martedì 19 aprile 2016

Di cosa ha paura Zerocalcare? Una recensione perplessa di "Kobane Calling", alla ricerca del suo cuore mancante: quello crudele, in grado di attivare una porta magica e consegnarci una storia che risplende grazie alle sue ombre. Bisogna compiere un sacrificio per diventare grandi.

Come saprete se seguite anche la mia pagina di fb, lunedì scorso sono stata a uno dei quattro megaeventi organizzati in tutta Italia per il lancio della nuova graphic novel di Zerocalcare.  
Comprando il suo nuovo libro, "Kobane Calling", si riceveva anche una cartolina autografata a matita da egli in persona e, portando una maglietta bianca, c'era la possibilità di farla serigrafare da un collettivo fricchettone ingaggiato apposta per l'occasione (tra l'altro, bellissima).
 E' stata una faccenda faticosa, ma bella: quando mai, a memoria, possiamo ricordare un lancio di un fumetto in libreria con tale ardore? 
 Contenti tutti: chi ha venduto, chi ha comprato, chi c'è stato e spero, anche se vessato dalle masse in cerca di disegnetti, anche Zerocalcare in quel di Roma Appia.
 Passato il momento di fiesta e venuto quello della lettura.

Gli appassionati del fumettista sanno che circa un annetto fa, uscì una sorta di prequel suInternazionale

Zerocalcare, durante quel primo viaggio, era partito per qualche giorno per portare dei medicinali, e, dopo alcuni incontri con combattenti del posto, aveva riflettuto sull'ovvio scarto (ma per molti che aprono la bocca solo per dargli fiato, non tanto ovvio), in negativo o in positivo, che c'è tra un'immagine raccontata e riflessa dai media e la realtà.
 Il fumetto era breve e aveva lasciato la voglia di sapere altro a noi e quanto pare anche a lui che si è sobbarcato un secondo viaggio più lungo e articolato per cercare di raccontare la resistenza curda stretta tra governo turco, resistenza all'Isis e generale diffidenza/odio/annatevene dal resto delle varie etnie presenti sul territorio.
  Kobane Calling è il reportage a fumetti di questa seconda spedizione compiuta dal buon Zero con altre cinque persone (una brigata improbabile più o meno come l'armata brancaleone) alla volta della Rojava, la regione che i curdi hanno strappato all'Isis per instaurarvi una sorta di utopia islamico-socialista (sì la sto tagliando con l'accetta, se fosse un trattato di geopolitica non lo farei, ma non è quello il punto del fumetto).

 Voglio iniziare con ciò che mi è piaciuto.
 Di reportage a fumetti ne ho letti un po', Joe Sacco e Guy Delisle sono quelli che vanno per la maggiore e rappresentano un po' i due estremi del genere: il primo è una sorta di giornalista di guerra che intende documentare con dovizia di particolari, realismo e nozioni precise quanto avviene in uno scenario controverso, il secondo è il classico pesce fuor d'acqua che capita per caso in un posto, assiste in modo acritico alle contraddizioni e le apparenti follie e le riporta in modo leggermente ironico lasciando al lettore quel senso di stupore confuso in stile "Marco Polo con qualche pregiudizio in più".

 Zerocalcare non si innesta in nessuno dei due filoni, sceglie un modo un po' dimenticato di raccontare: quello militante.

 Penso che inorridirebbe nel sentirsi definire l'uomo comune che va alla guerra, ma più o meno siamo lì.
 E' il ragazzo militante europeo che parte col cuore in mano e si scontra con qualcosa che, dal vivo, è complicato da comprendere.
  Intendiamoci, non per ingenuità, ma perché per me vale sempre la vecchia regola: se non hai vissuto una cosa, puoi metterci tutta l'empatia che vuoi, ma non saprai mai davvero cosa si prova.
 Poiché viviamo da svariati anni in un'epoca in cui  l'artista  militante è demodé (la storia è sempre la stessa che ci raccontano gli avi: "Erano i terribili e funesti anni '60 e l'arte era in mano alla perfida intellighenzia di sinistra..") trovare una storia che non ci consegni un racconto limato e pensato in modo chirurgico, così da non dare adito a dubbi sulla buona fede di chi l'ha prodotto, è ormai impossibile. Niente opinioni, siamo italiani.
 Perciò uno dei motivi di maggior esultanza per il successo di Zerocalcare per me è sempre stato: finalmente qualcuno che, nel bene o nel male, prende posizione, fa onore al suo background e non sente il bisogno di sciacquare le proprie magliette fricchetto-punk nel fiume dell'imparzialità.
 Il più grande pregio di Kobane Calling, che non è tanto un reportage quanto il resoconto di un'esperienza , è il tono: appassionato, carico di cuore, di chi crede veramente in quello che sta facendo e raccontando.
  La visione che Zerocalcare ci propone non è imparziale, è parzialissima, ma va e ne così, anzi va benissimo. Abbiamo saggi, articoli di giornale, reportage veri sin nell'intenzione per farci una nostra idea.
 Quello che vogliamo davvero vedere è ciò che pensa una persona di cui ormai ci conosciamo le idee politiche e la sua idea sulla società. Una persona abbastanza coerente da prendere, partire e vedere realmente ciò che da Roma si riesce a immaginare in modo quasi mitico solo da un palazzo okkupato al testaccio (tra parentesi lo vedevo sempre quando arrivavo col treno a Ostiense e mi chiedevo come fosse fatto dentro).

 Che cosa non mi è piaciuto.
 Io non capisco di cosa ha paura Zerocalcare. O meglio, anche da "L'elenco telefonico degli accolli" si capisce benissimo: soffre di una sorta di sindrome da brava persona.
 Non è uno che ci tiene a piacere a tutti, ma sembra (dico sembra perché parlo di ciò che trasmette attraverso i libri poi può esse pure il peggiore degli stronzi) che ci tenga a ripetere in ogni modo: non voglio fare il superiore, non voglio passare per venduto, ma qualcosa devo fare per campare e comunque le cose sono sempre più complesse di quelle che sembrano, oh guardate che sono sempre un ragazzo di strada, oh la mia opinione è la mia opinione non dico che sia quella giusta, magari sono un povero deficiente ecc ecc ecc ecc ecc
 Tutte cose che in un mondo che sembra avere la verità in tasca, per carità, si apprezzano. 
 Tuttavia, costantemente ripetute in un fumetto, rischiano di renderlo quasi fastidioso
 Ogni tanto ti viene da dire: "Ok, Zero non preoccuparti lo so già che i turcomanni non sono tutti degli affaristi senza cuore, solo perché l'unico che hai incontrato lo era. Non penserò mai che sei come il nostro vermo politico che bercia idiozie dal piccolo schermo".

 La sensazione è che al momento gli manchi il coraggio di essere più crudele. Con sé stesso intendo.
 Tutti gli artisti hanno dei firewall, delle linee di confine che non riescono a superare. Non esiste scrittore che non abbia temi che non ama affrontare ed è normale che sia così. Tuttavia quando un artista scopre di avere dei limiti, dovrebbe chiedersi cosa gli impedisce di superarli.
 Quando questi non sono legati a remore morali, ma ad una sorta di timore personale casca l'asino.
 Creare è un processo che, senza tanta retorica, se fatto seriamente può essere molto doloroso: se scavo in quella direzione cos'è che trovo? Quanto dolore? Quanta amarezza? Quanto lato oscuro del mondo? E quanto del mio?

 Ne "La ragazza dello Sputnik", Sumire, la protagonista, aspirante scrittrice si perdeva su un'isola greca e tornava misteriosamente. Non era riuscita a scrivere niente di compiuto prima della scomparsa: scriveva scriveva scriveva, ma niente di compiuto usciva dalle sue mani.
 Sapeva da sola che il motivo andava ricercato da qualche parte. Prima pensava fosse perché non si era mai innamorata, ma quando, dopo una storia travolgente e strana, non riesce ad arrivare al cuore del problema, capisce di dover andare ancora più a fondo.
 La metafora che usa si rifà ad un'antica usanza cinese: attorno alle città, anticamente i cinesi costruivano delle enormi porte sulle quali incastonavano le ossa dei soldati defunti che, in tal modo, avrebbero protetto la città.
 Perché il rito fosse attivato dovevano però sgozzare dei cani e lasciare che il sangue attivasse il contatto tra le porte e gli spiriti dei morti.
  "Scrivere romanzi è un po' la stessa cosa. Puoi raccogliere tutte le ossa che vuoi, costruire la porta più splendida del mondo, ma ciò non basta a produrre un romanzo che sia vivo. Una storia, in un certo senso, non appartiene a questo mondo. Per creare una vera storia è necessario un battesimo magico, che riesca a mettere in contatto questo mondo con quell'altro."
 Alla fine Sumire torna dicendo che ha tagliato una gola e attivato le sue porte. 
 Non ha sgozzato ovviamente un povero cane, ma ha avuto il coraggio di fare quello che tutti i veri scrittori (e artisti in generale) dovrebbero fare per attivare la loro porta magica: sacrificare qualcosa di loro alle proprie opere.
 Il simbolo di "Kobane Calling" è un grande cuore pulsante.
 Sarebbe ora che Zerocalcare trovasse il coraggio di affondare il coltello nel cuore, il suo.

4 commenti:

  1. Il coltello, nel mio cuore, lo affondo sempre... Croce e delizia...

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  2. L'ho comprato ma devo ancora mettermi a leggerlo.
    Sono molto curiosa di vedere come tratta l'argomento!

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  3. Bella recensione, hai centrato il punto!

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  4. Wow... Fai davvero venire voglia di comprarlo.

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