso spese non ha nessun senso logico.

 Mi guardo attorno e nessuno parla mai davvero di lavoro se non quando qualcuno ne muore. 

 E anche lì, sono mesi che seguo con molta attenzione la vicenda della giovane dottoressa morta in Trentino a seguito di presunte (scrivo presunte perché fino ai tre gradi di giudizio si passano i guai) vessazioni, mobbing e bossing sul posto di lavoro.

 Lo seguo perché in passato alcune di quelle cose sono capitate anche a me e ho provato a parlarne con qualcuno, ma lo scetticismo generale (oltre a un certo fastidio) impongono poi un silenzio imbarazzato.  Devi andare avanti. Se sei fortunat* ci vai. E io in effetti ci sono andata. 

 Ma questo mi ha reso ancora più arrabbiata verso chi dipinge una generazione travolta da lavori favolosi e fantasiosi che nella realtà sono spesso trappole con orari assurdi e stipendi da fame, solitamente in mano ad un'élite di persone per puro merito ereditario o comunque estremamente caldeggiato dal milieu sociale di provenienza.

 Per dare una misura dell'imbarazzo in cui la produzione letteraria e audiovisiva versa, l'unica serie in cui ho visto vagamente affrontare il problema delle sottili trame psicologiche che possono rendere la vita lavorativa un inferno è stata Aggrestuko (per chi non sapesse di cosa parlo, potete andare qui).

So che molti non hanno apprezzato la nuova serie e in effetti anche io l'ho trovata sul finale un po' stralunata come se l'autore non sapesse bene come uscirne. Per il resto però i passaggi in cui il direttore delle risorse umane, il capo ufficio e il CEO collaborano per indurre i lavoratori al licenziamento, è forse una delle cose più veritiere che ho visto produrre sul mondo del lavoro negli ultimi anni.

 Forte di un immaginario statunitense, il mondo del lavoro che vediamo narrato ha sempre qualcosa di estremamente fiabesco.

 Il lavoratore/eroe del racconto è vessato e poco apprezzato nonostante le sue potenzialità. 

 Di solito la colpa non è solo del capo malvagio, ma anche sua perché è troppo timido, non si impegna o osa avere una vita privata. Accade qualcosa che porta il lavoratore a decidere se soccombere o sopravvivere ed egli, facendo sforzi sovraumani, andrà oltre i suoi limiti e diventerà il lavoratore modello (o se è donna sceglierà la famiglia o un lavoro più consono all'equilibrio tra vita privata e lavorativa).

 Quest'idea che il lavoratore sia sempre in qualche modo co-colpevole del proprio disagio è inquietante ed è solo l'ultima delle evidenti prove che il capitalismo ha vinto perché ci ha, come ne L'invasione degli ultracorpi, letteralmente svuotati di noi stessi e trasformati in altro.

 

Forse non a caso, essendo il Giappone un posto dove esiste una parola (karoshi) per indicare la gente che muore di super lavoro, mi è capitato di leggere anche un libro dedicato al mondo del lavoro: "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura.

 Non ne avevo letto recensioni positive, ma a posteriori ho come la sensazione che molte di esse dipendessero più dalle aspettative sul libro che sul libro stesso.

 Se si parla di lavoro l'idea, probabilmente, è che l'argomento debba necessariamente essere affrontato con la gravità che gli compete.

 In realtà il lavoro è un macrotema, come l'amore o le relazioni, quindi meriterebbe non dico altrettanti testi, ma molti punti di vista differenti e anche racconti che ondeggino tra la satira, la commedia, il reportage sociale per carità, e la psicologia.

 Quindi non ho trovato strano che il libro avesse dei toni più leggeri del dovuto nell'affrontare in verità un punto molto interessante: è possibile vivere il lavoro in un modo non totalizzante?

 La protagonista, dopo un burn out, si mette alla ricerca di un lavoro che sia il meno impegnativo possibile dal punto di vista mentale. 

 In questo la aiuta una sorta di navigator (a quanto sembra in Giappone l'idea del navigator funziona) che le propone di volta in volta lavori potenzialmente molto semplici, ma sempre con un tocco un po' surreale: guardare video di videosorveglianza per scoprire dove si trovi la refurtiva nell'appartamento di uno scrittore, appendere manifesti in giro per il quartiere, recuperare persone perdute in giro per un parco pubblico.

 Devo dirvi che mi sono immedesimata tantissimo nella protagonista perché anche io ho vissuto dei mesi in cui l'ultima cosa che volevo era un lavoro che mi impegnasse a livello mentale. Attualmente sembra che l'unico rapporto di lavoro benvisto e possibile nei confronti del lavoro sia un rapporto di totale assorbimento.  

 Noi dobbiamo farci assorbire dal nostro lavoro, qualsiasi altra modalità è vissuta con sospetto e anche una certa nota di biasimo.

 Nonostante i suoi buoni propositi, la protagonista si trova impelagata in una serie di situazioni che rendono ogni lavoro potenzialmente stupido, di colpo molto più impegnativo.

 In parte sono le richieste aggiuntive che ogni datore di lavoro fa in modo più o meno esplicito, in parte però c'è anche la sua volontà e il fatto che sia una donna molto intelligente e intuitiva. Non sono solo le pressioni esterne a spingerla a rendere più impegnativo il suo lavoro, ma anche la sua intelligenza impedirle di vivere in modo automatico anche l'impiego più semplice.

 Una sorta di trappola perfetta, alla quale riesce a sfuggire di volta in volta solo chiudendo il rapporto lavorativo.

 I capitoli, ognuno dedicato a un lavoro diverso, sono sostanzialmente dei microracconti e il finale è molto consolatorio e giapponese.

 Tuttavia il punto a mio parere è stato centrato: è possibile decidere volontariamente quale sarà il nostro rapporto col lavoro? Non sottovalutiamo tutti i fattori che come esseri umani e non automi ci rendono da una parte fallaci e dall'altra spesso troppo intelligenti per mansioni che svolgiamo o veniamo costretti a svolgere? 

 Quanto controllo abbiamo sul nostro lavoro e quanto il lavoro e le persone che ne fanno parte hanno controllo sulla nostra vita?

 Sono questi grandi temi sui quali amerei leggere molti romanzi, oltre alle dinamiche del sole cuore amore, delle famiglie disfunzionali, dei dilemmi interiori che ci macerano.

  Il lavoro non è solo il casuale sfondo per qualche dinamica relazionale o il romanzo alla Zola con grande affresco storico e drammatiche lotte sociali. Non è neanche un tabù, come invece sembriamo trattarlo sia nella vita reale che in quella di finzione.

 Il lavoro deve tornare ad essere centrale nel discorso, in tutti i discorsi e nella narrativa.

 Narratori di oggi e di domani, ci siete?

 

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