venerdì 8 settembre 2017

Piccole recensioni tra amici! Come sono andate le letture dell'estate? Tra Turchia, Stati Uniti, Islanda e Langhe, non tutte bene, ma qualche perla, (da segnalare ad Almodovar) c'è.

 Ordunque, con la fine della prossima settimana (quindi tra una decina di giorni) dovrei tornare attiva a pieno ritmo sul blog. 


 Per attiva intendo che finalmente potrò di nuovo concentrarmi su quei bei post ciccioni e pieni di proposte spero interessanti che però richiedono un tempo che per ora è completamente assorbito dal rush finale per il secondo tragico librazzo della seconda tragica giovane libraia.

 Approfitto di questi giorni per post più in stile piccole recensioni tra amici in cui recuperare un po' di recensioni perdute nei mesi scorsi, a partire dai libri letti durante le vacanze portoghesi (delle quali è in preparazione un poliposo fumetto che non vedo l'ora di postare).

 Ecco quindi dopo il libro di King una carrellata di recensioni dalle quali rimane fuori Camilla Lackberg la mysteriosa svedese della quale, finalmente, anche io quest'estate ho capito il segreto.


Bando alle ciance e facciamo parlare i libri! Let's go!



IL BALLO DEGLI AMANTI PERDUTI di Gianni Farinetti ed. Marsilio:

Vari lettori e colleghi mi avevano straconsigliato Farinetti, in parte, penso, perché ho scoperto che il protagonista è gay (motivo per cui suppongo, questa saga non verrà mai convertita in un telefilm), tuttavia temo (spero) di aver iniziato dal libro sbagliato.

 Un libro che verso pagina 80, dopo un'infinita, infinita, noiosa, noiosa, carrellata di simpatici personaggi macchiettistici della provincia piemontese, ho deciso di chiudere e neanche la permanenza in Portogallo, lontana da altri libri, mi ha convinto a riaprire.

 Io capisco che sicuramente i tomi precedenti prima mi avrebbero reso apprezzabili le gag coi muratori rumeni e le loro mogli e tutti i simpatici caratteristi di buon cuore del placido paesello delle Langhe dove Sebastiano Guarienti, sceneggiatore romano in fuga dalla città ha trovato il suo ben retiro.

 Tuttavia è davvero noiosissima come entrata, soprattutto per un giallo. Non è possibile non intravedere una vaga tensione per sterminate pagine e e non si può e non si deve impostare un libro solo per i fan della serie che della serie sanno vita morte e miracoli. O almeno, questo è quello che penso io.

 Di solito mi capita quasi sempre di cominciare saghe o serie di gialli da un punto imprecisato, in parte per caso, in parte perché io detesto leggere in ordine (non riesco a leggere in ordine neanche le raccolte di racconti) e, certo, quando comincio a collezionarne un po', inizio a unire i puntini e squarci di luce si aprono laddove prima c'era solo tenebra.

 In realtà però è una cosa che apprezzo perché mi dà la stessa sensazione di quando conosco qualcuno: non so niente di lui, lo becco in un momento imprecisato della sua vita e devo ricostruirne il passato pian piano.

 Ci sono poi le serie, come questa, che peccano di "Ma tanto mi stai leggendo già dai tre libri precedenti e posso perdermi in facezie". No.


GLI ASSASSINI DEL PROFETA di Mehmet Murat Somer ed. Bompiani:

 Strano, stranissimo giallo che, in verità, a stento definirei un giallo.

Praticamente è come se Almodovar avesse deciso di scrivere una crime story ambientandola in Turchia  e, anzi, secondo me, se Almodovar conoscesse questo libro lo opzionerebbe seduta stante per un film, e non solo perché la protagonista è una donna transgender.

 La storia è quella di un'innominata (nel senso che non rivela mai il suo nome) programmatrice informatica con propaggini hacker che, al contempo, possiede e gestisce un famoso locale notturno lgbt (oddio, sulla presenza della L non ci metterei la mano sul fuoco).

 La trama prende le mosse dalla morte di una serie di ragazze transgender del suo giro, alcune dedite alla prostituzione, altre no, che curiosamente sono accomunate tutte dall'avere i nomi dei sacri profeti.

 Balena quindi alla mente dell'innominata informatica, assai simile, pare ad Audrey Hepburn, la possibilità che ci sia in giro un serial killer, così,  con l'aiuto di una sua amica, famosa drag queen, di un suo amico d'infanzia poliziotto e di una serie di assurdi personaggi (tra i quali un hacker paraplegico, omosessuale represso, fanatico religioso, sì avete letto bene) inizia a indagare.

 Dunque, la trama gialla non è un granché, nel senso, è davvero poca cosa, non c'è intreccio.
 Ma in realtà la trama gialla è solo una scusa per una storia ambientata in un mondo che onestamente non credevo potesse esistere in Turchia (e non voglio pensare come se la passa con Erdogan al momento) e che, lo riconosco, il pianeta doveva conoscere. 

Perché è davvero troppo favolosoh!

 Nell'overdose di gialli che attanaglia l'editoria, spesso si finisce per scegliere la storia col protagonista strano, ambientata chissà dove e con trame contortissime (che raramente finiscono poi per mantenere quel che hanno promesso).

 In base a quel che vi ho scritto, rischiate di pensare che anche questo segua la regola e invece no. E' una storia divertente e spigliata che non sembra studiata a tavolino per vendere, anzi.
 Dà l'idea che lo scrittore si sia divertito molto a scriverla, incurante di tutto ciò che non fosse il suo autentico divertimento, privandola di quella furbizia che molte volte rovina opere potenzialmente assai migliori

 Bella la scrittura, piena di ritmo, mai artificiosa, fatta per divertire.
 Spero che qualcuno ne mandi una copia ad Almodovar. Magari ricomincerebbe a fare quei film folli, ma pieni di vita dei primi tempi e mollerebbe i melodrammi con la Cruz protagonista.


 LA DONNA CHE SCRIVEVA RACCONTI di Lucia Berlin, Bollati Boringhieri:

Minimalismo. Memoir. Vita complicata. Stati Uniti e parecchio Messico.

 Non ho capito bene cosa dovesse stravolgermi di questi racconti. Non nego che Lucia Berlin sia bravissima a scrivere, ma non capisco bene perché dovrebbe interessarmi quello che scrive.
 Non fa che descrivere, tranne brevi momenti, la sua vita costellata da matrimoni falliti, alcolismo, figli, famiglia che non la comprende e lavoro.

 Visto che la Berlin, nonostante il fallimento perpetuo, è ben lungi da essere "Stoner", mi sfugge cosa avrei dovuto vederci dietro questo memoir.

 Mi ha arricchito? No. Mi ha raccontato qualcosa in più? No. Mi ha fatto vivere un'emozione? No. Mi sono rivista in lei? No. Non riesco a trovare un motivo.

 Non basta saper scrivere, bisognerebbe anche saper dire qualcosa oltre sé stessi, ne aveva anche le capacità peraltro.

 Tuttavia temo che questa mia recensione sia tipo ustione per gli occhi per tutti  coloro che idolatrano il minimalismo americano alla Carver. 

 E infatti ammetto che questo sta diventando uno scoglio non sormontabile.

  Detesto queste storie brevi e molto, troppo personali, troppo "questa vita è così piccola, ma allo stesso tempo così grande".

 Le detesto soprattutto perché ambientate in un paese che ritengo incredibilmente egoista e che non riesce a ispirarmi compassione o empatia.

 Ho un problema con l'America temo. Leggo i racconti e li trovo tutti, troppo spesso, dei lunghi resoconti di qualcuno che è solo molto viziato.

 Forse non a caso l'unico racconto di questa raccolta che mi sia davvero piaciuto non ha l'alter ego della Berlin come protagonista, ma una giovanissima immigrata clandestina sudamericana che si trova perduta in un'America troppo crudele.

 Quello che vedono gli altri, non è quello che vive lei, e poichè nessuno sa sfondare né è interessato a sfondare il muro, finisce in tragedia. Una tragedia non inevitabile, come forse lo sono gran parte delle tragedie di questo mondo, se la smettessimo di farci solo gli affari nostri.

Ps. Devo dire che l'accostamento ad Alice Munro mi avrebbe dovuto mettere in guardia.


LA SIGNORA IN VERDE di Arnaldur Indridason ed. Tea:

Non conoscevo Indriasson e, dopo averlo conosciuto, credo di non aver voglia di vivere in Islanda.

 "La signora in verde" parte dalla stessa idea di base di uno dei primi libri di Montalbano, "Il cane di terracotta": un vecchio delitto del passato torna alla luce sotto forma di uno scheletro trovato in un cantiere.

  Chi era quello scheletro decine di anni prima? E perché si trova lì? C'entra forse una misteriosa signora in verde che si aggira, di tanto in tanto, vicino ai capannoni?

 Mi piacciono molto le storie che si sviluppano su due piani temporali e raccontano delle lunghe vite che finiscono per annodarsi in un modo che, infine, risulta fatale.
 Le preferisco di gran lunga alle storie che mostrano il male che ha come sola causa il male stesso (cosa che non dubito esista, semplicemente mi inquieta troppo leggere).

 Potendo scegliere, preferisco qualcosa che posso decifrare a qualcosa che può solo terrorizzarmi.

 "La signora in verde" si legge benissimo, d'un sorso, come si suol dire.

 L'unica pecca è la vita del commissario che non augurerei neanche al mio peggior nemico: ex moglie che a distanza di 20 ancora lo odia ferocemente, figlia drogata incinta male, figlio che lo ignora e una serie di rapporti umani di contorno che forse dovrebbero rendere il tutto molto hard boiled, ma finiscono solo per essere un eccessivo ammasso di sfiga.

 Ah, devo dire che non ho trovato molto credibile il senso degli archeologi islandesi per le indagini, ma vabbeh, un espediente per prendere tempo dovevano pur trovarlo.
 Leggerò gli altri comunque, gran bel giallo.

Voi ne avete letto qualcuno? Cosa ne pensate? Mi maledite perché in realtà Farinetti è un genio e non riesco a comprendere il genio della Berlin?

2 commenti:

  1. Non sei l'unica ad avere un problema con l'America, anche se più precisamente io ce l'ho con gli Stati Uniti. Per qualche motivo ho sempre faticato a leggere i grandi classici statunitensi, così come fatico a leggere storie molto legate a quelle terre. L'unica città che sopporto è New York, ma solo nell'800.
    Per quanto riguarda l'america latina ho un debole, ma lì è questione di genetica xD

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    1. In realtà i sudamericani riesco a leggerli, ma non tutti. Tipo la Pineiro mi piace molto, ma la maggior parte di quelli a cui provo ad approcciarmi li trovo davvero verbosi. Gli statunitensi mi piacciono quando non imitano Carver, non si gloriano di essere una grande nazione, non frignano nelle loro cupe stanze di drammi socio-esistenziali che in Europa causerebbero moti rivoluzionari (o non hanno nessun vero problema se non quello nella loro testa), quando non pensano di essere tutti Stoner e quindi infilano qualcosa di più significativo di loro stessi nelle trame, quando non scrivono un libro praticamente a tavolino per essere venduto. Alla conta finale rimangono pochi, ma qualcuno c'è.

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