sabato 23 novembre 2019

Piccole recensioni tra amici! Sedaris, Aciman e Zerocalcare: un ni, un NO e un sì!

 Ridendo e scherzando siamo arrivati alla fine di novembre.


  Vuol dire che tempo tre secondi sarà natale e io starò rincorrendo i post per i consigli da darvi fino al 24 notte.


 Smaltisco perciò con questo post un po' di letture di questo ultimo mese che è stato meno proficuo del solito (si va a mesi ahimé)!


Piccole recensioni tra amici, una insomma, una negativa e una positiva, tutte per voi!




CALYPSO di David Sedaris ed. Mondadori:

 Se Sedaris fosse nato trenta e non sessanta anni fa, non sarebbe diventato un scrittore, ma un blogger di successo. O meglio, sarebbe probabilmente diventato un blogger di successo e poi uno scrittore.

 Calypso, una serie di raccontini di vita privata più adatti a un blog che a un libro ne sono la dimostrazione.

 Perché dico questo (consigliandovi comunque il libro che è godibilissimo, magari forse meglio in edizione economica)?

  Perché Sedaris ci racconta una serie di episodi legati alla sua famiglia e alla sua vita con la chiara volontà di rimanere in totale superficie, quindi di non donargli alcuno specifico valore di tipo letterario.
 Io amo da impazzire i memoir, mi piace leggere le vite degli altri perché mi illudo sempre che potendo rintracciare il percorso altrui io possa in qualche modo comprendere e correggere il mio.

 Si tratta poi sempre un’illusione totale visto che talvolta le vite prendono pieghe avverse per dolo personale, ma più spesso per disgrazie difficilmente prevenibili.

 Il libro di Sedaris però non va nella direzione del memoir. Ci racconta del padre anziano che, come molti anziani, rifiuta ogni aiuto e vive in una casa stipata di oggetti. Ci racconta della sorella minore morta suicida e della madre morta di malattia intorno ai sessant’anni. Parla della casa al mare che ha comprato perché lui e i suoi quattro fratelli superstiti potessero incontrarsi ogni tanto.

 Tuttavia, nei racconti quotidiani non emerge mai una volontà di andare più a fondo. Stai leggendo un resoconto e non una storia.

 Si evince drammaticamente nella storia della sorella suicida. Un’anima fragile di cui sappiamo solo che sapeva sperperare denaro, aveva un imprecisato problema mentale e non amava avere contatti coi propri fratelli. En passant, come se dopotutto non fosse davvero importante, ci dice che i genitori, dopo una sua fuga da casa al liceo, l’avevano spedita in una sorta di collegio per ragazzi difficili e lei non lo aveva mai perdonato né a loro né ai fratelli.

 Si erano giustificati dicendo che avevano altri cinque figli a cui badare e Sedaris non racconta altro, non commenta, non riflette.

Ci dà questo assioma nudo e crudo. Ovviamente non credo che non ci abbia riflettuto, ma ha deciso di non condividere col lettore i suoi pensieri. Legittimo, ma tutto rimane nell’assoluta superficie, come quando incontri uno che conosci bene, ma non tanto e ti fa un po’ un recap veloce delle sue disgrazie. Cosa ti lascia? Nulla se non la spiacevole sensazione che forse sarebbe stato meglio non incontrarlo.

 Il libro ovviamente è scritto bene, ma manca quel legame di reciproca fiducia che deve esistere tra uno scrittore e un lettore. Nessuno obbliga lo scrittore a raccontare la sua vita personale, ma nel momento in cui decide di farlo non può dare dei raccontini da blogger di successo.
 Altrimenti, appunto, apri un blog.


CERCAMI di André Aciman ed. Guanda:

Vorrei poter fare una recensione di questo libro, ma è talmente pessimo che non ne ha bisogno.

Avevo amato tantissimo il film che mi aveva profondamente commosso e anche il libro, meno bello e delicato del film, con alcune inutili fronde (tipo la bambina malata), ma comunque ben scritto.
  Mi attendevo molto da questo seguito.
Oscuramente credevo sarebbe stata una versione estesa del finale di “Chiamami col tuo nome”, ossia il pezzo in cui i due protagonisti si incontrano adulti e invecchiati dopo tanti anni.
E INVECE NO.

Il libro, diviso in tre parti, ci racconta tre episodi rispettivamente del padre di Elio, Elio e Oliver.

Immotivatamente la storia inizia con questo lunghissimo, insensato, inutile episodio in cui il padre di Elio (personaggio che appare quasi quale comparsa nel primo libro, degno di memoria solo per il discorso fatto al figlio nel finale) incontra una giovane e avvenente fotografa su un treno per Roma e scoppia la passione. Una roba luuuuuuunga, tedioooooosa, inverosiiiiiiimile. Noiosissima.

 Sono comunque sopravvissuta a questa prima parte eroicamente. 
Mi sono detta: “Vabbeh, magari voleva esplorare un personaggio a lui caro e vicino per età”.

Poi però a metà del libro, ergo a metà della storia di Elio, mi sono arresa. Aveva lo stesso schema della prima: incontro casuale, pasto insieme, verbosità inutile a non finire, noia totale.

Non so cosa abbia spinto Aciman a tentare l’impresa.

 Non voglio pensare siano stati solo i soldi. Anche perché insomma, i soldi non per forza ti spingono a scrivere male. E’ una storia piatta, inutile, che gira su sé stessa, un libro che è davvero pesante leggere e che onestamente non sembra neanche il seguito di “Chiamami col tuo nome”. Cioè se invece di chiamare i personaggi padre di Elio, Elio e Oliver, gli avesse dato altri nomi, non sarebbe cambiato assolutamente nulla.

 Non trovo motivo per consigliarvi questo libro che io stessa ho interrotto a metà.
 Serbate il ricordo del primo libro che è meglio.


LA SCUOLA DI PIZZE IN FACCIA di Zerocalcare ed. Bao Publishing:

 Recensire un libro di Zerocalcare lascia il tempo che trova (nel senso che non sarà certto la mia recensione a convincervi se comprarlo o meno), ma ci tengo comunque a scrivere due righe.

 Il libro è una sorta di miscellanea che mette insieme una serie di storie pubblicate qui e lì negli ultimi anni da Zero.

 Molte le avevo già lette, molte, soprattutto la parte finale dedicata al festival del cinema di Venezia no. Ed è in realtà su questa parte che mi vorrei concentrare.

 Come ho scritto in precedenti recensioni, a mio parere Zerocalcare non regge ancora le storie lunghe. 

Il punto è che in verità non ho proprio capito se lui lo è un narratore da storie lunghe. 

 C’è chi è più portato stilisticamente verso storie brevi e concise e chi, invece, senza l’arco narrativo di 200 pagine non riesce a esprimere ciò che vuole.

 Io rimango convinta che il suo forte siano le storie brevi, anche brevissime e questo libro me lo conferma.
 La parte dei “fumettosi riassunti” dei film visti a Venezia è qualcosa di fantastico, penso di non aver mai riso tanto leggendo un fumetto.

 E’ possibile sia così anche perché, al contrario degli altri argomenti che affronta solitamente, non deve continuamente spiegarsi o scusarsi e quindi la storia rimane quel che è, ossia, divertimento puro.

 Quindi per me è un sì e aspetto caldissimamente una nuova storia lunga, magari con meno patemi personali nel raccontarla.


giovedì 21 novembre 2019

The Crown e i sogni di gloria dei biblioteconomi

Sto vedendo la terza stagione di "The Crown" e, come ogni volta, alcuni sogni che covo dai tempi lontani in cui leggevo "Gente" con mia nonna appassionandomi alle vicende dei reali affiorano inesorabili.




lunedì 18 novembre 2019

"Come fu che divenni un'archivista", un fumetto di casualità, trattori, professoresse, rivalità e molto altro.

Ed ecco dopo molto lavoro (e l'intera serie di "Pose 2") il nuovo fumetto sul magico mondo degli archivi.

Tutto era partito su una mia vaga idea sulle "leggi di Murphy" in archivio, ma poi quella che doveva essere una paginetta di intro mi ha preso la mano ed ecco qui!

Non mi dilungo troppo! Bando alle ciance!
 "Come fu che divenni un'archivista" (piùomenopercasomanontantopercaso)!








lunedì 11 novembre 2019

Sempre pronti (al peggio). Una riflessione, a base di ricordi, su gruppo, adattamento e sacrificio dopo la lettura di "Sempre pronti" di Vera Brosgol.


 Mi capita di leggere spesso (e oserei dire incredibilmente) nelle biografie dei politici l’aver fatto lo scout come un titolo di merito. Non ne ho mai, onestamente compreso il motivo.

 Non c’è molto di cui vantarsi nell’aver fatto parte di un’organizzazione di origine paramilitare votata al volontariato e alla vita nei boschi, alla quale, di solito, vieni iscritto dai tuoi genitori per stare un po’ all’aria aperta, perché ci vanno tutti o perché comunque è una roba d’ispirazione cattolica (sì lo so esiste il CNGEI,ma non raccontiamocela è l’AGESCI che domina).

 Lo dico con cognizione di causa, ne ho fatto parte per 12 lunghi anni, anche appassionatamente, perché appunto, la parte del volontariato, dei boschi e anche del sentirsi parte di qualcosa è in effetti inebriante. 

 Tuttavia, se mi guardo indietro mi rendo conto che le cose brutte che mi ha lasciato sono assai più numerose e maggiormente marcate a fuoco di quelle belle.

 L’esperienza per quanto brevissima (un unico campo scout) di Vera Brosgol in “Sempre pronti”  ed. Bao Publishing rende bene l’idea di quel che voglio dire.

 Nel libro, l’autrice, figlia di immigrati russi negli USA, insiste mortalmente con la madre per essere spedita ad un campo estivo

Tutte le sue amiche ci vanno (a quanto sembra in America è praticamente LA cosa da fare in estate) e ne esistono di diversi tipi (in effetti anche Charlie Brown ci andava sempre).

 Lei, per ragioni economiche e di comunità, viene infine spedita ad un campo scout per figli di immigrati russi.

  E’ inutile che cerchiamo di trovarci un senso perché in Italia: 
1) Non esistono campi scout divisi per etnie/discendenze (OVVIAMENTE) 
2) Non puoi andare ad un campo scout se non hai frequentato da scout per tutto l’anno.

Il titolo originale è "be prepared". Considerando
che uno dei motti base dello scoutismo è, appunto,
"Estote parati", mi stupisce abbiano deciso di
cambiare il titolo in traduzione
 Il motivo è anche comprensibile leggendo il libro di Vera: non puoi essere preso e sbattuto a fare cose di cui non si comprende il senso, dove tutti già si conoscono e dove non viene fatto nessuno sforzo per l’integrazione.
 Tuttavia, questo è solo una parte del problema. 

 Quel che Vera vive durante il campo scout è quel che può accadere (non necessariamente accade, non tutti i gruppi sono uguali, ma quando accade avviene in modo prodigiosamente identico) a chiunque non sia particolarmente portato a unirsi ciecamente a un gruppo.

 Diciamo che molte cose accadono nei gruppi scout, ma, almeno nel mio, non era particolarmente incoraggiato il pensiero critico

 Tutto diveniva secondario rispetto all'appartenenza ad un gruppo e, per carità, dal punto di vista sociologico, nell’ottica anche di un eventuale film di fantascienza post-atomica, la cosa ha di certo un senso, ma quando ti ci trovi dentro (e soprattutto non sei in un film di fantascienza post-atomica) non lo ha.

 Ma mi spiego meglio.

 Vera arriva al campo scout. 
 Scopre cose ovvie come il fatto che dovrà dormire in tenda e usare una latrina e cose meno ovvie come “non è il gruppo che deve assorbire te, ma sei tu che devi farti assorbire dal gruppo”. 

 Sembra poco, ma è tutto. Infatti lo zero impegno profuso da chi si conosce già da una vita e frequenta il campo da anni nel farla sentire a suo agio, ha subito i suoi effetti negativi.

 E’ ovvio che una persona estroversa, carismatica e dal carattere socievole riuscirà a integrarsi immediatamente, ma è altrettanto vero che qualcuno un po’ più timido, introverso o con dal carattere particolare farà estremamente più fatica e rischierà la solitudine o l’emarginazione.

Certo, è quel che accade in tutti i gruppi, ma è quel che non dovrebbe accadere in un campo scout.

 La storia è poi costellata da “piccoli” episodi di bullismo: le ragazze più grandi che si approfittano della voglia di Vera di essere integrata impossessandosi dei suoi dolci, le mutande sporche di sangue di una delle ragazze più grandi messe sull’alzabandiera. 

 Cose che, intendiamoci, da un punto di vista darwinista ti preparano alla vita: nessuno sarà sempre gentile con te, meglio che ne prendi atto e ti fai un po’ di muscoli.
 I ragazzini sono cattivi perché gli adulti sono cattivi.

 “Il signore delle mosche” ci ha già vaccinati sull’illusione della naturale bontà scaturita dalla minore età.


 Tuttavia un episodio è significativo e, a mio parere, rappresenta ciò che ho sempre sempre sempre rimproverato e sempre sempre sempre rimprovererò alla mia esperienza scout: il voler minimizzare alcuni episodi di “bullismo” che, se pur possono nascere naturalmente all’interno di un gruppo di ragazzini costretti a stare sempre insieme per venti giorni, non possono in nessun modo essere minimizzati dai capi.

Il minimizzare, il far apparire chi si trova in mezzo come uno che non sa stare al gioco, è il vero problema.

 Accade che Vera e i suoi compagni partano per una gita nei boschi. Si fa sempre. 
 Passi una notte fuori, cucini senza stoviglie (la cucina trapper, molto divertente, incredibile che nessuno sia mai morto mangiando uova cucinate con un fil di ferro passato in mezzo), canti sotto le stelle.

 Tuttavia è anche il momento in cui i più deboli devono fare LA STESSA strada dei più forti portandosi dietro zaini abbastanza pesanti. 
Si ha un bel dire che si va “al passo del più lento”, a me non è mai successo. 
Io sono alta un metro e mezzo, non sono mai stata una silfide e dovevo seguire le falcate di ragazzi alti un metro e ottanta assai più prestanti di me. Per loro era una simpatica passeggiata, io volevo solo morire.

 Nel racconto, un ragazzo particolarmente preso di mira perde una scarpa nella fanga.

 Non riescono a recuperarla e così, sempre in modo molto darwinista, si decide di mettergli una specie di sacchetto intorno al piede e di proseguire. Dopo un po’, lo stesso ragazzo viene attaccato da alcune vespe e punto. Tutti iniziano a prenderlo in giro, compresa Vera che fino a quel momento lo ha compatito.

 Vera si unisce al coro ed è parte di loro. Rinuncia a solidarizzare per farsi accettare.

Non dubito sia una dinamica dei gruppi già abbondantemente studiata, quello che non accetto e non ho mai accettato è che venga presa sottogamba da chi dovrebbe invece vigilare, spiegare e far riflettere. 

 Qualcuno ha azzardato l’ipotesi che di certo la struttura gerarchica scoutistica in qualche modo agevoli tali episodi.

  Questo non so dirlo, ma posso dire di averne visti a iosa di questi episodi, di averne subiti a iosa e di provare ancora a distanza di anni un certo rancore verso chi non fece nulla.
 Episodi che peraltro, da persona più adulta e cambusiera, ho visto accadere e ugualmente prendere sottogamba (ma forse il fatto che i capi fossero quelli che si erano precedentemente accaniti su me e altri può essere una spiegazione della recidiva).

 Per quale motivo decisi di perseverare? Innanzitutto posso dire che, adesso, non ripeterei l’errore, ma posso capire perché all’epoca lo feci.

 E’ sempre descritto molto bene nel libro di Vera Brosgol: a fronte di tante cose molto spiacevoli, ci sono esperienze che è altrimenti difficile vivere. 

 Un grande contatto con la natura, un certo superamento dei propri limiti, dall’uso delle latrine al coraggio di andar per boschi da sole.

 C’è comunque un corollario di momenti preziosi che in qualche modo contribuiscono a renderti la persona che sei, e il gruppo, quando è benevolo, trasmette davvero una sensazione di collettività, di totale comunione con l’altro, difficile da riscontrare in altre situazioni nella vita. 

 Non a caso chi ha vissuto, al mio contrario, un’esperienza completamente positiva, anche da adulto difficilmente si distacca dall’esperienza scoutistica.

 Tuttavia mi sento di dire, come dice anche Vera, molto sinceramente alla fine del libro, quando ha trovato un’amica, ha visto un’alce, ha vissuto un’estate finalmente diversa e assai più costruttiva delle precedenti, che certe dinamiche non sono per tutti.

 Certo, aiuterebbe essere compresi e non minimizzati, aiuterebbe trovare un appoggio e non un “vabbeh dai passerà” oppure “non possiamo fermare tutto il gruppo SOLO perché tu non puoi camminare senza una scarpa”, aiuterebbe diciamo affrontare tutto come se la responsabilità del benessere fosse collettiva e non personale al fine di non turbare la collettività. 

 Un gruppo può anche non tornare indietro per una scarpa, ma ci si può dividere il peso dello zaino, ingegnarsi per rendere meno difficile il cammino a chi è in una condizione di debolezza.

 “Sempre pronti” è un libro molto molto molto onesto sullo scoutismo che consiglio di leggere sia a chi lo ha praticato sia a chi avrebbe voluto e non lo ha fatto o ha figli che vorrebbe iscrivere.

 Non fa terrorismo psicologico e non è L’ESPERIENZA UNIVERSALE, ma è un’esperienza comune a tanti.

 Io tuttora a distanza di anni non comprendo se ci ho più perso, (ho davvero dei ricordi pessimi che avrei potuto risparmiarmi) o più guadagnato (è pur vero che nella vita le brutte esperienze temprano e imparano a gestire conflitti e problematiche in momenti difficili).

 Probabilmente in generale racconta con estrema onestà uno degli innumerevoli episodi che possono rendere anche l’adolescenza più protetta assai difficoltosa.

 Non possiamo sempre schivare il pericolo e anche questo è un grande insegnamento.

martedì 5 novembre 2019

Piccola città, bastardo posto. Scrittori che hanno detestato le città dove hanno vissuto (ma che forse, senza di esse, non avrebbero scritto i loro capolavori).

 Se c'è un posto nella mia esistenza che non ho sopportato con tutte le mie forze, quello è stato Bergamo.

  Non me ne vogliano i bergamaschi, ma come cantava Guccini la ricordo "come un incubo oscuro, un periodo di buio gettato via".

 Quanto sono stata infelice in quella città è difficile spiegare anche se, anni dopo, a posteriori, posso ovviamente dire che la maggior parte delle colpe fossero ovviamente mie (sebbene continui a pensare che il luogo non ne sia completamente esente).

 Prima, non mi era mai successo di detestare una città.

 Ho sempre amato moltissimo il posto dove sono cresciuta e ho sempre trovato splendida la città dove avrei voluto vivere e sono riuscita a passare un solo bellissimo e fondamentale anno della mia vita, Roma.

 Non avevo mai preso in considerazione l'idea di vivere altrove, ma si sa, l'amore fa fare cose orribili.

 Perciò quando mi trasferii a Bergamo venivo da una città che adoravo e in cui mi trovavo benissimo, vicino a casa, che conoscevo da sempre, un posto che mi sembrava il centro di tutto.

 Trovarsi dall'altro capo d'Italia in una cittadina dai costumi diciamo diversi (non essendo una fervente cattolica o un'amante della montagna molte attività mi erano precluse), senza nessun amico, senza parenti e senza, ovviamente, lavoro, fu lo shock totale. 

 L'amore aiutava, ma l'amore non è che può tutto e, anche quando mi trasferii a Milano, le cose non andarono bene per altri due anni. Quattro anni che mi sono sembrati infiniti, in cui ho detestato ogni singolo ciottolo che ho calpestato.

 Eppure, senza quei quattro anni non avrei niente di quello che ho oggi: l'amore, il lavoro, il blog, i fumetti, i miei nuovi amici.

 Le città che amiamo hanno una grande influenza su di noi, ma assai più misteriosa è l'influenza delle città che odiamo.

 Se anche non fosse vero che l'odio è composto per tre quarti dal nostro amore (e non lo è), di certo è un sentimento potente in grado di accendere qualcosa di forte dentro di noi.
Quando riusciamo a dominarlo, a non lasciarci sconfiggere, possiamo farne grandi cose.

 Per dare man forte al mio delirio, ho ideato questo post sulle città detestate dagli scrittori (o sugli scrittori che detestarono alcune città).

 Di sicuro ci sono tanti altri esempi che saprete fornirmi e che io, ovviamente, attendo con ansia!


OVIDIO E TOMI:

 Uno dei capostipiti dell'odio per un luogo è indubbiamente Ovidio.

 Il ritratto che i professori fanno alle superiori di questo prolifico scrittore è ai limiti di "Chi" o "Novella 2000". Descritto come un raffinato viveur, dedito alla bella vita, alle poesie e alle feste, benvoluto dalle alte cariche e con una verve creativa irresistibile, a un certo punto viene spedito a languire e, infine, a morire, sul Mar Nero, nell'attuale Romania.

 Di colpo la capitale sgargiante gli viene proibita, proprio a lui, stella incontrastata del belmondo romano.

 Perché? Per come? L'ipotesi più accreditata, o che ti lasciano intendere al liceo, propro in nome del momento Novella 2000, è che avesse avuto una storia con la donna sbagliata: la figlia dell'imperatore Augusto.

 Di certo c'è che per sua stessa ammissione qualcosa combinò e quel qualcosa lo portò in un esilio talmente drammatico da spingerlo a scrivere un complesso di componimenti detto "Tristia".

 L'attacco riassume tutto il dramma di chi si consuma di nostalgia:

 "Senza di me - ma non sono geloso - andrai, piccolo libro, a Roma: ahimè, che non è permesso andarvi al tuo padrone. Va', ma disadorno, come si addice al libro di un esiliato. Infelice, metti l'abito che si conviene a questo mio tempo!"


LEOPARDI e QUALSIASI CITTA':

 L'emblema assoluto della persona che riuscì nella rara impresa di odiare praticamente tutte le città in cui mise piede fu Leopardi.

 E' la cosa che più mi rimase impressa alle superiori su quello che è in realtà uno dei più grandi poeti italiani della storia. Ma cosa vogliamo farci? Non faceva altro che lamentarsi!

 Recanati no perché era un posto sperduto nelle Marche, il padre tirannico, la gobba, l'infelicità. Possiamo capirlo del resto, in tanti ci siamo sentiti stretti nel posto dove siamo nati.

Tuttavia il resto della sua esistenza non può che suggerirci due possibili soluzioni: o si trattava di una persona particolarmente lamentosa e incontentabile, oppure, più empaticamente, le sofferenze interiori ti rendono insopportabile qualsiasi luogo.

 Questo perché.

 Roma no, perché se la immaginava in un modo dai libri e invece si rivelò un luogo squallido e corrotto.

 E Milano no perché era noiosa e c'era un pessimo clima.

 E Firenze no perché era fetidissima ed ebbe una serie di quegli sventurati affari amorosi con donne nobili, già sposate che proprio non lo volevano.

 Napoli non si capisce bene, forse trovò una certa pace perché era una città che più si confaceva al suo carattere o forse perché finalmente aveva finalmente un amico (qualcuno dice anche un amore): Antonio Ranieri. Certo è che alla fine ci morì.


GUCCINI e MODENA:

 Non è propriamente uno scrittore, anche se è ANCHE questo, ma Guccini è di certo colui che mi ha dato lo spunto per questo post.

 In autunno mi piace ascoltare alcune sue canzoni, come "La canzone dei dodici mesi" o "Eskimo", ma quest'anno mi è presa brutta anche con "Piccola città" che avevo sempre sottovalutato.

 Alcuni versi come "Piccola città che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele", mi spezzano il cuore per la nostalgia.

  Ed è strano, visto che per sua stessa ammissione Guccini dedicò questa canzone alla sua città natale: Modena, in un momento di particolare adorazione verso la città d'elezione del suo cuore, Bologna.

 Per lui Modena rappresentava un periodo oscuro del dopoguerra, quando miseria e mancanza di prospettive non riempivano proprio il cuore di un giovane di belle speranze.

 Eppure è difficile pensare che questa sia canzone cattiva verso una città, è un tale concentrato di ricordi d'infanzia, di quel periodo che, qualsiasi cosa faremo, ovunque andremo, chiunque conosceremo, rimarrà la nostra pietra d'angolo, da lasciare stupefatti.

 Più passano gli anni, malgrado faccia nuove cose, per quante persone conosca, rimango sconcertata dalla forza invincibile di quei primi vent'anni della mia vita, un monolite che niente riesce a scalfire nel bene e nel male.


SIMONE de BEAUVOIR e ROUEN:

 Quando piangevo il mio esilio bergamasco, una delle cose che mi davano una certa speranza nel futuro era il pensiero che anche Simone de Beauvoir aveva passato due odiosi anni in una cittadina di provincia dove l'unica cosa che le faceva passare il tempo era andar per montagne.

 Il posto in questione era Rouen, dove insegnava in una scuola femminile dove non succedeva mai niente se non qualche scandalo lesbico tra insegnanti e storie varie di esuli russe bianche.

 Rouen era quanto di più noioso potesse accadere a una delle più grandi scrittrici del novecento: il nulla cosmico, la noia, un lavoro che la appassionava solo a tratti e il pensiero continuo che la vita stesse scorrendo in tutta la sua potenza. Altrove.

 Fu però anche il posto dove Simone de Beauvoir conobbe un'alunna fondamentale per la sua esistenza di scrittrice, quell'Olga che le diede successivamente l'idea per "L'invitata", il suo fortunato romanzo d'esordio.


BIANCIARDI e MILANO:

Milan l'è un gran milan, ma è anche una città difficile, dura, che tanto dà, ma molto di più chiede. 

 Pochi posti in Italia possono vantare un tale ventaglio di possibilità per chi desidera lanciarsi verso più grandi orizzonti, ma pochi posti risucchiano in modo altrettanto voluttuoso energie e stipendi. 

 Bene lo sapeva Luciano Bianciardi che basò la sua opera narrativa sull'ossessione che questa città (e il lavoro che gli aveva dato) procurò a un'esistenza sempre in lotta.

 Voglio dirlo, pochi scrittori mi danno un senso d'immedesimazione, d'identità, come Bianciardi. 

 Nella sua totale insofferenza verso un mondo ipocrita, verso tanti salamecchi, verso i ricchi che si atteggiano a poveri e i poveri che venderebbero l'anima pur di essere (o peggio apparire) ricchi, mi rivedo in un modo quasi straniante.

  Probabilmente perché Milano ha su di me la stessa impressione: un luogo verso il quale sono andata (io più casualmente di lui) e che mi ha dato in un certo senso ciò a cui aspiravo, ma anche un posto dove chi è insofferente e "contro" trova un'esasperazione ai suoi pensieri tortuosi.

 Bianciardi lottò fino alla fine per non integrarsi in un mondo che disperatamente lo avrebbe accolto e divorato. Milano della quale non poteva fare a meno e che infine lo distrusse.


GOETHE e L'ITALIA:

Il grand tour nel sud dell'Europa era il must per giovani del nord e mitteleuropa dell'ottocento.

 Erano molto innamorati dei nostri cieli, di un buon clima che potesse guarire le infinite malattie polmonari che molti lutti addusse ai nordeuropei e di, incredibile ma vero, una certa libertà di costumi.

 Leggere adesso "Viaggio in Italia" di Goethe è un vero spasso.
 Nessun travel blogger può permettersi di essere così sincero, né, probabilmente vorrebbe (ho in canna da tempo un post sui rapporti tra blogger e servizio al potere che non ho cuore di pubblicare), ma Goethe, che non aveva problemi social e neanche di autobranding poteva pur scrivere quello che gli pareva.

 Scopriamo perciò che Venezia non gli piacque particolarmente, la considerò sporca e poco accogliente, che a Firenze si concentrò immotivatamente su monumenti minori e che visitò Bologna di una manciata di ore decretando fosse noiosa e per niente affascinante.

 Pieno di pregiudizi verso Roma che da buon protestante considerava il corrotto centro del cattolicesimo, scopre invece una città viva e piena d'interessi in cui si intrattiene piacevolmente prima di partire alla volta di Napoli, amatissima e dove secondo me c'è la frase top del libro.

 Un locale infatti gli dice che al nord: "sempre neve, case di legno, gran ignoranza e denaro assai".

 Il gran finale però non è all'altezza.
La Sicilia si rivela un luogo troppo difficoltoso però il nostro che si imbatte in una Messina rasa al suolo dal terremoto, in grandissime difficoltà di viaggio nell'entroterra e in generale Goethe è ormai folgorato dalla sympatia napoletana che non ravvisa nei siciliani (infatti a un certo punto prende armi e bagagli e torna prima a Napoli e poi a Roma).

 Un gran tour così sincero adesso sarebbe impossibile. Nessuno vuole finire male all'epoca dei social.


DOSTOEVSKIJ e SAN PIETROBURGO:

Strano forse a dirsi vista la preminenza dell'atmosfera cittadina nei suoi romanzi, ma Dostoevskij detestava la sua San Pietroburgo. 

 I motivi di tale odio possono essere stati molteplici: nato a Mosca vi venne spedito dal padre per frequentare un'accademia militare in vista di una carriera che non prese mai il via (e che non prese neanche mai in considerazione davvero).

 Era, San Pietroburgo una città che doveva forse apparire strana all'epoca, lui la descrive "astratta e premeditata", essendo stata costruita dallo zar con uno scopo preciso: quello di sembrare una città quanto più simile all'Europa.

 In perenni economie, cambiò venti casi scrivendo un capolavoro dietro l'altro, ci sarebbe comunque riuscito lontano da lì?


JOYCE  e ROMA:

Roma è una città con la quale i nordici, intesi come nord Europa, hanno sempre avuto un ambiguo rapporto.

  Keats ci andò tentando di non morire (e ci morì), gli Shelley ci persero una figlia (in generale l'Italia non portò fortuna alla loro prole) e Joyce, a quanto sembra, la odiò visceralmente.

 Mentre già si trovava a Trieste, rispose a un annuncio di lavoro di una banca che cercava in quel di Roma un corrispondente in grado di leggere e scrivere in varie lingue.

  Joyce rispose e fu assunto andando ad abitare vicino via Frattina. Tuttavia, come scrisse in numerose lettere al fratello, odiò Roma con tutte le sue forze.

 Sette mesi pessimi che gli bastarono a decidere di scappare, ma che vengono ritenuti dagli studiosi fondamentali nella genesi del suo capolavoro, l'Ulisse, confermando questo strano rapporto fruttuoso tra scrittori e città profondamente odiate.


domenica 3 novembre 2019

Piccole recensioni tra amici di Halloween parte II! Pupi Avati e un'occasione sprecata, YA scritti con faciloneria e un saggio molto prezioso.

 Ed ecco a voi, con tre giorni di ritardo, l'ultimo piccole recensioni tra amici a tema halloween (in realtà immagino che continuerò a leggere libri a tema per tutto novembre, ma diciamo che è l'ultimo ufficiale). 

 Sono stata in Friuli per la presentazione di "LESBOOM!" ed è stata unì'esperienza stancante, ma bellissima.

 Ringrazio ancora qui le libraie della Mondadori di Udine e gli amici che ci hanno dato ricetto!

 Vi lascio adesso con le recensioni

 (Ah, se mi volete votare ai Macchianera Awards come miglior sito letterario avete ancora ben due giorni, fino al 5 novembre, 
e pallinandomi alla mia sezione, la 20esima. 
Nel caso facesse quest'opera di bene, ricordate di pallinarne anche altre 8 perché altrimenti la scheda non è valida) 

Buona lettura!


OLTRE IL BOSCO di Melissa Albert ed Rizzoli:

 Ho letto questo romanzo su consiglio di alcuni lettori sull'evento fb di all hallow's read. 

Non lo conoscevo e non so perché la copertina mi suggeriva una sorta di storia leziosa di giardini (!). 

 Quando poi mi hanno assicurato che si trattava di una lettura di halloween ci ho provato ed è andata male
Uno dei motivi per i quali probabilmente è andata male è che nulla lasciava presagire fosse uno YA, genere che di tanto in tanto sforna qualcosa di decente anche per persone oltre i sedici anni, ma che, tendenzialmente è difficile che ci riesca.
 In questo caso, nonostante alcune buone idee, grandissimi ed evidenti omaggi a Neil Gaiman e alcuni momenti di scrittura se non altro originali, l'operazione "spacciamo uno YA per un libro per adulti" è fallita.

 La storia inizia bene: Alice Proserpine (nome parlantissimo) e sua madre Ella sono mysteriosamente sempre in fuga. 

 Non si sa perché, devono spostarsi continuo, altrimenti, a causa della nonna di Alice, una famosa scrittrice di fiabe truculente "I racconti dell'Oltremondo", accadrà loro qualcosa di terribile.

 Ad un certo punto la nonna muore e finalmente si fermano, Ella si sposa con un riccone e Alice inizia a frequentare un college per straricchi, perché una delle leggi degli YA ci dice che se nessuno dei personaggi frequenta una scuola per miliardari, allora non è uno YA.

 Alice conosce Ellery Finch, giovane rampollo di un miliardario blablabla, ragazzo di gran cuore blablabla, cerca di tenerlo a distanza blablabla. 
Cliché YA a piovere.
 Succede però che un giorno Ella venga rapita da qualcuno di mysterioso, probabilmente una delle persone da cui fuggono da sempre. 

 Alice deve allora partire alla ricerca di sua madre e si mette in testa che essa sia finita nella tenuta di sua nonna, luogo sperduto a nord di NY. 

 Parte con Ellery il quale è voglioso di avventure, ha una matrigna che odia ed è impaccato di soldi, cosa che risolve tutti i problemi sul cammino: motel, auto a noleggio, multe ecc. (perché sforzarsi di elaborare situazioni quando puoi risolvere tutto usando il personaggio-rampollo?).
 Ad un certo punto trovano la tenuta, ma poco prima i misteriosi inseguitori trovano loro e non finisce bene...

 La storia ha delle belle intuizioni filosofiche, tuttavia ci sono dei crateri narrativi, il più evidente dei quali è la soluzione del problema di Alice, una cosa ai limiti del ridicolo e dei corsi di self-help applicati alle fiabe.

 Anche il personaggio di Ella ha una soluzione al rapimento che dovrebbe essere considerata offensiva per un libro.
Insomma, passi il rampollo che risolve i problemi economici, ma davvero, bisogna un attimo sforzarsi con la trama, a costo di dover sacrificare i sofismi.

 Mi dicono che ci sarà un seguito. Non capisco perché.


IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati ed. Guanda:

 Mi è abbastanza incomprensibile il motivo che ha spinto Pupi Avati ad abbandonare il genere horror per le sue commedie, graziose, ma non memorabili. I suoi primi lavori, "Zeder" e "La casa dalle finestre che ridono" sono davvero dei piccoli capolavori.

 Non sono riuscita a vedere "Il signor diavolo" al cinema, ma ho recuperato il libro che è in effetti scritto in un modo curioso. 

 Non ha fortunatamente quel tipico difetto di molti libri che nascono in contemporanea o quasi ai filmi: è davvero un romanzo e non un soggetto. 

 Tuttavia ha una costruzione che effettivamente risulta avvitata su sé stessa e rende difficile e contorto il tempo del racconto che risulta privo di tensione. Un po' quando una frase non suona perché è costruita male.

 La storia inizia quando un ispettore del ministero viene inviato nel cattolicissimo nord a indagare su uno strano delitto: un ragazzino ha ucciso un ragazzo poco più grande perché convinto da una suora e da un sagrestano che fosse posseduto dal diavolo.

 L'ispettore, un raccomandato della DC che paga, a quanto sembra, carissima questa raccomandazione a livello lavorativo, viene eletto a candidato ideale per insabbiare tutta la faccenda in una regione strategica per i cattolici: la madre della vittima è infatti una potente matrona locale che, dal momento della morte del figlio, ha iniziato a far la guerra al partito causando gravi problemi.

 Il nostro parte e inizia a leggere gli interrogatori e gli atti  delle indagini scoprendo che quel che credeva impossibile, ossia l'esistenza del maligno, è altamente probabile.

 La storia è coerente e funziona, anche il background stesso del protagonista è forte, i piccoli particolari ferini e inquietanti, ma quello che proprio non funziona è questa idea malsana di far riassumere tutta l'indagine in una serie di carte che l'ispettore legge in treno. 
 Non so come sia il film, immagino a questo punto che proceda per lunghi flashback, ma su carta la questione è abbastanza verbosa e rende sbilanciato il racconto.

 Tuttavia mi è piaciuto, l'ho letto con una certa velocità e mi sento di consigliarlo.
 E' un buon libro dell'orrore, inquietante, ambiguo il giusto e proprio per questo spiace non ci sia stata l'ambizione giusta per farne un piccolo gioiello perché le carte in regola c'erano tutte.


LA SCIENZA, LA MORTE, GLI SPIRITI di Andrea De Luca ed. Marsilio:

 Alle superiori la mia, per carità bravissima, ma assai poco simpatica professoressa d'italiano, ci affidava da leggere, per le interrogazioni programmate, dei libri che il programma non ci dava il tempo di sviscerare (oltre, ovviamente,  al solito libro mensile). 

 Un anno avvenne che provò a dare "Malombra" di Fogazzaro ad almeno cinque persone (me compresa) che, a catena, si ammalarono tutte mandando a monte la suddetta interrogazione.
  Si decretò non che il ricambio dell'aria in aula non dovesse essere ottimale, ma che il libro portasse male.

 Era, in effetti, un indigeribile polpettone fatto di giovinette che l'isolamento rende pazze e convinte di essere la reincarnazione di lontane antenate, e soliti giovani di belle speranze che dovrebbero essere i salvatori della patria e di solito non riescono a combinare nulla.

 Il polpettone, oltre al malanno e alla noia, ebbe però un merito: ci rivelò che anche in Italia qualcuno tentava di scrivere racconti horror e sovrannaturali.

 Insomma, forse non avevamo Edgar Allan Poe tra noi, ma le propaggini del sovrannaturale ci avevano bene o male (più male che bene) lambito.

 Questo saggio Marsilio, davvero prezioso, svela lati sconosciuti di tanti autori che non avremmo mai creduto potessero intingere la loro penna per raccontare cose meno che importantissime e serie.

 Scopriamo il verista Capuana alle prese con una coppia di sposi che infestano la casa dove sono stati uccisi in "Delitto ideale" e con saggi e articoli sullo spiritismo, il cui influsso era arrivato in Italia tramite alcuni famosi medium inglesi.

 E la serissima Matilde Serao dietro pseudonimo raccontò la terrificante storia di una bellissima mano ingioiellata e imbalsamata ne "La mano tagliata". Sì, una mano e basta, senza corpo.

 Oppure eccola alle prese con una sorta di giallo della camera chiusa ne "Il delitto di via Chiatamone" in cui una fanciulla viene colpita da un proiettile su quello che sembra un tram dove viaggiano persone tra loro sconosciute e apparentemente normalissime: il giovane innamorato, il bigliettaio, una strana anziana.

Una miniera, scritta con autentica passione, che assicuro appassionerà tutti gli amanti del cielo dando innumerevoli spunti di lettura (e molti grattacapi ai bibliotecari che consulterete per rintracciare le perle).
 Stra-stra-straconsigliato.

 Se siete alla ricerca di altre suggestioni italiche segnalo anche le belle raccolte tematiche della Centoautori: "Vampiri", "Mostri" e "Fantasmi", tutte di autori classici italiani.

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