martedì 27 settembre 2016

Quando parli del dolore impara a raccontare il silenzio. "Il suono del mondo a memoria" di Giacomo Bevilacqua, un treno a vapore così vicino eppure così lontano.

"Io la sera mi addormento  
E qualche volta sogno 
Perché voglio sognare 
E nel sogno stringo i pugni
Tengo fermo il respiro
E sto ad ascoltare
E mi sogno i sognatori che aspettano la primavera
 
O qualche altra primavera da aspettare ancora 
Tra un bicchiere di miele e un caffè come si deve
Questo inverno passera'
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
Come i treni a vapore
Come i treni a vapore
Di stazione in stazione
E di porta in porta
E di pioggia in pioggia
E di dolore in dolore
Il dolore passerà "

 Se si potesse fare una recensione usando una canzone, per "Il suono del mondo a memoria" di Giacomo Bevilacqua si potrebbe usare "I treni a vapore", la bellissima canzone di Fossati. 

Fossati diciamo che visivamente lo preferisco da old
 Purtroppo non si può, non per regole da seguire, ma perché il libro si avvicina alla canzone, ma non se la merita.
 Giacomo Bevilacqua è l'autore di un fumetto che, nonostante il successo, lo dico apertamente trovo noioso e rivisto "A Panda Piace" (lapidatemi pure, ma non mi piace), perciò, lo ammetto, non mi aspettavo molto dalla sua graphic novel  e invece mi ha stupito.

 La storia è quella di Sam, un giovane  giornalista (o una delle sue varie declinazioni odierne) coool che assieme ad un suo amico è riuscito lì dove migliaia di hipster falliscono: ha fondato una sorta di magazine indie di successo sia online sia cartaceo. 

 Da buon imitatore di Vice, decide di lanciarsi in un esperimento sociale: rimarrà muto per tre mesi e non potrà comunicare con nessuno se non per iscritto sul pc col suo amico hipster.

Tutto questo deve avvenire necessariamente a New York, la città dove succedono le cose.

 A quel punto la storia ha un grazioso risvolto con un che di sovrannaturale. 
 Sam, infatti, scatta moltissime foto e, una volta sviluppate, si accorge che in moltissime appare sempre la stessa ragazza che, casualmente, continua a incrociare sul suo cammino.

 Di colpo, nel torpore che sembra affliggerlo, non capiamo bene perché, qualcosa desta il suo interesse e lo riporta brevemente a galla.

 Sam infatti non ha scelto casualmente di imitare Vice, c'è qualcosa di più profondo nel suo mutismo estremo ed è un dolore profondissimo a cui si sa dare un nome solo verso la fine quando si svelerà anche l'arcano della ragazza misteriosa. E' un fantasma? Una stalker? Un caso? Un parto della sua mente? Chi leggerà vedrà.

SPOILER
 Io direi in un modo un po' banale con l'immaginetta della lapide, ma vabbeh.
FINE SPOILER

 Dunque, ci sono molte cose che funzionano in questa storia e sono quelle che la rendono simile alla canzone di Fossati.
 In primis è una storia lenta che si concentra su temi spesso dimenticati o affrontati con estrema superficialità: il dolore e il tempo del dolore.

 Avevo parlato delle difficoltà della narrativa italiana contemporanea di parlare di uno dei TEMI della letteratura di ogni tempo ossia il dolore, nel post dedicato a Maurizio De Giovanni, uno dei rari scrittori che vi insiste ferocemente col suo dolente commissario Ricciardi.

 Molti sono i motivi per cui si evita: la difficoltà nell'affrontarlo, la paura, il pudore, la stupidità, lo spirito dei tempi che ci spinge a ignorarlo o a ridimensionarlo o a renderlo un fatto puramente privato che non deve essere mostrato, in nessuna forma, neanche artistica.
 Eppure è uno  DEI temi.
 Il dolore esiste e ha un suo tempo, un tempo che risucchia ogni cosa, ogni avvenimento, ogni colore, ogni suono. 

 Ed è questo il lato migliore della graphic novel di Bevilacqua: riesce a catturare il tempo del dolore. 

 Quello starsene storditi per ore velocissime a fissare l'unico oggetto, a vedere l'unico film, contemplare l'unico quadro, leggere l'unico libro che riesce a comunicarci qualcosa, anche se non sappiamo perché, e ci consola ed è l'unica cosa nell'universo con cui sentiamo di poter avere ancora un legame, nel nostro dolore infinito.
 Quel ritmo a cui non riusciamo a stare più dietro, il mondo caotico e rumoroso che di colpo ci ha espulso, lasciandoci ai margini ad attendere di risalire. 

 Ma risaliremo mai, se il nostro unico desiderio è abitare un luogo che non esiste, silenzioso, dove nessuno può parlare, nessuno può raggiungerci, nessuno può disturbarci? 
Quella è la grande incognita che rischia di imprigionarci per sempre, come un incantesimo malvagio.

 I tre mesi del silenzio di Sam non è solo il tempo, è anche il posto del dolore. 

 Un luogo che non esiste, dove non abbiamo legami o doveri e la nostra voce è l'unica cosa che riusciamo a sentire, è il posto in cui speriamo di non essere ritrovati, perché abbandonare il proprio dolore è difficile, è un tradimento verso il passato, è un futuro che non ce la sentiamo di affrontare.

 E proprio per la felice intuizione, a mio parere, Bevilacqua avrebbe dovuto fare come Fossati: essere il più essenziale possibile, il più preciso, il più tagliente e silenzioso possibile.

 Ci sono troppe parole, inutili, per un libro dedicato ad un dolore silenzioso eppure assordante.

 Innanzitutto c'è una sorta di inutile voce fuoricampo che parla in terza persona (Perché?? Essendo la storia così personale, intesa come "interna alla persona"?), un vezzo e un problema anche di tanti bei film italiani (primo esempio che mi viene in mente il bel "Dopo mezzanotte" rovinato in parte dal fuoricampo inutile di Silvio Orlando).
 Regola risaputa dello scrivere è domandarsi in continuazione: ma questo serve? Questa frase è necessaria? Posso sfrondare? 
 Certe volte la sostanza è più in quello che non si dice che in quello che ripetiamo per essere certi di essere capiti. Si capisce che una graphic novel sul silenzio e il dolore che può abitarlo perde un po' nell'eccesso di parole.

 Succede persino nel finale, nell'inutile berciare dell'amico dall'altra parte dell'oceano che uccide un momento di rara poesia, come se fossimo alla fine di un film Hollywoodiano.

 E qui veniamo al secondo problema della graphic novel: qualcuno dica ai giovani scrittori, graphic-novelatori, amanti dell'America, del sogno americano, di New York e della letteratura americana che NON è necessario ambientare in America (o inscenare improbabili legami come nel pessimo "Come quando eravamo piccoli") le proprie storie per essere presi sul serio.

 Anche perché la maggior parte delle volte New York e co. finiscono per assumere il ruolo di Parigi e Notting Hill nella letteratura rosa: non un posto reale, ma un posto ideale.

Intendiamoci, tavole bellissime
 Non dubito che Bevilacqua magari ci abbia passato del tempo o anche vissuto, ma qui ritorniamo al punto di prima: era necessario che la città fosse proprio New York? Aveva un legame pesante con la storia? La trama sarebbe stata radicalmente diversa se lo sfondo fosse stato Londra o Roma o Parigi o Toronto? 

 No.

 Poteva essere qualsiasi grande città occidentale perché era l'idea di sentirsi persi in un mondo orrendamente affollato, di essere soli anche se circondati da migliaia di persone che contava.
 New York rende la trama meno vera, gli appiccica qualcosa di posticcio che non merita e raschia via un bel po' di poesia.
 Bastava poco per avere una storia simile alla canzone di Fossati, a raccontare qualcosa di autentico, di condiviso, di essenzialmente vero.
 La via imboccata mi sembra buona, sicuramente più di A Panda Piace.

1 commento:

  1. come dicesti per la Alcott, bisognerebbe scrivere dei posti che si conoscono!

    Anche a me il Panda non fa impazzire, lo trovo carino ma inutile.

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