E' una strana faccenda quella del lavoro al giorno d'oggi.
Pur essendo la cosa più pervasiva della nostra vita, il luogo (oddio adesso con lo smart working è spesso un metaluogo) in cui passiamo più tempo e che assorbe la maggior parte delle nostre energie, pur essendo ciò che sostanzialmente determina se mangeremo, se avremo un tetto sopra la testa e altre facezie similari, è forse uno dei grandi temi meno indagati dal mondo audiovisivo e letterario.
Al cinema non ci sono vie di mezzo.
Si passa da situazioni sociali di indigenza totale o a un mondo meraviglioso e completamente immaginario e probabilmente qualche trenta-quarantenne vive sul serio, ma non io e neanche le persone che conosco (che non sono neanche così poche, anche se mi rendo conto che la classe sociale fa molto).
Apprezzo che non si attribuisca alla mia generazione quella nevrosi da matrimonio imposto che in effetti si è smesso di vivere, (da questo punto di vista siamo indubbiamente più tranquilli dei nostri predecessori e abbiamo imparato dagli orribili film di Muccino), ma quello splendido universo fatto di case di design, lavori fighissimi e un tenore di vita che adesso può permettersi solo chi è ricco di famiglia, non fa che aumentare quella sensazione di disagio che provo spesso.
Mi chiedo sempre perché solo io sono molto arrabbiata per le condizioni lavorative in cui versiamo, strabilio quando la gente si mette a discutere con me quando dico cose ovvie come "Se uno lavora dovrebbe essere pagato" (infiniti i distinguo sul tema che vanno dal povero imprenditore che paga tante tasse all'importanza di formarsi in eterno per essere il lavoratore perfetto che un'azienda cerca per circa 3 minuti ogni 5 noviluni quando Venere è in quadrante), mi abbatto e al contempo ho istinti di rivoluzione bolscevica quando scopro che la gente non solo accetta di non ricevere un compenso, ma ha anche un certo moto di fastidio se le fai notare che spaccarsi la schiena per un rimborso spese non ha nessun senso logico.
Mi guardo attorno e nessuno parla mai davvero di lavoro se non quando qualcuno ne muore.
E anche lì, sono mesi che seguo con molta attenzione la vicenda della giovane dottoressa morta in Trentino a seguito di presunte (scrivo presunte perché fino ai tre gradi di giudizio si passano i guai) vessazioni, mobbing e bossing sul posto di lavoro.
Lo seguo perché in passato alcune di quelle cose sono capitate anche a me e ho provato a parlarne con qualcuno, ma lo scetticismo generale (oltre a un certo fastidio) impongono poi un silenzio imbarazzato. Devi andare avanti. Se sei fortunat* ci vai. E io in effetti ci sono andata.
Ma questo mi ha reso ancora più arrabbiata verso chi dipinge una generazione travolta da lavori favolosi e fantasiosi che nella realtà sono spesso trappole con orari assurdi e stipendi da fame, solitamente in mano ad un'élite di persone per puro merito ereditario o comunque estremamente caldeggiato dal milieu sociale di provenienza.
Per dare una misura dell'imbarazzo in cui la produzione letteraria e audiovisiva versa, l'unica serie in cui ho visto vagamente affrontare il problema delle sottili trame psicologiche che possono rendere la vita lavorativa un inferno è stata Aggrestuko (per chi non sapesse di cosa parlo, potete andare qui).So che molti non hanno apprezzato la nuova serie e in effetti anche io l'ho trovata sul finale un po' stralunata come se l'autore non sapesse bene come uscirne. Per il resto però i passaggi in cui il direttore delle risorse umane, il capo ufficio e il CEO collaborano per indurre i lavoratori al licenziamento, è forse una delle cose più veritiere che ho visto produrre sul mondo del lavoro negli ultimi anni.
Forte di un immaginario statunitense, il mondo del lavoro che vediamo narrato ha sempre qualcosa di estremamente fiabesco.
Il lavoratore/eroe del racconto è vessato e poco apprezzato nonostante le sue potenzialità.
Di solito la colpa non è solo del capo malvagio, ma anche sua perché è troppo timido, non si impegna o osa avere una vita privata. Accade qualcosa che porta il lavoratore a decidere se soccombere o sopravvivere ed egli, facendo sforzi sovraumani, andrà oltre i suoi limiti e diventerà il lavoratore modello (o se è donna sceglierà la famiglia o un lavoro più consono all'equilibrio tra vita privata e lavorativa).
Quest'idea che il lavoratore sia sempre in qualche modo co-colpevole del proprio disagio è inquietante ed è solo l'ultima delle evidenti prove che il capitalismo ha vinto perché ci ha, come ne L'invasione degli ultracorpi, letteralmente svuotati di noi stessi e trasformati in altro.
Forse non a caso, essendo il Giappone un posto dove esiste una parola (karoshi) per indicare la gente che muore di super lavoro, mi è capitato di leggere anche un libro dedicato al mondo del lavoro: "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura.
Non ne avevo letto recensioni positive, ma a posteriori ho come la sensazione che molte di esse dipendessero più dalle aspettative sul libro che sul libro stesso.
Se si parla di lavoro l'idea, probabilmente, è che l'argomento debba necessariamente essere affrontato con la gravità che gli compete.
In realtà il lavoro è un macrotema, come l'amore o le relazioni, quindi meriterebbe non dico altrettanti testi, ma molti punti di vista differenti e anche racconti che ondeggino tra la satira, la commedia, il reportage sociale per carità, e la psicologia.
Quindi non ho trovato strano che il libro avesse dei toni più leggeri del dovuto nell'affrontare in verità un punto molto interessante: è possibile vivere il lavoro in un modo non totalizzante?
La protagonista, dopo un burn out, si mette alla ricerca di un lavoro che sia il meno impegnativo possibile dal punto di vista mentale.
In questo la aiuta una sorta di navigator (a quanto sembra in Giappone l'idea del navigator funziona) che le propone di volta in volta lavori potenzialmente molto semplici, ma sempre con un tocco un po' surreale: guardare video di videosorveglianza per scoprire dove si trovi la refurtiva nell'appartamento di uno scrittore, appendere manifesti in giro per il quartiere, recuperare persone perdute in giro per un parco pubblico.
Devo dirvi che mi sono immedesimata tantissimo nella protagonista perché anche io ho vissuto dei mesi in cui l'ultima cosa che volevo era un lavoro che mi impegnasse a livello mentale. Attualmente sembra che l'unico rapporto di lavoro benvisto e possibile nei confronti del lavoro sia un rapporto di totale assorbimento.
Noi dobbiamo farci assorbire dal nostro lavoro, qualsiasi altra modalità è vissuta con sospetto e anche una certa nota di biasimo.
Nonostante i suoi buoni propositi, la protagonista si trova impelagata in una serie di situazioni che rendono ogni lavoro potenzialmente stupido, di colpo molto più impegnativo.
In parte sono le richieste aggiuntive che ogni datore di lavoro fa in modo più o meno esplicito, in parte però c'è anche la sua volontà e il fatto che sia una donna molto intelligente e intuitiva. Non sono solo le pressioni esterne a spingerla a rendere più impegnativo il suo lavoro, ma anche la sua intelligenza impedirle di vivere in modo automatico anche l'impiego più semplice.
Una sorta di trappola perfetta, alla quale riesce a sfuggire di volta in volta solo chiudendo il rapporto lavorativo.
I capitoli, ognuno dedicato a un lavoro diverso, sono sostanzialmente dei microracconti e il finale è molto consolatorio e giapponese.
Tuttavia il punto a mio parere è stato centrato: è possibile decidere volontariamente quale sarà il nostro rapporto col lavoro? Non sottovalutiamo tutti i fattori che come esseri umani e non automi ci rendono da una parte fallaci e dall'altra spesso troppo intelligenti per mansioni che svolgiamo o veniamo costretti a svolgere?
Quanto controllo abbiamo sul nostro lavoro e quanto il lavoro e le persone che ne fanno parte hanno controllo sulla nostra vita?
Sono questi grandi temi sui quali amerei leggere molti romanzi, oltre alle dinamiche del sole cuore amore, delle famiglie disfunzionali, dei dilemmi interiori che ci macerano.
Il lavoro non è solo il casuale sfondo per qualche dinamica relazionale o il romanzo alla Zola con grande affresco storico e drammatiche lotte sociali. Non è neanche un tabù, come invece sembriamo trattarlo sia nella vita reale che in quella di finzione.
Il lavoro deve tornare ad essere centrale nel discorso, in tutti i discorsi e nella narrativa.
Narratori di oggi e di domani, ci siete?
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