mercoledì 25 novembre 2015

"Quella luce negli occhi" di Bennett Sims, una recensione a base di zombie, elaborazione del lutto, paura della morte, non-morti che vivono tra noi, uragani rivelatori e tentativi di non cedere alla paranoia.

 Dopo anni di dominio vampirico, adesso le grandi star della sezione horror sono gli zombie.
Ecco, non ho mai avuto un particolare interesse per questi non morti. A malapena, grazie a Zerocalcare che è fissato e li infila in ogni libro, so che esistono addirittura due teorie per la loro creazione: una vede i morti ritornare in vita, una che che vede viaggiare lo zombismo per contagio, come un virus.
 Immagino, ma vado a tentoni visto che non ne so molto, che la prima teoria sia frutto di paure antiche e la seconda di terrori moderni. I revenants medievali erano generalmente persone morte di morte violenta o a causa di qualche morbo, che tornavano pericolosamente dalla tomba per mietere vittime. E' il motivo per cui ogni tanto in qualche parte d'Europa si disseppellisce un cadavere mutilato, legato, con chiodi o mattoni in bocca, insomma, con qualche accorgimento speciale che impedisse al corpo, un corpo con ansie di vendetta, di tornare a vagare anche dopo la dipartita ufficiale dell'anima.
 Il contagio per virus appartiene (non fosse altro per la variabile che indica una medicina un po' più avanzata) all'ambito moderno: la malattia che diventa epidemia, il contagio che non ha antidoti (non parliamo dei vaccini va che qua sembrano tutti impazziti), il male che mutila il corpo non rendendoci più completamente vivi eppure neanche morti, che ci consuma da dentro.
 Entrambe le teorie raccontano bene un antico e comprensibile disagio umano: l'incomprensibilità della morte e l'incapacità di staccarsi emotivamente da chi non c'è più. 
 Gli zombie, revenants, non-morti, sono in realtà la forma allegorica e fantastica della nostra incapacità di accettare la fine della vita. Intendiamoci, come penso quasi tutti gli esseri umani la capisco benissimo, anche io mi domando che senso abbia tutto questo se ad un certo punto tutto deve finire, come si possa accettare che qualcuno che abbiamo profondamente amato e conosciuto possa sparire dalla terra. E' qualcosa a cui ci si rassegna, ma mai del tutto. 
 I libri sugli zombie però, nonostante queste possibili profonde riflessioni, mi ispirano di solito ben poco. La parte splatter sembra sempre dover essere preponderante (poi magari nei commenti mi potete suggerire libri che invece non lo sono) e io non amo molto il genere. 
 Però a lavoro era arrivato a Ottobre un libro che sembrava prendere la questione in modo diverso, si tratta di "Quella luce negli occhi" di Bennett Sims ed. Clichy.
 La storia non solo è semplice, ma non prevede neanche particolari scossoni, avventure, non ha neanche la disperata tragicità de "Io sono leggenda" di Matheson. Però nasconde ben due chiavi di lettura che lo rendono estremamente attuale e fonte di molte riflessioni.
 La storia vede una settimana della vita di Michael, un uomo che vive negli Stati Uniti del sud assieme alla sua compagna, Rachel. Il momento fotografato dal libro è di relativa calma durante la tempesta: le autorità hanno appena trovato il modo di arginare un'epidemia zombie che non si sa come sia nata né come finirà. Da una tranquilla vita in una cittadina deliziosa, Michael  si è ritrovato a vivere una vita di terrore. Barricato in casa per settimane mentre l'esercito si occupava prima di sterminare, poi di rinchiudere in centri di detenzione tutti i non morti, fa estrema fatica a riadattarsi ad una vita quasi normale quando la situazione sembra tornare sotto controllo. 
Sul libro di Matheson scrissi un
vecchio post.

Sì, al momento c'è ancora la possibilità di incontrare qualche zombie, ma la polizia ha precise regole d'ingaggio e lo stato si è preoccupato di emanare un corposo opuscolo dal titolo "Occhio al morso" in cui spiega ai cittadini cosa fare in caso di avvistamento, di sospetto (esistono anche i portatori sani del virus) e consiglia degli esercizi di defamiliarizzazione: un non morto non è più un nostro caro, perciò quando lo vedremo muoversi contro di noi per aggredirci non importa che ci sia stato madre, fratello o figlio, ora è un aggressore da uccidere.
Michael impiega il suo tempo dell'ultimo mese a combattere la paranoia per eventuali attacchi improvvisi, il terrore degli uragani che potrebbero spazzare via definitivamente i non morti liberi (o liberarli dai centri di quarantena causando l'apoteosi dell'epidemia e la fine dei vivi) e l'aiuto al suo amico Matt che cerca ostinatamente suo padre, morso tempo prima.
 La loro ricerca si basa su una peculiarità di queste creature: non si sa se i non-morti siano parzialmente vivi, (è il motivo per cui li stipano in quarantena invece di ucciderli), se siano morti o una nuova specie umana (come in Matheson), di certo si sa che essi tornano nei luoghi che sono stati cari alla loro memoria. Non hanno coscienza, ma a quanto pare vaghi ricordi o istinto del ricordo, sì.
 Ecco, il lato molto interessante della storia è che se se da una parte invita ad una profonda riflessione sul nostro rapporto col lutto, su ciò che lasciamo in sospeso con chi muore (e che chi muore lascia con noi), sull'incapacità di aver saputo dare un senso a rapporti troncati di netto dall'imperscrutabile,  dall'altro descrive molto bene le paure di questi giorni.
 Immagino che se avessi letto questo libro un mesetto fa non avrei notato questa chiave di lettura, eppure post Parigi, si avverte la potenza delle paranoie di Michael. 
 Michael vive un momento di fortissimo spaesamento dovuto alla fine del mondo che ha sempre conosciuto e alla sua incapacità di adattarsi al nuovo. la cosa più forte è che il libro non descrive un mondo distrutto, ma una cittadina in tensione e sospensione. 
 La fine della normalità è segnata, bisogna adattarsi alla presenza di nuovi individui, di un male che non credevamo potesse esistere e di cui non conosciamo la cura (i non morti sono vivi e hanno coscienza o sono cadaveri che agiscono sul puro istinto?). 
 Michael passa giorni chiuso in casa, alla fine dell'emergenza più grave, mentre la sua compagna è più fatalista, si fa coraggio e lo incita ad affrontare il problema. Ma lui è preda di pensieri catastrofici, diventa incapace di leggere, vorrebbe trovare una spiegazione filosofica al tutto, ma non si decide ad aprire Kant o Hegel che potrebbero forse dargli il conforto di un'interpretazione, ma non il sollievo della soluzione. Vive nel terrore del contagio, nell'ansia di una fuga dei non morti da qualche centro di detenzione, di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, cibo per zombie in fuga. E al contempo ne subisce un fascino perverso, il desiderio di voler diventare loro per capire cosa si nasconda dietro i loro occhi vitrei, dietro le loro pupille di latte.
 Vi ricorda qualcosa? La paura di queste giornate che sembrano in bilico su qualcosa di drammatico, in cui tutto procede normalmente, ma con uno strano retrogusto, (aò a me anche le pubblicità di Natale sembrano fantascientifiche adesso) come se stessimo tentando di distrarci. Anche per Michael e Rachel vivere normalmente è il loro modo di combattere qualcosa che non capiscono e di cui non sanno l'origine, su cui, tra l'altro, hanno anche opinioni radicalmente diverse.
 E anche noi come Rachel e Michael stiamo aspettando che un uragano rivelatore.
 Lo consiglio, con un'avvertenza: è un libro che procede ad una giusta lentezza, non immaginate momenti eroici e neanche particolarmente devastanti, il dramma è tutto in un attesa che sembra senza un vero senso, in pensieri che girano terribili su loro stessi.

Ps. Segnalo la particolarità stilistica dell'inserimento di numerose note a piè di pagina in cui vengono aggiunti pensieri e ricordi ulteriori del narratore. Devo dire che personalmente avrei preferito fossero inserite organicamente all'interno dei capitoli, anche se l'autore tenta di darne una giustificazione filosofica in linea con l'argomento zombesco.


2 commenti:

  1. non ho vissuto benissimo i vampiri, non credo di essere pronta all'avvento degli zoombie...

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