domenica 21 febbraio 2021

Di troppa bontà ne moriremo. "Su un raggio di sole" di Tillie Walden, un'immaginazione in espansione come l'universo frenata da una bontà stucchevole

  Tillie Walden è una di quelle autrici che mi fa megapaura.

 Me la fa perché è giovanissima e ha già all'attivo una produzione, non solo di livello, ma anche particolarmente corposa.

 Le sue storie, molto lunghe e dilatate,  non saltano opportunamente in avanti al momento giusto, ma analizzano meticolosamente gesti, rapporti tra i personaggi e discorsi del quotidiano che aumentano il tempo della lettura dando l'oscura sensazione delle noiose tempistiche della quotidianità.

 Se in "Trottole", storia autobiografica in cui raccontava il suo passato da campioncina di pattinaggio sul ghiaccio e la scoperta della sua omosessualità, la cosa funzionava particolarmente bene, mi spiace dire che "In un raggio di sole" sembra invece procedere in modo meno fluido, soffermandosi su vicende meno importanti e lasciando in sospeso un triliardo di domande.

 La storia è ambientata in un universo colonizzato da esseri umani, intesi come umanoidi, non vediamo mai forme di vita aliene se non nelle forme di esseri antichi e spirituali che rimandano un po' alla mitologia giapponese. 

 In questo universo, del quale non viene spiegato praticamente nulla (e va anche bene perché prerogativa della fantascienza non devono per forza essere gli spiegoni), gli uomini non sembrano esistere. Non sappiamo perché, ma tutti i personaggi sono di genere femminile o si identificano in un genere non binario e non sembra essere un problema o la fonte di domande per nessuno. E' così.

 La trama racconta le vicende della giovane Mia, ex alunna di una sorta di collegio spaziale nel quale, durante il primo anno, aveva conosciuto la bella e misteriosa Grace.

In un alternarsi di falshback scopriamo che Grace è membro di una famiglia che possiede un misterioso pianeta chiamato la Scalinata, le cui risorse preziose l'hanno reso un bersaglio per gli altri pianeti.

 Proprio a causa di questo conflitto, Grace viene ritirata da scuola e torna nel suo inaccessibile pianeta, verso il quale, nella linea temporale presente, Mia è diretta.

 Per poterla raggiungere Mia si imbarca su una navicella spaziale specializzata in riparazioni di vestigia architettoniche in giro per il cosmo. Ogni componente dell'equipaggio ha un passato particolare e doloroso e ogni componente dell'equipaggio, nel tentativo di aiutare Mia, dovrà farci i conti.

 Il lato migliore della storia è indubbiamente la capacità della Walden di applicare una luminosa inventiva a temi molto classici. 

Tutto sembra già visto, dal collegio alla navicella spaziale protesa verso un pianeta misterioso, ma tutto è reso nuovo da alcuni dettagli interessanti: gli strani fantascientifici giochi delle ragazze nel collegio, la presenza unicamente femminile del cosmo, il lavoro di riparazione degli astri, il personaggio non binario di Elliot, le tavole dal tratto semplice e incredibilmente onirico, i particolari mai lasciati al caso, ma anzi continuamente arricchiti.

 Tuttavia c'è una sorta di quasi totale assenza di conflitto che rende la storia un po' piatta.

Avevo curiosamente notato lo stesso modo assertivo di affrontare l'esistenza nei personaggi di "Laura Dean continua a lasciarmi" di Mariko Tamaki e non è un caso se questo modo di disinnescare l'hate speech venga dai giovani queer (o magari è solo una coincidenza, ma boh non mi dava questa impressione). 

 La capacità quasi zen, al limite della santità, di subordinare l'esistente. Uno sgarbo viene compreso e assorbito con serenità quasi sovrannaturale, la lealtà è purissima, l'amore viene affrontato con lo stoicismo di un santo alla ricerca della propria redenzione e la rabbia, lo sconforto, anche la tristezza e il rancore non sembrano trovare un loro spazio. 

 Io capisco benissimo che i sentimenti negativi inquinano le umane genti e che il fine ultimo della nostra civiltà dovrebbe essere attutirli e persino eliminarli, ma ho come la sensazione che non sia possibile e che anzi, nei limiti ovviamente del rispetto altrui, abbiano un loro ruolo nella formazione della persona.

 Non trovo sensato che la protagonista non provi un minimo di rancore verso le bulle che l'hanno rinchiusa in palestra impedendole di salutare il suo amore (un rancore almeno iniziale intendo), e non trovo particolarmente potente l'incontro, nel quale SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER Mia sembra aver attraversato mezzo universo, messo a repentaglio la vita di un equipaggio intero, solo per dire: guarda ti volevo salutare, comunque gli anni in cui non ci sei stata me la sono vissuta bene però insomma volevo dirti ciao.

 Non è che tutti gli incontri devono avere la detonazione di un'esplosione nel cielo notturno, ma sembra un incontro tra due settantenni in un ospizio che si sono vissuti la vita loro e ricordano un filarino di gioventù con nostalgia.

 Non so, non mi convincevano i buoni sentimenti e non mi convincono i sentimenti quieti. 

 Forse è per questo che, dopo aver passato gran parte del libro in sordina, il personaggio che alla fine risulta più drammaticamente convincente è quello di Elliot. 

 Elliot è l'unico che si comporta in un modo umanamente empatico, imperfetto, anche egoista se vogliamo. Ha compiuto delle scelte estreme e di quelle scelte non riesce a pentirsene.

 Non ho visto tanto nel finale affrettato e un po' scontato o nei disegni qui e lì imprecisi (ma ci sta in una tale opera monumentale) il limite di questo volume che rimane comunque ricchissimo di immaginazione, l'estensione stessa del termine fantasia, pronto a espandersi come se potesse raccontare in eterno. 

 Il limite è voler dipingere un'umanità troppo buona. Anche io detesto l'insistere con troppo gusto sul lato oscuro, intendiamoci, come se i buoni fossero una schiera di fessi incolori e solo il male desse il gusto estremo della vita. Ma cedere alla rabbia, allo sconforto, al dolore, non è un tratto necessariamente negativo (nel rispetto dell'altro s'intende sempre), ma la nostra imperfetta essenza.

 E credetemi, anche io sogno spesso di essere uno di quei personaggi romanzeschi grondanti gioia, buoni sentimenti e vigorosa speranza, e mi detesto tutte le volte (tutti i giorni) in cui capisco di non esserlo o di non esserlo abbastanza.

 Le storie servono a superare l'imperfezione in un viaggio catartico, ma se ci vengono proposti solo santi, che cosa leggiamo a fare?

 Sarà interessante scoprire l'evoluzione di questo discorso nelle prossime opere di quella che promette di diventare una grandissima autrice.

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