mercoledì 16 novembre 2022

La matta nella soffitta. "The Crown 5" tra revisionismo, "Jane Eyre", saggi femministi e royal addicted.

 Come ho scritto molte volte, ho una certa passione per le storie delle case reali nata in tenera età non per una qualche tendenza assurdamente monarchica, ma a causa dei "Gente" che leggevo da mia nonna.

Come tutte le cose divulgative per un pubblico femminile, anche quel genere di riviste sono sottovalutate, ma la storia delle case regnanti, sebbene infiocchettata e romanzata a uso domestico, era letteralmente una parte della storia, non più distante dalle interminabili pagine sugli Asburgo, Asburgo-Lorena, Stuart, Orleans e qualsiasi casata regnante abbia infestato la storia moderna europea.

 Per qualche motivo che indubbiamente un buono psicologo saprebbe spiegare, durante la pandemia avevo trovato una nuova declinazione delle mie passioni reali, a uso instagram: le storie dei gioielli delle casate regnanti.

 Io sono una che nella vita mette addosso giusto la fede e un su coccu, ma di colpo, sotto gli strali del Covid, quando come tanti non riuscivo a dormire, mi sono scoperta appassionata di tiare, diamanti a taglio cuscino e cabochon. 

 Quello che mi affascinava era il fatto che dietro a tali gioielli ci fossero spesso storie intricatissime che di solito facevano capo a una qualche dinastia in disgrazia che, al culmine dell'infelicità e povertà, doveva disfarsi dei suoi gioielli (non sempre, qualche volta, raramente, c'erano storie di matrimoni felici).

 Tutto ciò mi ha portato involontariamente a contatto con uno strano mondo: quello degli appassionati di gioielli reali e di reali. 

 Visto l'argomento forse dovevo anche aspettarmelo, ma ho scoperto che tendenzialmente queste persone non erano come me, ossia non consideravano la monarchia un pezzo d'antiquariato della storia straordinariamente pervicace e colmo di storie interessanti. 

 No, loro ai monarchici erano appassionati anche politicamente, cioè credevano autenticamente che fosse una valida forma di governo mettere in mano il potere a un primogenito casuale. 

 Appassionati, ma prevalentemente appassionatE visto che la maggior parte erano donne.

 Non ero comunque lì per giudicare, ma per apprendere quando una tiara potesse dirsi kokoshnik e quando no.

 Tuttavia ben presto ho capito che tra questi gruppi di appassionat3 reali c'erano delle convinzioni e delle simpatie e antipatie granitiche nei confronti di alcune figure.

 Ovviamente tutte amavano Elisabetta la Queen e su questo ci siamo. Praticamente quando è morta Elisabetta era diventata una cara nonnina che piaceva pure ai sassi.

 Poi venivano però cose più elaborate. Ad esempio Letizia di Spagna pare sia considerata antipaticissima, colei che ha fatto litigare l'affascinante principe Felipe (che non si spiegano davvero come abbia potuto sposarla) e il suo adorato cugino Pavlos, un nobile senza corona che vaga per le corti europee con moglie americana e milionaria al seguito. Ecco, su Letizia enorme croce sopra: è troppo borghese, poco elegante, scortese con la suocera (vera maestra di grazia, soprattutto nel gestire le corna).

 Molto amata è ovviamente la fu Grace Kelly, ma la sua nuora Charlene, altra controversa principessa, non è ben compresa e per risolvere la situazione, visto che Alberto non è charmant come Felipe, pare che la soluzione sia non ritenere il Principato di Monaco un regno vero e proprio, quindi insomma, se pure non hanno una principessa vera e propria un po' chissene (e comunque è meglio Caroline perché ha avuto il buon gusto di sposare un Hannover e diventare SAR).

 Tutte cose che insomma mi stupivano, ma fino a un certo punto. 

 Quello che però davvero a un certo punto mi ha fatto strabiliare sono stati la trascinante passione e l'adorante trasporto nei confronti di Carlo d'Inghilterra, un personaggio che nella mia vita ho sempre visto considerare debole e fondamentalmente inadatto al ruolo.

Preciso di non aver mai avuto una passione per Diana, (non ho mai avuto la passione per nessun reale), ed è morta quando ero ancora troppo giovane per capire le dinamiche di una coppia abbastanza complessa e sotto pressione, ma insomma, la storia di Carlo che la sposa per avere dei figli e intanto tiene stretta l'eterna amante al suo fianco, beh me la ricordavo bene.

 Comunque, mi sono detta, de gustibus non disputandum est. La bellezza non è tutto e che Carlo abbia un certo ascendente su gente che passa le sue giornate a disquisire di spille vittoriane non deve stupirmi, l'eccezione sono io. Il re è re e i monarchici amano i re, è lapalissiano.

 Però. Leggendo commenti e post alla fine ho capito una cosa: stavano riscrivendo la storia, o meglio, stavano scrivendo una loro convinta versione della storia recente dei reali inglesi.


 In questa versione della storia,
Carlo è un re in potenza meraviglioso, ecologista, moderno, ricco di idee e di charme. Purtroppo la lunga vita della sempre amata Elisabetta gli ha impedito finora di dimostrarlo, ma presto farà vedere a tutti di che pasta è fatto. Accanto avrà l'amata Camilla, su cui devo dire non si spendono mai particolari parole, (si tende a omettere che abbia dei figli ad esempio), se non che lo sostiene e lo ama come lui ha bisogno.

 Vabbeh, mi sono detta, alla fine tutti i rospi diventano principi a un certo punto, soprattutto quando alla fine hanno una corona in testa.

 La sorpresa però è stato il trattamento riservato a Diana. 

 Dell'amore a lei riservato alla sua morte e durante la sua breve vita non vi è traccia. Il meglio che possono dire, ma solo perché nonostante tutto non si può proprio negare, è che sia almeno stata una "madre esemplare".

 Per il resto è una cascata di: Diana era fragile, una personalità problematica, soffriva di una spasmodica ricerca di attenzioni, aveva bisogno di aiuto, aveva tradito il povero Carlo con mille amanti (pare che il fatto che Carlo ne abbia avuto una fissa annulli l'adulterio, pure se sei il capo della chiesa anglicana). 

 Insomma, usano tanti giri di parole, ma fondamentalmente, gira che ti rigira, il concetto è che era una pazza.

 Ho pensato varie volte se replicare che dare della pazza a una morta e sepolta da tempo e incapace di difendersi fosse il caso, ma è molto tempo che sono stufa di litigare su internet e ho sempre evitato di turbare i sonni di queste sciure e sciuri.

 Questi giorni però è uscito "The Crown 5" e ovviamente mi sono fiondata a vederlo. 

 Ebbene. La narrazione dei royal appassionat3 che leggevo su Instagram nelle serate pandemiche è diventata LA narrazione mainstream. Carlo è impersonato da un attore affascinante, charmant, sicuro di sé, una proiezione mistica di una persona che non è mai stata, ma che ora, essendo sul trono, evidentemente viene riscritta e sovrascritta.

 Siamo oltre ai dipinti migliorativi dei sovrani tramandati nei secoli, siamo al dipinto migliorativo in presa diretta.

 Nella fiction, Carlo diventa un homo novus, liberandosi di timidezze e incertezze dopo il divorzio con Diana (la regina dice proprio che sembra si sia "liberato"). Una teoria che risulta poco credibile anche se volessimo considerare "The Crown" come uno script senza fondamento reale visto che nella serie precedente il giovane Carlo (la cui gioventù arriva fino ai 40 anni almeno) è completamente diverso e dopotutto è stato sposato con Diana per tempo relativamente breve.

Diana, ovviamente, non essendoci più una controparte altrettanto problematica a giustificarne le azioni (come avveniva nella quarta serie) viene quindi dipinta come una mezza pazza dagli occhioni sempre sgranati, l'innamoramento compulsivo, la tristezza in tasca e nessuna ragione per essere paranoica. 

 Camilla appare, opportunamente senza figli e senza marito, silenziosa e sorridente, a fianco del futuro consorte, pronto a sostenerlo. 

 Quello che ho letto su Instagram è ora lì sullo schermo. 

 Sono rimasta discretamente sconcertata, ma poi, come accade spesso, la letteratura mi è venuta in aiuto. Io questa cosa l'avevo già letta e l'avete letta anche voi.

 Questa non è la trama della storia di Carlo, Diana e Camilla, questo è l'impianto sentimentale della trama di "Jane Eyre", preciso preciso.

 Nel libro, la bella, brava, buona e giusto un filino ribelle Jane conosce il presunto vedovo Mr Rochester che vive nel suo bel maniero nella brughiera. 

 Rochester ha un segreto e quel segreto è il motivo per cui non può sposarsi: ha una prima moglie che tiene in soffitta. La donna, un tempo bellissima, che ha sposato in Giamaica dopo averla vista appena una manciata di volte, è diventata pazza e incontrollabile e lui è costretto a tenerla in soffitta, guardata a vista da un'infermiera.

 Rochester definisce così il loro matrimonio:

"Fui abbagliato, i miei sensi furono eccitati, ed inesperto com'ero credei d'amarla. 
Non vi è nulla che trascini un uomo quanto le stupide rivalità della società, i desideri febbrili, l'accecamento giovanile. I parenti di Berta mi incoraggiavano, i competitori mi eccitavano l'amor proprio, lei stessa mi attirava a sé e così il matrimonio fu concluso prima che avessi tempo di riflettere. Quando penso a quell'atto non posso davvero stimarmi! Il disprezzo di me stesso mi assale e mi tortura! 
Non l'amavo, né stimavo e non avevo potuto conoscerla."

 Nonostante ciò, la donna, Bertha, è violenta, tenta di scappare e commette atti inconsulti, non ultimo il fatale incendio finale dove, molto opportunamente, perirà lasciando Rochester ferito, ma libero finalmente di sposarsi con la donna che ama.

 Il collegamento con Jane però non mi è venuto grazie a un mio (inesistente) amore per la letteratura inglese. 

 Semplicemente vedendo "The Crown 5" e la pessima scrittura della povera Diana mi è tornato alla mente il titolo di un libro che avevo visto citato nella nota di un qualche saggio femminista che avevo letto durante i primi anni di università.

 Il titolo era "The madwoman in the attic": la pazza nella soffitta.

 Si tratta di un saggio di critica femminista sulla narrativa vittoriana scritto da Sandra Gilbert e Susan Gubar nel 1966.

 Le due critiche descrivevano la polarizzazione, nella narrativa vittoriana opera di autrici donne, di due sole tipologie di personaggi femminili: l'angelo e il mostro, in contrapposizione tra loro.

 Una dicotomia funzionale ovviamente alla stereotipata visione femminile in un contesto patriarcale di cui le autrici, benché donne, non erano riuscite a liberarsi.

 Ma del resto sembra che non siano riusciti a farlo neanche gli autori di "The Crown" quasi 150 anni dopo.

 Diana è diventata la matta nella soffitta, sposata per sbaglio e perenne ingombro tra il Principe e il suo vero amore. 

 Camilla è un angelo, certo, un angelo stiracchiato, ma che con un po' di omissioni può essere considerato passabile in nome del suo amore imperituro e purificatore per il principe.

 E così "The Crown" ha incontrato le royal narrazioni uso instagram che hanno incontrato Jane Eyre e che, fondamentalmente, ricalcano uno schema talmente già visto che neanche ce ne accorgiamo.

 Il potere sa come dipingersi al suo meglio e la tendenza a dimenticare con estrema facilità degli esseri umani fa il resto.

 Così per una favoletta revisionista che imbelletti il nuovo re con regina consorte è bastato meno del previsto, del resto le donne sono ancora angeli o mostri, a seconda di come conviene al momento.

 La trama vittoriana regge ancora. Le mogli sposate per sbaglio muoiono ancora bruciate nella soffitta dei ricordi e i re regnano felici sul loro trono, come se non fossero mai esistite.


sabato 6 agosto 2022

Piccole recensioni tra amici! Quattro gialli dal Brasile all'Egitto passando per la Pennsylvania fino a Roma

  In questa estate troppo afosa, finalmente le vacanze stanno per giungere anche per me, anche se, fino all'ultimo sono preda di lavoro di disgraziato studio.

Non me la sono sentita di fare un post sui consigli estivi perché umanamente in una libreria non dell'usato non sono riuscita a fare un vero giro (tanto che avevo adocchiato un manga e ho dovuto mollarlo lì perché non avevo tempo di fare la fila in cassa).

 Tuttavia quest'anno, complice il fatto che il Lazio è provvisto di una costa, sono già andata al mare parecchie volte e ho avuto modo di leggere un bel po' di gialli.

 Ho pensato quindi che un post al riguardo, rubando tempo alle lezioni, potevo anche farlo!

 Unico avviso: nutrendomi ormai quasi solo di libri usati per ragioni economiche, ma anche solo urbanistiche (ne ho vicine due), i libri di cui vi narro non sono sempre reperibili in commercio, ma di certo in biblioteca sì!

 Buona letturaaaaa, e domani, per me, ultimo giro all'usato per il bottino da portare in vacanza!


POLVERE DI DIAMANTE di Ahmed Mourad ed. Marsilio:

 E' un giallo mooooolto strano questo di Ahmed Mourad Ambientato al Cairo, e ha come protagonista un giovane informatore farmaceutico, Taha, che vive da solo col vecchio padre invalido.

Un giorno, dopo uno screzio con una sorta di capo delinquente locale che cerca di estorcergli droga durante un turno notturno in farmacia, Taha torna a casa e trova suo padre assassinato.

 La storia sembra  inizialmente volerci condurre da una parte: chi ha ucciso il padre di Taha? 

 Invece la trama non ha un vero centro, ma si scompone in modo caleidoscopico tra molti personaggi: il commissario di polizia corrotto, il politico onnipresente sulla scena egiziana sin dalla caduta del re, la bella vicina di casa che sogna un Egitto più moderno e giusto, e un sistema di corruzione generale inquietante.

 Non so dirvi se lo abbia trovato un giallo piacevole, perché pur essendoci un'indagine, un colpevole e un ingegnoso metodo per l'omicidio (o gli omicidi) non sono davvero certa che sia un giallo.

 Racconta molte cose, con una morale per noi inquietante e perturbante: chi sono i cattivi? Ci sono cattivi? Alcuni omicidi sono meno gravi di altri? 

 Interessante la costruzione priva di centro e la trama cangiante in cui cattivi e buoni si mescolano continuamente, ma di certo non è un giallo da prendere a cuor leggero.


"BELLINI E GLI SPIRITI" di Tony Bellotto: 

 C'è tutto un filone di gialli scritti da uomini in cui i protagonisti sono PALESEMENTE una proiezione fantastica di ciò che questi uomini ambiscono ad essere: belli, pieni di donne che si spogliano al loro passaggio, intelligenti, virili, con un fisico prestante nonostante si ingozzino di cibo spazzatura e bevano come spugne.

 Bellini è esattamente tutto questo. Con un sacco di donne che si spogliano al suo passaggio, di ogni età e nazionalità mentre lui distrattamente indaga sulla morte di un avvocato spiritista assassinato durante una maratona, non si sa bene come (e neanche se sia stato davvero assassinato).

 L'ambientazione brasiliana è piacevole e insolita, e devo ammettere che gioca molto per me il fatto che il Brasile è il secondo posto extraeuropeo, dopo il Giappone, che mi attira di più.

 Affascinante anche il fatto che sia coinvolta la comunità dei migranti asiatici, un tratto poco conosciuto da noi europei, e in generale ammetto che trama è costruita abbastanza bene.

 L'unica cosa è che davvero, sto testosterone ambulante dopo un po' diventa eccessivo, e fa quasi rimpiangere quando i detective sublimavano nel cibo, di cui peraltro, purtroppo, si parla molto poco.

 Credo che comunque questo sia l'unico libro della serie di Tony Bellotto tradotto in Italia e sia abbastanza introvabile, visto che, oltre all'edizione in allegato coi gialli de La Repubblica, l'unica altra esistente era quella del Cavallo di Ferro (dalla cover a dir poco orrenda), casa editrice fallita anni fa.

Ps. Comunque mi è venuta ancora più voglia di andare in Brasile.


LA PAZIENZA DEL DIAVOLO di Roberto Cimpanelli ed. Marsilio/Feltrinelli:

 Vale per questo libro, il discorso di cui sopra: scrittore che infonde nel protagonista del suo giallo tutte le sue proiezioni fantastiche.

Al contrario del protagonista di Bellotto che comunque si muoveva in una trama che si faceva leggere volentieri e aveva quel tono ironico a reggere il tutto, qui siamo proprio nel campo del giallo trash.

 Siamo a Roma, dove inizia un'assurda scia di omicidi ai danni di efferati assassini e stupratori che non solo nessuno piange, ma che tutti sono un po' contenti vengano ammazzati. 

 Cosa che insomma, possiamo di certo aspettarci dall'opinione pubblica, ma lascia un po' perplessi che la polizia non indaghi a dovere, come sembra accadere durante tutto l'arco della storia.

 Ermanno d'Amore, ex poliziotto che a seguito di un crudo omicidio non risolto è rimasto traumatizzato decidendo di lasciare il lavoro e aprire una libreria, si trova coinvolto suo malgrado e inizia a indagare.

 La trama è piena di tutto: belle donne che cadono al suo passaggio, serial killer, complottismo all'italiana, depistaggi, quintalate di aggressioni e omicidi, assassini tipo Scream che non muoiono mai. Fino a un finale che se tagliavano le ultime trenta pagine era meglio.

 La storia è scorrevole, ma confusionaria, inverosimile anche per un thriller, piena di troppe cose e in cui davvero i personaggi femminili sono una presa in giro: tutte gnocche di qualsiasi età, tutte pronte a cadere ai piedi del sexy Ermanno, tutte che sembra nella vita non abbiano niente da fare se non pensare agli uomini (del resto le donne cosa vuoi che facciano nella vita?).

 Esistono molti altri gialli scritti in modo scorrevole MA con una trama valida. Leggete quelli.

 Un peccato perché fa parte della serie Feltrinelli dei due libri a 9,90.


"IL TEMPO DELLA VENDETTA" di Linda Castillo ed. Piemme:

 Non sono mai stata una grande amante dei crime all'americana perché li trovo molto violenti.

 C'è sempre molto spargimento si sangue, molta voglia di usare le pistole, un sacco di morti, tanta scena.

Sembra che se non muoiano almeno 3 o 4 persone non sia un giallo degno di questo nome, con buona pace dell'investigazione. E' una roba che se la fa Chandler ha un suo fascino da vecchia Hollywood hard boiled, ma dopo un po', come si dice, stucca.

 Senza il contorno alla Humphrey Bogart tutto diventa molto meno affascinante e molto più squallido, che è un po' in generale uno dei problemi dell'immaginario americano di adesso.

 "Il tempo della vendetta" di Linda Castillo non è che faccia eccezione. In 4 giorni si ammassano morti e feriti a tutto andare, il tutto condito da un sacco di pallottole. Però. Però almeno l'ambientazione è interessante: tra gli Amish della Pennsylvania.

 La protagonista, la detective Kate Burkholder è un'Amish che, una volta adulta, è uscita dalla comunità ed è diventata una poliziotta.

 La storia prende le mosse da un'anziana Amish uccisa brutalmente da qualcuno che ne ha anche rapito la nipotina disabile. Si innesca quindi una convulsa indagine che scava nel passato di una famiglia che appare innocua, ma che ovviamente sembra nascondere un oscuro segreto.

 E chi meglio di Kate può indagare nei meandri di una comunità chiusa e complessa da decifrare (sin dalla sua lingua: il tedesco della Pennsylvania??)?

 L'ambientazione e la penna felice della Castillo fanno andare oltre le immancabili americanate e questo giallo è proprio una tipica lettura da ombrellone al cardiopalma. 

Fa parte di una serie edita prima da Fanucci e poi da Piemme con la stessa protagonista e la stessa ambientazione che sembra promettere molto bene.

mercoledì 20 luglio 2022

La Dolcevita di Dolcemetà! "Roma nord"

 Per la serie "Sono viva e lotto insieme a voi", mi ricordo finalmente di postare una delle vignette della Dolcevita di Dolcemetà, le avventure di una nordica a Roma.

 Dolcemetà dopo due anni ha capito che i romani tocca seccarli con la battuta pronta.



martedì 14 giugno 2022

"Come fu che organizzai la mia unione civile" per la prima volta a Brescia il 19 Giugno da Pianeta Viola!

Come ormai saprà chi segue il blog da eoni, nel 2018 mi sono unita civilmente con la mia Dolcemetà.

 All'epoca, per stemperare la tensione di un'organizzazione da grande evento (partita come al solito in sordina al grido di "Ma no, faremo una cosa piccola" e presto degenerata), feci un po' di fumetti al riguardo.

 Erano anche i primissimi anni post legge Cirinnà quindi tutto era molto peculiare (non so quanto siano cambiate le cose in 4 anni, non so perché ma mi sento poco) per i fornitori, per l'ufficio dell'anagrafe, per i parenti e per tutte le persone con le quali avevamo a che fare.

 In anagrafe (NB Milano) fioccarono domande assurde, prima tra tutte "Dove sono i vostri mariti?".

 I fornitori ebbero sentimenti altalenanti, che andarono dai negozi di abiti da sposa che penso vorrebbero solo unioni civili tra donne per poter fare doppio incasso faraonico, alla commessa di un negozio di bigiotteria di famosa catena che arrivò ad abbracciare Dolcemetà modalità orso Yogi.

 Fu una storia di molti coming out, di genitori in pensiero, di fotografi che non sapevano come dividere il tempo tra le spose e di padri che cercavano di propinarmi tailleur pantalone perché "E' una cerimonia civile".

 Due anni fa, durante il lockdown, ridisegnai tutta la storia da capo, dandole una sua fluidità, e vi aggiunsi alcuni pezzi pedagogici sull'approvazione della legge, sull'omofobia, sul legame tra omofobia e statistiche delle unioni civili e via discorrendo. Speravo di poterlo pubblicare ma poi pufff, dopo molto rimandare non se n'è fatto nulla.

 Vorrei trovare un altro editore, ma intanto le amiche di Pianeta Viola di Brescia mi hanno invitato e siccome il libro è mio, me lo gestisco io e presto alcune copie autoprodotte saranno tra le mie mani, pronte a farsi vedere e comprare il 19 Giugno lì nelle terre natie di Dolcemetà!

 Poi si vedrà. Se appare un editore tutto ok, altrimenti 10 100 1000 di queste autoproduzioni e si comincia a vagare per l'Italia, ospite spero di tante amiche e amic*!

NON MANCATE IL 19 GIUGNO A BRESCIA, 18:30, SPAZIO ILLICH VIA DEI MILLE 22!



lunedì 16 maggio 2022

Ehi sono ancora qui (non vi libererete facilmente di me)!

Era dalla nascita di questo blog, che proprio questo mese compie 9 anni che non passavo tanto tempo senza aggiornarlo.

 Probabilmente, quando si porta avanti un progetto per tanto tempo, è inevitabile che ci siano dei momenti in cui si può dare tutto e momenti in cui, per assurdo che sia, anche un post al mese diventa difficoltoso.

 Non ho nessuna intenzione di abbandonare questi lidi, sono solo vittima di una particolare congiunzione astrale studio-lavoro. Presa da una certa ansia di aggiornarmi dopo aver cambiato lavoro e vita, mi sono iscritta a un master molto bello, ma molto più denso del previsto, e qualcosa infine ho dovuto metterla in stand by.

 Ma non temete, questo luogo continuerà ad esserci e prima o poi tornerà al suo splendore primigenio! Mi ha dato talmente tanto che ho un lungo debito di riconoscenza nei suoi confronti.

 Nel frattempo, fb e ig continuano a essere aggiornati e, spero, a giugno dovrei far uscire qualche copia autoprodotta del fumetto sulla mia unione civile (anche lì, una lunga storia che un giorno racconterò).

 Buona serataaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!




domenica 27 febbraio 2022

Il corpo è minore se non riusciamo mai a liberarci dello sguardo degli altri. Una recensione di "Corpi minori" in una Milano crudele che dona, brilla, pretende e divora

 E' un po' complicato scrivere questa recensione su “Corpi minori”, secondo romanzo di Jonathan Bazzi, astro nascente della narrativa italiana, celebratissimo dopo lo splendido (a me piacque davvero tanto) esordio, “Febbre”.

Tuttavia, sebbene tema, vista l'interminabile ondata di recensioni lusinghiere, di attirarmi gli strali di chiunque, ci tenevo a farla.

 Quando scrissi la recensione di “Febbre” ebbi l'impressione che il suo allora editore, Fandango, non avesse ben capito la bomba che aveva tra le mani e, nel tentativo (giusto a livello commerciale) di dargli maggiori pezze di appoggio, avesse puntato a presentarlo come un libro in cui si parlava anche della condizione contemporanea di qualcuno che ha fatto coming out come sieropositivo.

 In verità, come ormai ben sappiamo, quel libro parlava di altro: una giovane vita con una sensibilità altissima e un certo personale grado di inquietudine ed eclitticità immersa in un contesto familiare e periferico che di sensibile ed eclettico non aveva niente.

 Ho come la sensazione che anche “Corpi minori” sia un libro presentato (in realtà in questo caso anche pensato) con un certo tema di fondo, ma che in realtà sarebbe stato molto più efficace e sincero se si fosse accorto di parlare di altro.

 Sin dall'incipit che dal titolo che dalla frase scelta su retro della copertina, si evince che l'idea di fondo sia quella di presentare una sorta di educazione sentimentale dell'autore/protagonista (essendo, anche questo un memoir) nei confronti della persona amata e nei confronti di Milano.

 In verità, il libro, a mio parere è una grande occasione persa per parlare di qualcosa che affiora e si prende continuamente la scena, in qualsiasi momento, e che divora le varie storie sentimentali e i molti discorsi in cui l'autore si aggroviglia.

 Dico questo, subito, perché a me piace moltissimo come scrive Bazzi, ma non quando usa molti lunghi periodi circonvoluti per giustificare azioni discutibili agli occhi del lettore.

 Non sta alla narrativa essere accomodante, ma se ti esponi al giudizio poi non è scontato che io riesca a empatizzare perché qui e lì scodelli qualche lunga dissertazione sui corpi desideranti.

I corpi desideranti non sono comunque autorizzati a fagocitare le esistenze altrui.

Ma andiamo un po' oltre, perché su questo, tornerò. Il vero tema del libro, quello che si prende la scena è evidentemente MILANO.

 Milano è una città difficile da capire per chi non l'ha vissuta, come in verità tutte le città.

 Ma soprattutto è una città difficile da capire per chi non l'ha vissuta senza avere soldi o una famiglia dietro.

 Lo dico con la massima cognizione di ogni causa. Quando andai al nord, avevo letteralmente 500 euro in tasca, senza aiuti, e ho vissuto numerose situazioni picaresche che ho rivisto con una certa dose di empatia nel libro di Bazzi.

 Premetto. Non ho mai subaffittato niente a nessuno né mi sono mai permessa cose che il mio ignobile stipendio di molti anni non mi abbia concesso di fare. Lo sottolineo perché Milano è una città incredibilmente diversa, e sottolineo INCREDIBILMENTE, per chi ha e non ha i soldi.

Non è solo questione di affitto, è questione di opportunità.

 Assai più di qualsiasi città italiana, Milano è un posto dove qualcuno di brillante, pur non essendo necessariamente figlio di qualcuno, può farcela. Questo non significa che sia un paradiso meritocratico, anzi, l'alta borghesia riserva sempre le giuste quantità di posti di lavoro sopra una certa RAL ai propri rampolli. Lo fa in tutti i settori, dal commercio all'editoria, dalle multinazionali al mondo culturale.

 Diciamo che, vuoi perché comunque si percepisce che i povery talentuosi possano essere un valore aggiunto, vuoi che ci sia ancora adesso una disponibilità lavorativa assai più elevata del resto d'Italia, ci sono molte variabili impazzite. Io, lo ammetto sono stata una di queste (ho svolto un lavoro che mai pensavo nella vita, ovviamente con un RAL da povera perché poi bisognerebbe anche aprire una discussione su questo, ma non qui).

 La variabile impazzita però non può essere presa come regola e cancellare tutte le persone che, non potendosi permettere stage non pagati e master esosi, si trovano a fare lavori malpagati vivendo in posti indecenti (ci ho vissuto anche io), affittati a prezzi da strozzini da gente o fondi immobiliari che posseggono interi palazzi. 

 Non può far dimenticare il fatto che a Milano paghi tutto e paghi tutto tanto e che questo, mi spiace, non sia giustificato da niente. Io sono anni che sono inferocita con l'idea delle gabbie salariali perché non c'è nessun motivo per cui uno stipendio del nord debba valere più di quello del sud solo perché al nord si specula con maggior follia.

Sulla Milano stratosferica e sbrilluccicante che tutto ha da offrire a chi viene dalla sua periferia o dal resto d'Italia, ma solo se sei hai il cash giusto, ci sarebbe da scrivere un libro di epica generazionale.
  E, in parte Bazzi sembra, qui e lì, che desiderasse quasi scriverlo.

 Per qualche motivo però ha deciso che no, il suo sarebbe stato un romanzo d'amore in cui spiegava una cosa in verità non molto interessante: ho un fidanzato bramatissimo, ma a un certo punto mi sembra di non amarlo più, cerco di capire perché, in qualche modo lo capisco (anche se nel libro onestamente non è molto chiaro cosa succeda a tal proposito) e via come se non fosse mai successo niente.

Non voglio essere brutale e non mi permetto di giudicare l'interiorità e il vissuto di Bazzi, ma analizzo il modo in cui l'ha raccontato e in cui l'ho percepito.

 Il racconto sull'emotività dell'autore, onestamente, non è che abbia fatto grande breccia nel mio animo.  La freddezza con cui liquida il povero primo fidanzato che lo mantiene per anni, il modo feroce col quale giudica praticamente tutti coloro che incontra, tentando di capire quasi sempre come sfruttarlo al momento a suo vantaggio, il suo vagare per università proposto come inquietudine di vita e morale non è che sia proprio la lettura più digeribile del mondo.

 Il libro mostra un autore che in parte, ripeto, si espone al giudizio altrui senza farsi sconti, ma in parte sembra nascondere un approccio incredibilmente egoriferito dietro a contorti concetti filosofici rubati qui e lì da insegnanti e autrici. Una citazione di De Monticelli o Stein è inutile se il libro non riesce andare oltre a una superficie e questo desiderio tra essere e apparire esplode anche a livello universitario.

Posso studiare alla Statale, ma perché non andare al San Raffaele? La scuola dei ricchi milanesi, simbolo e status?

Il problema, in generale, di tutto il libro, secondo me si esplicita proprio lì. 

 Bazzi non sembra avere non dico una coscienza politica o di classe, perché mi rendo conto che sono termini desueti, ma una coscienza del fatto che provenire da un ambiente sociale considerato minore è una percezione che introiettiamo dagli altri, ma quando esci dall'adolescenza, deve smetterla di essere un tuo problema.

Non c'è nulla da dimostrare, nessun simulacro a cui aggrapparsi, nessuna università cool da frequentare, nessun circolo di poetesse che fanno yoga e sussurrano alle orecchie, o credulerie sulla cabbala assieme a Paola e Chiara a cui aggrapparsi.

 La Milano di adesso si basa tanto su questo equivoco: l'idea che maggiore è lo splendore sociale che puoi dimostrare, maggiore sarà il tuo valore. 

 Quindi la laurea vale di più se è privata, sei più giusto se fai un lavoro fighissimo pagato una miseria e non il commesso da Zara con uno stipendio da CCNL del commercio, lo psicologo che ti cura è bravo solo se lo paghi tanto.

Non c'è valore oggettivo della persona, c'è il valore che quella persona può mettere sul piatto perché tutti lo ammirino. Partendo da questo presupposto, è ovvio che non si possa mai uscire dall'idea che comunque i natali te li ha dati la temibile Rozzano.

 Ed è proprio per questo motivo, credo, immagino, Bazzi non sia riuscito a scrivere un racconto picaresco sulla Milano brillante e feroce di adesso. Un enorme circo dove puoi ambire a tutto, ma il tuo valore è deciso, se non dalla famiglia, dal cash, e se non dal cash dai posti che frequenti, le persone che conosci, i circoli esclusivi dove bazzichi.

Ed è, sottolineo, un'epica oscura della città che ha radici profonde. 

 Se si legge Bianciardi, Milano è sempre stata così: pronta a ingoiare i suoi abitanti non integrati, a succhiarne lo spirito dopo avergli offerto opportunità che altrove sarebbero impossibili. Non puoi vivere da nessun'altra parte, ma se ci vivi, se non stai molto attento, ne vieni spolpato.

 Ma Bianciardi aveva una coscienza di sé, di ciò che era rispetto a Milano, del rancore e della riconoscenza che le portava, del dolore che questa città gli infliggeva e della riconoscenza che le doveva, che Bazzi non sembra neanche lontanamente contemplare.

 Milano è il posto dei sogni, un parco giochi che però caspita costa e allora troviamo un pollo a cui affibbiare quasi tutto l'affitto, della scuola privata da fare anche senza i soldi per farla, della voglia di viverci, ma di lavorare anche no, di mollare l'affitto non pagato ai coinquilini e di schifarli pure anni dopo. 

 Cosa c'è oltre al corpo desiderante che desidera e fagocita e pretende e fagocita in nome di un passato di svantaggio che pone in perenne condizione di risarcimento sociale?

Cosa c'è oltre alla citazione filosofica, se poi la città (e quello che ti fa) non riesci a vederla?

 Mi spiace, ma il libro, pur scritto davvero bene, per me è un'occasione mancata. Il memoir è un genere che dovrebbe andare oltre alla pirandelliana visione della realtà, raccontarci qualcosa anche di noi, cosa che in "Febbre" succedeva. 

 In "Corpi minori", personalmente, questa astrazione almeno io non l'ho avuta e, onestamente, le recensioni basate sullo sguardo borghese che gioisce del giovane autore che viene dalla periferia (consiglierei sul tema la lettura di quel capolavoro che sono le pochissime pagine autobiografiche di Scerbanenco), mi sembrano solo una conferma della mia sensazione generale.

domenica 13 febbraio 2022

Il lavoro, questo sconosciuto. Tra Aggretsuko e "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura, la grande scomparsa del lavoro dai grandi temi della narrativa

 E' una strana faccenda quella del lavoro al giorno d'oggi.

 Pur essendo la cosa più pervasiva della nostra vita, il luogo (oddio adesso con lo smart working è spesso un metaluogo) in cui passiamo più tempo e che assorbe la maggior parte delle nostre energie, pur essendo ciò che sostanzialmente determina se mangeremo, se avremo un tetto sopra la testa e altre facezie similari, è forse uno dei grandi temi meno indagati dal mondo audiovisivo e letterario.

 Al cinema non ci sono vie di mezzo.

 Si passa da situazioni sociali di indigenza totale o a un mondo meraviglioso e completamente immaginario e probabilmente qualche trenta-quarantenne vive sul serio, ma non io e neanche le persone che conosco (che non sono neanche così poche, anche se mi rendo conto che la classe sociale fa molto).

 Apprezzo che non si attribuisca alla mia generazione quella nevrosi da matrimonio imposto che in effetti si è smesso di vivere, (da questo punto di vista siamo indubbiamente più tranquilli dei nostri predecessori e abbiamo imparato dagli orribili film di Muccino), ma quello splendido universo fatto di case di design, lavori fighissimi e un tenore di vita che adesso può permettersi solo chi è ricco di famiglia, non fa che aumentare quella sensazione di disagio che provo spesso.

 Mi chiedo sempre perché solo io sono molto arrabbiata per le condizioni lavorative in cui versiamo, strabilio quando la gente si mette a discutere con me quando dico cose ovvie come "Se uno lavora dovrebbe essere pagato" (infiniti i distinguo sul tema che vanno dal povero imprenditore che paga tante tasse all'importanza di formarsi in eterno per essere il lavoratore perfetto che un'azienda cerca per circa 3 minuti ogni 5 noviluni quando Venere è in quadrante), mi abbatto e al contempo ho istinti di rivoluzione bolscevica quando scopro che la gente non solo accetta di non ricevere un compenso, ma ha anche un certo moto di fastidio se le fai notare che spaccarsi la schiena per un rimborso spese non ha nessun senso logico.

 Mi guardo attorno e nessuno parla mai davvero di lavoro se non quando qualcuno ne muore. 

 E anche lì, sono mesi che seguo con molta attenzione la vicenda della giovane dottoressa morta in Trentino a seguito di presunte (scrivo presunte perché fino ai tre gradi di giudizio si passano i guai) vessazioni, mobbing e bossing sul posto di lavoro.

 Lo seguo perché in passato alcune di quelle cose sono capitate anche a me e ho provato a parlarne con qualcuno, ma lo scetticismo generale (oltre a un certo fastidio) impongono poi un silenzio imbarazzato.  Devi andare avanti. Se sei fortunat* ci vai. E io in effetti ci sono andata. 

 Ma questo mi ha reso ancora più arrabbiata verso chi dipinge una generazione travolta da lavori favolosi e fantasiosi che nella realtà sono spesso trappole con orari assurdi e stipendi da fame, solitamente in mano ad un'élite di persone per puro merito ereditario o comunque estremamente caldeggiato dal milieu sociale di provenienza.

 Per dare una misura dell'imbarazzo in cui la produzione letteraria e audiovisiva versa, l'unica serie in cui ho visto vagamente affrontare il problema delle sottili trame psicologiche che possono rendere la vita lavorativa un inferno è stata Aggrestuko (per chi non sapesse di cosa parlo, potete andare qui).

So che molti non hanno apprezzato la nuova serie e in effetti anche io l'ho trovata sul finale un po' stralunata come se l'autore non sapesse bene come uscirne. Per il resto però i passaggi in cui il direttore delle risorse umane, il capo ufficio e il CEO collaborano per indurre i lavoratori al licenziamento, è forse una delle cose più veritiere che ho visto produrre sul mondo del lavoro negli ultimi anni.

 Forte di un immaginario statunitense, il mondo del lavoro che vediamo narrato ha sempre qualcosa di estremamente fiabesco.

 Il lavoratore/eroe del racconto è vessato e poco apprezzato nonostante le sue potenzialità. 

 Di solito la colpa non è solo del capo malvagio, ma anche sua perché è troppo timido, non si impegna o osa avere una vita privata. Accade qualcosa che porta il lavoratore a decidere se soccombere o sopravvivere ed egli, facendo sforzi sovraumani, andrà oltre i suoi limiti e diventerà il lavoratore modello (o se è donna sceglierà la famiglia o un lavoro più consono all'equilibrio tra vita privata e lavorativa).

 Quest'idea che il lavoratore sia sempre in qualche modo co-colpevole del proprio disagio è inquietante ed è solo l'ultima delle evidenti prove che il capitalismo ha vinto perché ci ha, come ne L'invasione degli ultracorpi, letteralmente svuotati di noi stessi e trasformati in altro.

 

Forse non a caso, essendo il Giappone un posto dove esiste una parola (karoshi) per indicare la gente che muore di super lavoro, mi è capitato di leggere anche un libro dedicato al mondo del lavoro: "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura.

 Non ne avevo letto recensioni positive, ma a posteriori ho come la sensazione che molte di esse dipendessero più dalle aspettative sul libro che sul libro stesso.

 Se si parla di lavoro l'idea, probabilmente, è che l'argomento debba necessariamente essere affrontato con la gravità che gli compete.

 In realtà il lavoro è un macrotema, come l'amore o le relazioni, quindi meriterebbe non dico altrettanti testi, ma molti punti di vista differenti e anche racconti che ondeggino tra la satira, la commedia, il reportage sociale per carità, e la psicologia.

 Quindi non ho trovato strano che il libro avesse dei toni più leggeri del dovuto nell'affrontare in verità un punto molto interessante: è possibile vivere il lavoro in un modo non totalizzante?

 La protagonista, dopo un burn out, si mette alla ricerca di un lavoro che sia il meno impegnativo possibile dal punto di vista mentale. 

 In questo la aiuta una sorta di navigator (a quanto sembra in Giappone l'idea del navigator funziona) che le propone di volta in volta lavori potenzialmente molto semplici, ma sempre con un tocco un po' surreale: guardare video di videosorveglianza per scoprire dove si trovi la refurtiva nell'appartamento di uno scrittore, appendere manifesti in giro per il quartiere, recuperare persone perdute in giro per un parco pubblico.

 Devo dirvi che mi sono immedesimata tantissimo nella protagonista perché anche io ho vissuto dei mesi in cui l'ultima cosa che volevo era un lavoro che mi impegnasse a livello mentale. Attualmente sembra che l'unico rapporto di lavoro benvisto e possibile nei confronti del lavoro sia un rapporto di totale assorbimento.  

 Noi dobbiamo farci assorbire dal nostro lavoro, qualsiasi altra modalità è vissuta con sospetto e anche una certa nota di biasimo.

 Nonostante i suoi buoni propositi, la protagonista si trova impelagata in una serie di situazioni che rendono ogni lavoro potenzialmente stupido, di colpo molto più impegnativo.

 In parte sono le richieste aggiuntive che ogni datore di lavoro fa in modo più o meno esplicito, in parte però c'è anche la sua volontà e il fatto che sia una donna molto intelligente e intuitiva. Non sono solo le pressioni esterne a spingerla a rendere più impegnativo il suo lavoro, ma anche la sua intelligenza impedirle di vivere in modo automatico anche l'impiego più semplice.

 Una sorta di trappola perfetta, alla quale riesce a sfuggire di volta in volta solo chiudendo il rapporto lavorativo.

 I capitoli, ognuno dedicato a un lavoro diverso, sono sostanzialmente dei microracconti e il finale è molto consolatorio e giapponese.

 Tuttavia il punto a mio parere è stato centrato: è possibile decidere volontariamente quale sarà il nostro rapporto col lavoro? Non sottovalutiamo tutti i fattori che come esseri umani e non automi ci rendono da una parte fallaci e dall'altra spesso troppo intelligenti per mansioni che svolgiamo o veniamo costretti a svolgere? 

 Quanto controllo abbiamo sul nostro lavoro e quanto il lavoro e le persone che ne fanno parte hanno controllo sulla nostra vita?

 Sono questi grandi temi sui quali amerei leggere molti romanzi, oltre alle dinamiche del sole cuore amore, delle famiglie disfunzionali, dei dilemmi interiori che ci macerano.

  Il lavoro non è solo il casuale sfondo per qualche dinamica relazionale o il romanzo alla Zola con grande affresco storico e drammatiche lotte sociali. Non è neanche un tabù, come invece sembriamo trattarlo sia nella vita reale che in quella di finzione.

 Il lavoro deve tornare ad essere centrale nel discorso, in tutti i discorsi e nella narrativa.

 Narratori di oggi e di domani, ci siete?

 

venerdì 14 gennaio 2022

Piccole recensioni tra amici. Due recensioni perdute di halloween: "Lucifero e la bambina" di Ethel Mannin e "Il seme del male" di Joanne Harris

Ebbene, sono rimasta indietro di una cosa come 74396401 post, quindi stasera mentre Dolcemetà guarda l'ennesima serie di RuPaul (ma quante ne esistono?), ho deciso di terminare una bozza che avevo iniziato ad halloween e mai terminato.

 Spero di scrivere a breve il post su "Tempi eccitanti" di Noise Nolan (che mi è piaciuto abbastanza) e "Un lavoro perfetto" di Kikuko Tsumura (che mi è piaciuto moltissimo).

Per far sì che ciò avvenga, smetto di perdere tempo e vi lascio alle mie letture della stagione di halloween, del resto non è mai troppo tardi per leggere un buon horror!

A voi!


LUCIFERO E LA BAMBINA di Ethel Mannin ed. Agenzia Alcatraz:

 L'ho detto più volte, non amo i libri che hanno per protagonisti i bambini. 

 Questo perché ricordo abbastanza lucidamente (non so se è così per tutti) cosa e come pensavo io da infante e ciò non coincide praticamente mai con quel che gli autori mettono in bocca ai loro piccoli geniali protagonisti.

"Lucifero e la bambina" dell'ingiustamente misconosciuta Ethel Mannin (no, non è un cognome veneto, c'ero caduta anche io) si è rivelato una delle pochissime issime (se non unica) eccezione a questa mia regola di base.

 La protagonista è una bambina sveglia senza essere il genio della situazione, che fa ragionamenti da bambina e che, soprattutto, vorrebbe vivere come la persona che è: un essere umano ricco d'immaginazione, fantasioso, energico, pieno di fiducia nel prossimo.

  E il libro racconta quel che succede a una bambina in un contesto di genere repressivo. Cosa vuol dire prendere una bambina ricca di vita e d'immaginazione e cercare a ogni costo di addomesticarla fino a schiacciarla.

 Il libro corre lungo il crinale del sovrannaturale. 

 Un giorno in cui tanto per cambiare si è ficcata in un pasticcio, la piccola Jenny incontra uno uomo strano e affascinante che porta sul capo due corna di caprone. Le dice di essere il diavolo e le rivela che lei, proprio lei, è una piccola strega, erede di due lontane antenate streghe e di colpo la bambina che si sentiva fuori posto, troppo diversa dalle altre coetanee, così beneducate e tranquille, sente di avere la risposta a tutte le sue domande.

Sta al lettore decidere se alla fine di questa lunga cavalcata nell'infanzia e nella primissima giovinezza di Jenny, la storia sia da ascriversi agli orrori sovrannaturali o agli orrori perfettamente reali.

 Qualsiasi cosa si decida di credere, la storia racconta molto bene, nonostante sia ambientato negli anni '30, cosa fu alla base della caccia alle streghe: il tentativo di una società repressiva, patriarcale e crudele, di annullare e divorare metà del genere umano, quello femminile. 

 Jenny non è diversa dalla stragrande maggioranza delle bambine di adesso, desiderosa di giocare senza vincoli, curiosa e molto vivace. Eppure, per l'epoca, anche una bambina vivace veniva vista dagli adulti come un'onta da sopprimere in ogni modo, con le buone quando andava bene (l'insegnante che la prende a benvolere senza però davvero comprenderla perché animata da motivi altri rispetto al benessere della bambina), con le cattive quando andava male (le percosse ripetute e violente da parte della madre adottiva, terrorizzata dalla possibilità che diventi una donna perduta come la madre biologica).

Non si sa che Lucifero faccia davvero parte di questa storia, ma quel che è certo è che l'umanità è stata sempre l'artefice di qualsiasi orribile finale.


IL SEME DEL MALE di Joanne Harris ed. Garzanti:

 Non ho mai letto nulla di Joanne Harris, famosissima autrice di "Chocolat", libro che non ho mai avuto desiderio di leggere, ma del quale, ammetto, avrò visto il film almeno 20 volte (senza mai capire la vera età di Juliette Binoche). 

 Quando ho trovato questo suo strano primo libro all'usato a ottobre ho pensato fosse davvero un'interessante coincidenza halloweenosa e così, nonostante gli sconsigli su fb, l'ho fatto mio.

 E' in effetti un'opera prima molto acerba. Ruota tutta attorno a una frase letta dalla Harris su una lapide e appare in tutto e per tutto il classico esercizio di stile da scuola di scrittura creativa: "Puoi riuscire a costruire un intero romanzo su qualcosa che ti è rimasto stranamente impresso?"

 Diciamo che la Harris ha tentato, ma non è riuscita. A mio parere non tanto per l'immaturità come scrittrice, quanto per un problema, in verità, comune a molti romanzi: l'idea di base è graziosa, ma può reggere un racconto e non un romanzo.

 Una giovane pittrice, Alice, vive una vita solitaria e poco vivace, ma un giorno riceve inaspettatamente la chiamata del suo ex fidanzato che le chiede di ospitare la sua nuova ragazza, la fragile e bellissima Ginny. Alice, sebbene infastidita, accetta, ma scopre ben presto che Ginny è molto poco indifesa e si circonda di molti amici inquietanti che vede solo di notte. Chi è davvero? Una creatura dell'altro mondo o una tossica manipolatrice?

 Alcuni momenti, come la parte stranamente action nel finale, sono più riusciti e in verità si nota già quanto la Harris avesse una mano promettente.

  Tuttavia, la storia è troppo lunga per le sue potenzialità e non mostra nessun elemento di particolare novità, come del resto sembra ammettere anche la Harris nella prefazione, quando sembra quasi scusarsi per questo suo esordio poco convincente. Cercavano una nuova Anne Rice e, in effetti, avevano trovato un talento, ma non certo del genere gotico.

 Rimane una graziosa lettura per gli appassionati del genere. Per tutti gli altri, lasciate stare.

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