Circa un annetto fa, io e Dolcemetà ci trovavamo su un bus in mezzo a Milano.
Era il solito normale bus che procedeva, a slalom e lento, di fermata in fermata ogni 200 metri.
C'erano un paio di posti liberi, cosa in un paese come l'Italia in cui c'è un giovane ogni dieci anziani, abbastanza incredibile per quell'ora del pomeriggio. Dolcemetà si siede, ma io tentenno.
L'altro posto libero era davanti a un tizio che non mi piaceva.
Non aveva chissà che faccia o chissà che particolare mise, ma boh, c'era qualcosa in lui che mi inquietava e volevo solo stargli lontano, così decido di non sedermi e mi avvinghio a uno dei corrimano.
Dolcemetà mi dà della pazza, ma abbozza.
Il bus continua a procedere, finché un auto di colpo si piazza in mezzo alla strada e ne scendono due tizi.
I due tizi corrono verso l'autobus e battono alla porta facendo segno al conducente di fermarsi.
Siccome siamo nel periodo di attentati Isis, il panico inizia silenziosamente a serpeggiare, anche se sarebbe stata un'innovativa forma di dirottamento.
Il conducente, apre.
I due tizi salgono e si dirigono correndo verso il tizio che proprio non mi piaceva.
Uno lo ferma e uno lo ammanetta, l'altro lo agguanta, poi, prendono, scendono, lo infilano in macchina e corrono via.
Milano regala anche questi momenti poliziotteschi |
Il tutto si svolge in meno di un minuto.
Io, Dolcemetà, il conducente e gli altri passeggeri rimaniamo discretamente sconvolti per circa due minuti, cercando di razionalizzare una scena che sembrava sbucata direttamente da un'altra dimensione.
Non ho mai saputo, ovviamente, chi fosse il tizio ammanettato e cosa abbia spinto due, suppongo, carabinieri o poliziotti in borghese a tale spettacolare manovra, ma porto questo assurdo momento di vita quale testimonianza del mio sesto senso di ragno: il tizio a pelle non mi piaceva e, chiunque fosse, a quanto pare, avevo le mie ragioni.
Nella mia vita poche cose mi sono chiare, ma una è certa: se una persona di primo acchito mi sta antipatica, non ci sarà praticamente mai verso che io possa cambiare opinione. E' matematico.
Non solo, tendenzialmente la persona a me antipatica, rivela poi un qualche tratto per cui la mia antipatia trova delle successive motivazioni (ovviamente non sono tutti delinquenti da ammanettare, magari scopro solo che abbiamo idee politiche radicalmente diverse o simili), quindi il mio sesto senso, rarissimamente sbaglia.
E sbaglia raramente anche nei libri.
Se un personaggio mi sta antipatico, nulla potrà condurmi ad amarlo, neanche dovesse salvare il pianeta da una catastrofe, anzi, solitamente scopro anche qui di aver avuto le mie ragioni.
Se un personaggio mi sta antipatico, nulla potrà condurmi ad amarlo, neanche dovesse salvare il pianeta da una catastrofe, anzi, solitamente scopro anche qui di aver avuto le mie ragioni.
Tale antipatia può raggiungere picchi tali da indurmi ad odiare un libro o a smettere di leggerlo.
Per esempio, ho interrotto a metà "Straniero in terra straniera" di Heinlein perché il santone co-protagonista lo recluderei e non riesco a leggere la Nemirovsky o qualsiasi altro libro che abbia dei ricchi frignanti per protagonisti perché a me dei ricchi frignanti non me ne frega nulla e li ceffonerei a due a due (sono un po' drastica, lo so).
Questo non vuol dire che ami i personaggi privi di mezzi, ma che abbia nei confronti dei personaggi le stesse antipatie che provo per le persone in carne ed ossa che commettono gli stessi errori e si comportano in un certo modo.
Dove voglio arrivare? A "La mia estate d'amore" di Helen Cross ed. Fandango.
Anni fa vidi il film che ne fu tratto (senza sapere che esistesse il libro), "My summer of love", e mi piacque abbastanza.
In realtà, come ho scoperto, il film migliorava fortemente la protagonista della storia dandole delle solide motivazioni per il suo insano comportamento e attenuando la follia dei suoi gesti da psicopatica.
La storia è quella di Mona, una ragazzina della profonda provincia inglese (un posto che film e libri dipingono come una sorta di concentrato delle peggiori periferie italiane dove tutti non fanno altro che bere e, se sono negli anni '80, combattere per i minatori), rimasta da poco orfana di madre.
Ella vive con suo padre che gestisce un pub, la sua compagna e il figlio diciottenne di lei, un ragazzetto obeso.
La sua sorella maggiore, dopo un'adolescenza ribelle, si è appena sposata con un supercristiano praticante e ha iniziato a sfornare bambini.
Mona passa le sue indolenti giornate estive a bere a qualsiasi ora del giorno e della notte, a flirtare senza una reale consapevolezza con uomini più vecchi che vanno al pub, a rubacchiare in negozi e case e a giocare alle slot machine.
Voi direte, ce n'era abbastanza per mollare il libro. Invece no, io ho continuato perché ricordavo lo splendido film. Stolta.
A un certo punto, appare Tamsin, una ragazzina di buona famiglia con la tipica buona famiglia che se ne frega di lei: la madre è un'attrice nevrastenica, il padre un riccone disinteressato alla prole, la sorella maggiore, pare, defunta per anoressia.
Tra le due scoppia una sorta di amore.
Cioè sappiamo che Mona è innamorata, ma Tamsin è una psicopatica manipolatrice che Angelina Jolie in "Ragazze interrotte" te dico levete.
Le due danno vita a una sorta di malefico due davvero malefico, infinitamente più malefico del film.
Incolpano alla polizia un tizio per l'omicidio di una ragazza avvenuto qualche mese prima, staccano a morsi l'orecchio alla presunta amante del padre di Tamsin e altre cose varie ed eventuali.
Intorno i genitori nicchiano.
Ecco, io già alle prime tre righe avevo capito che Mona mi stava antipatica, come mi sono sempre e dico sempre state antipatiche le persone che in provincia non fanno altro che frignare sul loro triste destino, ma guai a fare qualcosa per sfuggirgli, è sempre tutto troppa fatica.
Molto meglio perdere tempo a caxxeggiare e a dare la colpa a qualcun altro.
Ogni tanto, a tratti, mi veniva da giustificarla.
Eh, ma è abbandonata, è ma il padre non fa che mettersi in casa nuove donne, eh ma la madre è morta, invece il finale non lascia che la cruda certezza che una fatale combinazione di menefreghismo degli adulti, una certa malevola attitudine personale e noia possa dare esiti devastanti.
E mi stavo, devo dire, amaramente pentendo di aver letto un libro così tetro e viscido direi, prima di leggere, oggi, l'articolo con le interviste ai genitori dei ragazzi che in un quartiere di Napoli, a Piscinola, hanno ucciso una guardia giurata per rubargli la pistola.
Un mix di menefreghismo dei genitori, fancaxxismo, noia, cattive amicizie che sommate diventano malvagie, praticamente identico a quello del libro, relazioni amorose a parte.
Così mi sono resa conto che non era per niente un brutto libro, era solo un libro che aveva per protagonista qualcuno che forse, se avessi incontrato su un bus, non avrei mai voluto vicino, anche se, all'apparenza, sembrava una persona tanto perbene.
Io odio i personaggi di cent'anni di solitudine 😆
RispondiEliminaMa tutti o solo alcuni dei millanta Aureliano che ci sono in quel libro? Sarei curioso di sapere se qualcuno ha fatto il conto di quanti sono quelli che si chiamano Aureliano.
EliminaIo feci il conto di tutti, ma per necessità... Già alla seconda generazione ho cominciato a costruire l'albero genealogico, da metà libro in poi sarei stata persa senza. Non so che fine abbia fatto il foglietto però, probabilmente l'avrò lasciato dentro la copia del libro che avevo preso in biblioteca, ad uso dei lettori futuri.
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RispondiEliminaOra capisco perché sto facendo così fatica a leggere la saga de "L'amica geniale"! È che la protagonista, Elena Greco, mi sta di un antipatico....
RispondiEliminaPoi per carità, alcuni personaggi vengono proprio costruiti per essere antipatici, ma altri incarnano proprio persone che se conoscessimo davvero, cambieremmo strada
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