venerdì 31 luglio 2020

Nessuna rivoluzione ha bisogno di autorizzazione. Sull'affaire Feltri-Gheno, l'uso sessista e politico della lingua e i rapporti di potere che non riusciamo a vedere

Da un po’ di tempo, si discute sull’uso sessista della lingua.

 Se ne discute da decenni, ma diciamo che negli ultimi tempi, complici alcuni saggi, tra i quali il dibattito in merito si è fatta più vivo.

Una discussione, stupirà molti, legittima, visto che basta fare l’esame di Linguistica 1 per sapere che la lingua è viva ed evolve in relazione alla società, ANCHE ai rapporti di potere nella società

Nella lingua italiana, al contrario di altre, non esiste il genere neutro e, in generale, si ritiene che il maschile comprenda tutto, anche il femminile.

 Te lo spiegano anche alle medie, durante le ore di grammatica, che se pure c’è una classe di 10 persone, 9 femmine e 1 maschio, saremo tutti compagnI di classe e non compagnE, perché non vale il peso numerico, ma il peso del potere. 

 Il maschile è la carta che prende tutti. Non credete, persino a noi dodicenni la cosa sembrò alquanto sospetta e ci fu persino una discussione in classe sedata come vengono sedate tante discussioni tra adulti e minori: è così. Punto.

 Ma se un dodicenne può accettare che un adulto, si suppone laureato, abbia ragione in favore di una maggiore istruzione e di un ruolo (sempre di potere), è un po’ troppo chiedere che questo avvenga anche tra persone adulte, e, come si suol dire, studiate.

 La lingua è un esercizio di potere ed è inutile che orde di accaniti difensori della lingua italiana,(che per correttezza spero perdere il lume della ragione nel tentativo di comprendere se sia più corretta la forma “famigliare” o “familiare”), fingano non sia così. 

 Altrimenti non si spiegherebbero le perpetue crisi di nervi davanti ad una donna che vuole essere chiamata ministrA e non ministrO, come se la lingua fosse un monolite che non cambia mai e noi parlassimo esattamente come Plinio il Giovane (e Plinio il Giovane a sua volta avesse parlato come Plinio il Vecchio).

 Ironizzando, credono loro, dicono che allora il giornalista dovrebbe chiamarsi giornalisto o il pilota –piloto, dimostrando in tal modo un’ignoranza dell’evoluzione della lingua che tanto credono di difendere. 

Giornalista e Pilota infatti non hanno desinenza in A in quanto mestieri d’elezione femminile (come può essere per ostetrica, e comunque non ho mai sentito un ostetrico chiamato al femminile), ma perché non tutte le parole che finiscono in A determinano il genere femminile (anche se nelle anagrafi, paradossalmente, grazie a questa logica, stanno sdoganando nomi che valgono per entrambi i sessi, avendo non tanto conosciuto varie Andrea, ma persino una Enea e alcune Vania).

 Ma non è per dissertare di desinenze che sono qui, ma per l’affaire Mattia Feltri, il quale,  ha scritto qualche giorno fa un articolo su La Stampa in cui, sostanzialmente, fa quello che fanno molti uomini etero davanti al cambiamento: cerca di ridicolizzarlo per sminuirne la portata.

 Parla dell'uso dello schwa citando una fantomatica accademica della Crusca che ne avrebbe scritto su fb, senza però nominarla. Si tratta di Vera Gheno, che non è un'accademica della Crusca, ma una collaboratrice e oltre a vari interessanti libri ha scritto questo bell'articolo per La Falla, in cui ricostruisce tutta la vicenda e parla, seriamente, dell'oggetto del contendere.

Anche la traduzione soffre del medesimo
problema. Come diceva Nanni Moretti
"Le parole sono importanti" e anche la
scelta delle parole per dire altre parole
lo è. Un testo interessante è "Il corpo del testo"
di Laura Fontanella, Asterisco ed.
 Qui potete leggere l'articolo che, chissà perché, Feltri si è sentito in animo di scrivere.
 Peraltro lo si vorrebbe rassicurare. 

 Non fa la figura del sessista perché si propone di argomentare sullo schwa, ma perché in realtà NON vuole argomentare, vuole dileggiarlo e anche fare quel vittimismo un po' insulso nel quale si crogiola chi, vi posso assicurare, la discriminazione non sa manco dove sta di casa.

Quando poi si pensa che la cosa stia andando male, si può star certi che fatalmente andrà peggio.

E' infatti intervenuta l’Accademia della Crusca con una lettera del suo presidente.

 Tu dici, vorrà un attimo dire la sua sulla questione. Invece no. 

  Il presidente, assai piccato, ci informa che l’accademica della Crusca in questione (che rimane innominata anche in questa lettera ed è sempre Vera Gheno), non è affatto un’accademica della Crusca, ma aveva solo collaborato con loro. 

 Ci tiene poi a farci sapere che ama molto La Stampa (giornale della sua città) e che comunque il suo pensiero è in linea con Feltri e che, in ogni caso si riserva di “difendere nelle sedi opportune il buon nome dell’Accademia”, non si sa infangato esattamente in quale modo.

 Possiamo divertirci in un esercizio di comprensione del testo e cercare di capire quante cose sono intrinsecamente errate in questa lettera:

1) La mancanza del nome della linguista. Non è un errore, è un esercizio di potere
La lettera che trovate postata sul profilo fb
dell'Accademia della Crusca

 Quando tu non ritieni neanche che una persona sia “degna” di un nome e di un cognome, la stai automaticamente mettendo su un piano d’inferiorità. 

 Tra pari ci si confronta, tra padroni e sudditi no. Il contadino conosce il nome del padrone, il padrone non conosce il nome del contadino. Nessun generale è mai stato un milite ignoto. Avere un nome, come ci insegna persino “La storia infinita” è fonte di potere, si esiste solo in quel momento. Negli altri casi, beh, sei qualcuno di dimenticabile e trascurabile, anzi, esisti sul serio?

2) Frega qualcosa a noi che al presidente dell’Accademia della Crusca piaccia La Stampa, giornale della sua città? No, perché non ce ne frega assolutamente niente dei gusti personali di una carica accademica. L’unica figura che fa, e non so se è quella che voleva fare, è farci sapere che Sua Grazia apprezza profondamente il comportamento del giornalista, ma che insomma, mio caro, verifica meglio le fonti se no devo darti un simpatico buffetto ammonitore.

3) C’è bisogno di dire che è la solita roba che riguarda donne e minoranze e che nessuno dei due è donna o minoranza? Non che si possa avere un’opinione solo in quel caso, ma siamo di nuovo alla Parrella che strabilia quando il giornalista le dice che parlerà del Me Too con Augias. Uomini che si dicono solo tra di loro quanto sono bravi. Applause.

4) L’Accademia della Crusca, si suppone, dovrebbe esistere per motivi più validi del dirci se Qual è si scriva con o senza apostrofo. Mi aspetto, da quella che è la più conosciuta istituzione sullo studio della lingua italiana che non liquidi sdegnosamente un dibattito che potrà anche pensare marginale, ma che esiste.

 Se è giusto sottolineare un errore marchiano di attribuzione di ruoli, non sta all’Accademia della Crusca dire o non dire se alcune rivendicazioni linguistiche siano passibili o meno di studio. Già il fatto che ESISTANO le rende degne di studio, dibattito e attenzione. E non solo, non è neanche all'Accademia della Crusca che va l'immaginario appannaggio di attribuire un ranking di importanza delle questioni linguistiche.

 Ma qui torniamo al motivo della mancanza del nome di Vera Gheno. Se io fingo che qualcuno o qualcosa non esista, la ricaccio nell’ombra e preservo lo status quo. 

 Dire che sì, c’è un’esigenza rivendicata di una lingua più neutra e meno sessista e cercarne le motivazioni sociali e strutturali vuol dire ammettere che “le cose stanno cambiando” e che QUELLA COSA esiste.

 Personalmente io non credo che una lingua artificiale possa prendere piede. 

 Non riesco a immaginare realmente un futuro con libri colmi di asterischi e schwa, ma ragazzi, davvero basta l’esame di Linguistica 1 o aver fatto grammatica decentemente alle medie per capire che qualcosa sta cambiando e non in modo artificiale. La lingua prende la forma della società che la esprime e non esiste accademico che ci possa autorizzare in tal senso.

 Non esiste editoriale che possa ridicolizzare e far svanire un processo in atto.

 Arriverà un momento in cui NATURALMENTE arriveremo a una risoluzione del neutro, in cui una classe di dieci alunni con un solo maschio non userà più il maschile per definire l’insieme, e non ci arriverà perché qualcuno ci autorizzerà dai banchi di qualche centenaria istituzione, ma perché quell’istituzione dovrà prenderne semplicemente atto.

 Nessuna rivoluzione ha bisogno di autorizzazione.

lunedì 27 luglio 2020

Cosa mi porto da leggere in vacanza questa estate? Venezia, gialli, vampiri, biografie e impero ottomano per me sotto l'ombrellone!

 E anche quest’anno siamo giunti al consueto post prima delle ferie: cosa mi porto da leggere in vacanza?

Ill by David Doran
 Di solito mi faccio un giro in libreria e/o biblioteca per scegliere le cose più sugose, ma in questo strano anno mi sono affidata molto alle suggestioni personali. 

 In libreria ahimé sto andando pochissimo e quando vado, compro a colpo sicuro. Non riesco proprio a rilassarmi con l’idea che qualcuno stia per entrare, che ci sto mettendo troppo tempo, che non devo toccare troppo qui o lì. 

 Non me ne vogliano gli (ex, ma per sempre) colleghi, ma io sono proprio una che ci mette una montagna di tempo a scegliere i libri e mi porto purtroppo ancora dietro l’ansia del lockdown lombardo, quando pareva che bastasse toccare una maniglia per finire in terapia intensiva.

 In biblioteca non va meglio perché lì non si può proprio vagare a scaffale aperto (adesso, a Milano, su prenotazione, in alcune biblioteche sì, ma non nella mia di riferimento).

 Così ho fatto attentissimi studi bibliografici partendo da cose che mi piacciono o mi ispirano al momento e ho fatto un gigaordine di massa in biblioteca (dove l’opzione “prenota e passa a prendere” è una mano santa per chi lavora) E sono in attesa di una novità che mi aveva davvero ispirato tantissimo vedendola online.

Le parole d'ordine dell'estate 2020 sono quindi: VENEZIA, BIOGRAFIE, GIALLI e HORROR.

 Un paio di settimane fa, come saprà chi mi segue sui social, sono stata a Venezia. 

Ci avevo fatto un lungo viaggio molti anni fa coi miei nonni e ne avevo un ricordo splendido, così temevo di rimanere delusa dal presente. Alla fine, i ricordi, soprattutto quelli con le persone che amiamo e che non ci sono più, rischiano sempre di brillare più del presente.

 Invece, se possibile, ho trovato una Venezia ancor più meravigliosa. 

 Molto ha sicuramente giocato il fatto che sia attualmente deserta, come di sicuro non è da decenni. 

Intendiamoci, lo so che per il turismo locale è una tragedia, ma vedere Venezia con le calli deserte, un silenzio incredibile, i vaporetti con una capienza umana, i prezzi persino più bassi, nessuna coda, nessun assembramento per fare una foto decente a Piazza San Marco, senza dover sgomitare per una foto davanti al ponte dei sospiri e senza rimanere incastrati nelle viuzze dalle fiumane strepitanti di ogni parte del mondo, è davvero senza prezzo.

 Se potete, andate perché si tratta di un momento davvero unico.

 Complice il fatto di aver beccato giornate splendide e persino la festa del Redentore (di cui ignoravo colpevolmente l’esistenza), sono tornata con un entusiasmo veneziano che si è riversato pesantemente sulle mie letture estive.

Ma va anche bene così. Quest’anno, non potendo girare liberamente tra gli scaffali della biblioteca a farmi ispirare, dovevo avere delle idee abbastanza precise a monte così, mentre me ne starò al lago e al mare, farò parecchi giri immaginari in quel di Venezia.

 Dopo molto scartabellare bibliografie nel web, ho quindi scelto:


A VENEZIA... UN DICEMBRE ROSSO SHOCKING e altri racconti di Daphne du Maurier:



Lo scorso autunno ho visto finalmente il film, trovandolo per la gran parte del tempo mortalmente noioso. Eppure. Anche a distanza di tempo c’è qualcosa che qui e lì mi ci fa ripensare.

Mi aveva colpito particolarmente che Venezia venisse trattata non come un posto turistico, ma come un luogo di lavoro (il protagonista è lì per restaurare la facciata di una chiesa), in cui i personaggi incontrano persone del posto e intessono con loro relazioni strane. 

 Sono molto curiosa di leggere il racconto da cui è tratto, poi è un sacco di tempo che provo a leggere qualcosa della du Maurier, ma alla fine, per un motivo o un altro, lascio perdere. 
Magari coi racconti avrò miglior fortuna.


DAPHNE di Tatiana de Rosnay ed. Neri Pozza:


 Volevo leggere una biografia e mi ero orientata su quella delle sorelle Mitford uscita qualche anno fa, ma in biblioteca, a quanto sembra, sono molto ambite e c’era una certa coda nella prenotazione. 

 Ho deviato quindi verso Daphne du Maurier in persona.

 Le biografie sono il terno al lotto sommo: se il biografo è bravo, leggerai un libro spettacolare, se si è dimenticato che non sta scrivendo una tesi di dottorato, ma un libro per un vasto pubblico, si rischia di finire in una disamina minuziosa di qualsiasi cosa abbia fatto l’oggetto della biografia in quell’istante, in quel luogo, in quel momento a quell’ora.

 Incrocio le dita.


 Il TURCHETTO di Metin Arditi ed. Neri Pozza:


 Se provate a fare una ricerca bibliografica sui romanzi ambientati a Venezia, vedrete che quelli che vanno per la maggiore sono i romanzi storici che è un genere che non mi appassiona mai particolarmente. 

 Mentre amo molto le biografie, trovo il romanzo storico disonesto da un certo punto di vista, poiché tende a romanzare fatti ben più truculenti o spiacevoli (e quando non lo fa, tende a essere la versione noiosa del libro di storia).

  Malgrado la quarta di copertina dai sempiterni toni del romanzo d’appendice per giovinette (ah, i danni delle quarte di copertina all’editoria!), la storia di questo pittore ebreo di Costantinopoli, poi a Venezia, forse esistito e forse no, mi ha attirato più delle altre. Speriamo bene.


L’ALBERO DEI GIANNIZZERI  di Jason Goodwin ed. Einaudi e UN'INDAGINE IMPERFETTA di Susan Hill ed. Kowalski:


Come tutti, in estate amo leggere gialli e tendenzialmente cerco di dare una possibilità a qualche nuovo autore. Quest’anno non ho trovato nessuno scandinavo che mi intrigasse, quindi ho attinto alla mia sempiterna wishlist.

 “L’albero dei giannizzeri” andava assai di moda qualche anno fa. Era uno di quei gialli che “Macccomenonlohailetto”.

 All’epoca avevo rinunciato per il problema di cui sopra: è un indagine sì, ma ambientata a metà dell’800 a Istanbul e non se reggo le continue ricostruzioni d'ambiente dell'epoca.
 Vedremo.

 Con “Un’indagine imperfetta” spero di andare un po’ più sul sicuro. 

 Susan Hill è un’autrice contemporanea che scrive ottima narrativa gotica. Di suo ho letto “La donna in nero” e “L’uomo nel quadro” e mi sono piaciuti entrambi moltissimo. Qui si cimenta in un’indagine contemporanea nella campagna inglese. Sono molto curiosa e fiduciosa.


GUIDA AL TRATTAMENTO DEI VAMPIRI PER CASALINGHE di Grady Hendrix ed. Mondadori:


 Amo molto i film e i libri che svelano l’ipocrisia celata dietro immaginifiche famiglie perfette contenute in case perfette, contenute a loro volta in quartieri perfetti di città perfette. 

 Probabilmente perché trovo inaccettabile la perversa illusione di poter celare le magagne di un mondo progettato per una piccola élite di privilegiati che credono di meritare tutto e di essere migliori degli altri.

 Alcuni film americani di un tempo erano particolarmente crudeli e specifici in questo disvelamento (“La signora ammazzatutti”, “Edward mani di forbice”), cosa che non avviene più e non per colpa del “politically correct” come pensa qualcuno, ma per colpa del “ommiddio se faremo questo film incasseremo qualcosa? Meglio non rischiare e buttarsi sul solito prodotto confezionato per un target specifico grazie alla massa di dati personali che ormai possediamo in quantità industriale”.

 Insomma, chi ha voglia di rischiare, quando può direttamente incassare?

 Questo horror mi sembra viaggiare più o meno sulla lunghezza d’onda di quei vecchi film o sulla sempiterna domanda del vecchio Dylan Dog: chi è davvero il mostro?

 In un tranquillo sobborgo di una tranquilla cittadina Patricia Campbell si occupa di casa, cucina e suocera malata. Un giorno un uomo si trasferisce nel quartiere e prende a frequentare il suo stesso gruppo di lettura. E’ un filino strano e in contemporanea iniziano a svanire bambini di colore. Una coincidenza?
 Non vedo l’ora di leggerlo!


DRACULEA di AA VV  ed. Abeditore:


E per aggiungere vampiri a vampiri e fare anche un po’ di compiti, leggendo un classico, mi porterò "Draculea", un’antologia dell’Abeditore sulla figura del vampiro.

 Racconti vampireschi d’antan poco conosciuti, estratti e documenti su veri e presunti atti di vampirismo, per avere una visione, è il caso di dirlo, ad ampio spettro . E’ anche molto da viaggio, visto che è un quadrotto comodo da portare in giro.

Ed ecco qua. Poi, visto che quest’anno rimango in Italia e sono costretta a rinunciare all’amato Portogallo, nulla vieta che setacci qualche libreria alla ricerca di nuove perle.
 E voi? Cosa porterete in vacanza?!


sabato 25 luglio 2020

Quando scappi devi correre il più lontano possibile. "La ferrovia sotterranea" di Colson Whitehead, per metà sfolgorante e per metà "corri!".

 Quando ci si decide a leggere una di quelle storie ambientate negli Stati Uniti durante il periodo dello schiavismo, bisogna prepararsi psicologicamente.

 Un po’ come quando ci si avventura nelle storie ambientate durante il nazismo. Sai che stai andando a toccare gli abissi della malvagità e della bassezza umane e che la fiducia in una tendenza fondamentalmente buona e civile dell’umanità sta per subire l’ennesimo duro colpo.

 Eppure sono spesso storie di una bellezza incredibile, probabilmente per dar ragione ad un vecchio adagio di Orson Welles: Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent'anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù.”

 Premettendo che io preferirei gli orologi a cucù, “La ferrovia sotterranea” si aggiunge ai tanti bei libri southern, come l’intera bibliografia di Fannie Flagg (primo su tutti “Pomodori verdi fritti alla fermata di Whistel Shop”, immotivatamente tenuto spesso nella narrativa rosa), “Amatissima” di Tony Morrison, “Il cuore è un cacciatore solitaraio” di Curson McCullers o il bel “La vita segreta delle api”, solo per citarne alcuni.

 La protagonista de “La ferrovia sotterranea” è la giovane Cora
 Siamo nella prima metà dell’800 e vive in Georgia, uno degli stati più duri nei confronti delle persone di colore. C’è ancora lo schiavismo ovviamente, si intravede la forte contrapposizione che porterà alla guerra civile americana e gli schiavi non sono neanche considerati persone, ma semplici proprietà del latifondista di turno che decide tutto: se farli vivere o morire, con chi farli sposare, a chi vendere i loro figli.

 Le condizioni di vita variano molto da piantagione a piantagione, anche se sono generalmente pessime. I bianchi hanno il terrore di una qualche rivolta degli schiavi di colore, ormai, in alcuni stati del sud, maggioranza rispetto a loro.

 Eppure gli schiavi non si organizzano (anche perché non è difficile immaginare anche l'ora l'esito di un'eventuale rivolta da parte di un gruppo non armato e difficilmente coeso). Cercano in ogni modo di sopravvivere e di trarre delle piccole gioie da una vita fondamentalmente infernale e molto breve. 

 Ogni tanto qualcuno sogna di scappare negli stati del nord, dove le persone di colore sono trattate in modo non egualitario, ma più civile. Ogni tanto qualcuno ci prova, quasi nessuno ci riesce e chi viene catturato, assieme a chiunque lo abbia aiutato (bianco o di colore che sia) vengono puniti atrocemente.

 La madre di Cora è tra i pochissimi che siano mai riusciti a scappare e che, soprattutto, non siano mai stati riacciuffati da nessun cacciatore di taglie. Forse, qualcuno ipotizza, è arrivata fino in Canada che curiosamente è uno stato che gli statunitensi sembrano sempre disprezzare vagamente eppure, risulta, si comporta spesso ben più civilmente di loro.

 Un giorno un ragazzo della piantagione propone a Cora di fuggire e lei accetta. Inizia da lì un’avventura che all’inizio è sfolgorante poi, per ragioni che sarebbe interessante sapere da Colson Whitehead, ad un certo punto sembra arenarsi.

 Cora infatti scappa attraverso una mitologica ferrovia sotterranea. Una ferrovia segreta completamente interrata dove passano ogni tot treni pronti a portare gli schiavi fuggiaschi verso gli stati del nord.

 Sembra che esistesse effettivamente un sistema di itinerari segreti per favorire la fuga degli schiavi grazie a persone di buona volontà, sia di colore che bianche, ma i documenti al riguardo sono ovviamente pochissimi. Come si legge anche nel libro di Whitehead, chiunque venisse anche solo sospettato di aiutare i fuggitivi rischiava dalla tortura alla morte passando alla distruzione di tutti i propri beni.

 Se la prima parte del libro è davvero sfolgorante, dopo si arena leggermente, soprattutto perché non è chiarissimo come mai Cora commetta nella seconda parte lo stesso identico errore della prima: invece di capire che una fuga è una fuga che rischia di non finire mai e proprio per questo è sempre meglio andare il più lontano possibile, si ferma a oltranza nei luoghi in cui finalmente sente un anelito di libertà, salvo poi essere brutalmente riportata alla realtà.

 Ci può anche stare eh, che, nati e vissuti in condizione di schiavitù il passaggio all’idea che la vita possa essere davvero libera e non una sorta di versione migliore del passato, sia qualcosa difficile da elaborare, ma Cora non sembra mai riflettere davvero su questo suo personale stato di sudditanza psicologica.

 Sembra avere una sorta di risveglio durante la prima parte, quando realizza che in Carolina del sud sì, le persone di colore vengono trattate meglio, ma per essere sottomesse in altri modi, più sottili, ma poi non sembra far tesoro di questa sua condizione.

 Intendiamoci è un gran libro, ma ha pur sempre vinto il Pulitzer quindi credo fosse lecito aspettarsi una tensione narrativa e un finale all’altezza.

 Invece sembra quasi che Whitehead abbia deciso di voler insistere sulla sola brutalità dell’oppressione, che va anche bene, ma stona un po’ nel ritmo narrativo della storia che, proprio come il titolo, sembra un treno lanciato nel buio della notte, ansioso di vedere se non la luce accecante in fondo al tunnel, almeno la fine del tunnel.

 Invece sembra arenarsi su un binario morto e non per sfortuna, ma per lo stesso identico errore che la protagonista compie, sensatamente la prima volta, insensatamente la seconda.

 Bisogna sempre scappare il più lontano, il più lontano possibile e non fermarsi mai a guardare indietro, altrimenti si rischia di rimanere statue di sale, come la storia biblica.

Ed è quello che succede al finale di questo libro. Invece di spingere sull'acceleratore e arrivare alla fine, bella o brutta che fosse, ha preferito rimanere immobile.

In ogni caso, un bel libro, assolutamente da leggere e sono molto curiosa di leggere "I ragazzi della Nickel".

sabato 4 luglio 2020

Piccole recensioni tra amici! "Il dolce domani" di Banana Yoshimoto e "Splendido visto da qui" di Walter Fontana tra Kyoto, satira, fantascienza e mabui

 Ed ecco un nuovo post in questo sonnolento fine settimana di una strana settimana di luglio fatta di una Milano silenziosa e semideserta (che ormai sembra di stare in una città dove tutti sono fuggiti in pieno stile "Decamerone").
 Le biblioteche finalmente hanno ricominciato il prestito e io e il mio portafoglio non è che siamo grati, di più, e almeno questa è una buona notizia. Molto altro da dire in questa estate molto strana e un po' triste non c'è, ma si fa del nostro meglio per tenere il morale alto!

 Intanto vi lascio con due nuove recensioni! Buona lettura!


IL DOLCE DOMANI di Banana Yoshimoto ed. Feltrinelli:

 Sono anni che continuo, ogni estate, visto che i suoi libri escono puntualmente in giugno, a comprare i nuovi titoli di Banana Yoshimoto come atto di fede. 

 So che ormai i tempi di "Kitchen" e "N.P." (il mio preferito in assoluto) sono passati e non torneranno, eppur mi ostino perché anche la delusione viene accompagnata ogni volta da una strana aura rassicurante, molto yoshimotesca a pensarci: comunque vada, esce un libro di una delle mie scrittrici preferite a farmi compagnia. 

 Stavolta, dopo molti anni, finalmente Banana mantiene in parte le sue antiche promesse.

 "Il dolce domani" è una versione di "Moonlight shadow" scritta con maggior maturità.

 In "Moonlight shadow", il racconto contenuto in "Kitchen" che fu la sua allora tesi di laurea, una giovane Banana Yoshimoto, molto anticonformista, amante della vita notturna e in rotta piena col mondo tradizionalista a cui apparteneva anche suo padre, il critico Ryumei Yoshimoto, entrava nel mondo della narrativa con uno stile estremamente fumettoso, all'epoca assai innovativo.

"Il dolce domani" vi farà venire anche molta voglia di andare
nella splendida splendida Kyoto
 Era la storia di una separazione traumatica: c'è una giovane coppia felice, ma lui muore tragicamente in un incidente stradale assieme alla giovane fidanzata del fratello minore. 
I due sopravvissuti cercano di riemergere dal dolore con estrema fatica.
 Era una trama banale scritta in modo sorprendente fresco, doloroso eppure non tragico, estremamente vivido.

 Anche ne "Il dolce domani" c'è un incidente drammatico: Sayoko e il suo fidanzato hanno avuto uno schianto in macchina tornando dalle terme. Lui muore, lei sopravvive nonostante terribili ferite.

 Anche qui lei deve imparare a sopravvivere, o meglio, a vivere di nuovo.

 Ma si vede che Banana Yoshimoto non ha più lo slancio melodrammatico dei vent'anni e le emozioni intense vengono limate in modo quasi soffuso. Sayoko soffre in modo diverso e a cose diverse si aggrappa nel disperato tentativo di venirne fuori. 

 Ed è un esercizio interessante da leggere perché dimostra quanto gli anni ci cambino e diano luce a prospettive diverse. 

 Il tempo ci rende più saggi, più propensi a capire come "lasciar andare". Quando si è molto giovani l'idea di perdere qualcuno è traumatica, impossibile da concepire, impossibile da vivere, com'è giusto che sia, ma quando gli anni passano e il nostro mondo invecchia, capiamo presto che mantenendo un'elevata intensità non saremmo in grado di sopravvivere.

 La bolla in cui vive Sayoko è indispensabile per ricostruire e ritrovare il mabui di cui si parla nel libro. La parte più essenziale di noi, ciò che ci rende noi stessi.
 E' un bel libro, che consiglio e che piacerà, con un tocco di nostalgia, agli amanti storici di Banana.


SPLENDIDO VISTO DA QUI di Walter Fontana ed. Giunti:

La fantascienza è un genere disgraziatamente frequentato negli ultimi anni non ho capito se dagli scrittori italiani, dall'editoria italiana o da entrambi. Si passa da cose estremamente settoriali, ai libri evidentemente per ragazzini alla fantascienza di tipo "satirico".

 "Splendido visto da qui", come anche ad esempio "Il censimento dei radical chic" di Giacomo Papi, curiosamente (ma forse anche no) scritti entrambi da autori tv comici, fanno parte di quest'ultimo genere. 
"Splendido visto da qui" di Walter Fontana

Si prendono delle storture della società odierna e le si porta all'estremo ipotizzando futuri in cui hanno preso il sopravvento in malo modo. Il risultato è che gli spunti sono fantastici, la resa un po' meno.

 Il problema della fantascienza "satirica" infatti è che non sembra aspirare a raccontare una storia compiuta, ma ad evidenziare un tema con una sorta di freccia luminosa: vedi cosa c'è che non va? Lo vedi?

 E tu lo vedi per carità, ma vorresti anche leggere una bella storia, non un'arguta intuizione.

 Al contrario de "Il censimento dei radical chic" che si risolve in modo deludente nella sua eccessiva brevità, "Splendido visto da qui", pur con alcune evidenti contraddizioni di trama, è sicuramente raccontato in modo migliore e più esteso.

 Ci troviamo in un futuro, non lontanissimo, il cui la retrotopia è diventata realtà: le persone vivono in un mondo diviso per decenni. 
Un po' come in Hunger Games sono divisi in regioni a seconda del lavoro, qui sono divisi per decennio.

 Le persone vivono o negli anni '60-'70-'80-'90-'00 inseriti in un contesto da vero e proprio Truman Show: la musica, le notizie, gli oggetti, il cibo, tutto appartiene ad un decennio specifico che, ogni 10 anni, ricomincia da capo.

 In questo contesto, particolare importanza ha il lavoro dello spazzino, incaricato di trovare nella spazzatura, merce di contrabbando che passa da un decennio all'altro. Chi viene scoperto in possesso di una marmellata anni '80 negli anni '60 rischia di essere arrestato, per non parlare dei contrabbandieri in persona.

 Il protagonista è un solerte spazzino che ricorda un po' il protagonista di "1984": è inserito nel sistema e dopotutto non gli spiace, anche se qualcosa, in generale, non gli torna.
 Un giorno lo spazzino trova in un frigo una ragazza scappata da un altro decennio e da lì si dipana una storia di contrabbando e malversazione statale.

 Il libro è molto piacevole, l'ho letto velocemente e ho apprezzato l'idea della nostalgia come trappola anche se esposta qui e lì in modo didascalico.
 Tuttavia sul finale denota il problema di cui parlavo a monte: se fosse stata una storia di fantascienza concepita come tale e nel rispetto del genere, avremmo avuto altre spiegazioni e sarebbe accaduto qualcosa. Qualcosa di grosso intendo. La storia del piccolo ingranaggio che devasta il sistema inceppandosi avrebbe avuto una deflagrazione importante e avrebbe anche trasformato il libro in qualcosa di importante.

 Invece Fontana si accontenta di un finale un po' tanto facilone ('sta mania di iniziare i libri e poi a un certo punto buttarli in caciara deve passare), con un contesto che non viene minimamente sfiorato dalla storia principale. Non veniamo mai a sapere se le persone costrette in questi decenni vivono male o sono felici, se attendono la rivolta o, dopotutto, stanno benissimo come stanno.

 Il dubbio è che non lo sappia nemmeno Fontana e che fosse semplicemente appagato del risultato raggiunto dal suo spazzino. Tutto bene per carità, ma è un po' poco e valeva la pena rischiare e crederci un po' di più. Le potenzialità c'erano, perché sprecarle?

In ogni caso un bel libro, magari, perché no, potrebbe esserci una seconda parte?
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