mercoledì 30 maggio 2018

Né ribelli né eccezionali. L'adolescenza delle femmine che la narrativa non sa raccontare. Una recensione di "Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano".

 E' il primo giorno di scuola delle superiori.

 Io ho i capelli tagliati come Fantaghirò grazie a un parrucchiere dove mia madre amava portarmi contro ogni buonsenso, i pantaloni della tuta (adidas, me l'ero meritata come premio spasmodicamente richiesto per l'esame di terza media) e sopra, con orrore, una camicia (che da quel giorno in poi non avrei mai più messo, mai più, non le sopporto).
Ad una festa scout, assieme alla mia squadriglia, ci vestimmo da Spice Girl.
Io ovviamente ero Sporty Spice.

 Il professore di ginnastica ci sta mostrando i campetti da calcio, in puro asfalto, nel cortile della scuola.

 Guardo le mie compagne, quasi tutte femmine, e mi soffermo su Tara Teresini (nome cambiato opportunatamente) che ha, ai piedi, dei sandali col tacco. 

E' lo shock. 

Un tale shock che ancora me lo ricordo.

 Di colpo mi rendo conto che attorno a me ci sono ragazzine in tuta e aria rincoglionita, mie simili, e altre che hanno ben altro sguardo, quello di chi non è più alle medie, ma davvero alle superiori.

 Durante la ricreazione, la suddetta Tara, svela a un pubblico entusiasta che pochi giorni prima è stata agli MTV music awards a Milano con la sorella maggiore.
 Lo shock aumenta visto che a stento io riesco a convincere i miei a farmi andare ai pernottamenti degli scout.

 Nei giorni successivi rimango in classe a mangiare pizzette assieme alle mie simili che ancora sono con la mente alla terza media, in primis la mia compagna di banco, Antea, che fino alla fine delle superiori combatterà la sua battaglia contro il girovita (niente anoressia, proprio ciccia che non voleva sapere di andarsene).

 Fuori, quattordicenni e diciannovenni si mescolano nel cortile della scuola, fumando sotto gli alberi, prendendo appuntamenti, sparlando dei professori e immaginando di infilargli lo zucchero nel radiatore (che, immagino, la metà di noi non sapesse neanche cosa fosse).

 Il mio cervello rimugina e rimugina, lo shock è stato intenso, ma salutare e di colpo vedo tutto con occhi nuovi e tiro fuori allora quella che ritengo forse il mio maggiore e unico pregio: se ti buttano in acqua alta e non sai nuotare, DEVI nuotare per forza.

 Come diceva Yoda: fare o non fare, non c'è provare.

 Così, qualche settimana dopo mi presento al gruppo di teatro della scuola, dove tutti mi sembrano bravissimi e fighissimi, pronti alla serata dell'oscar. Ma questa, è un'altra storia.

 La narrazione dell'adolescenza è sempre molto maschiocentrica.

 Le avventure le vivono solo i maschi, le pulsioni erotiche le vivono solo i maschi, il senso di solidarietà o d'amicizia lo vivono solo i maschi.

 Quando a viverle sono delle ragazze, a meno che non si stia parlando specificatamente di libri per un pubblico di adolescenti (che sono un altro mondo), c'è sempre qualcosa di oscuro o di patologico o di eccezionale.

 Le pulsioni erotiche non sono mai circostanziate e fuggevoli, ma devono riguardare la persona più importante della propria vita (nel bene, stile "grande amore forever", e nel male, stile "causa di tutti i miei mali forever"). L'idea che uno possa piacere così, random, pare sconveniente.

 Le amicizie sono sempre importantissime o devastantissime, i genitori o danno una libertà sconvolgente (e di solito deleteria) oppure sono gigaoppressivi.

 E anche queste ragazze protagoniste sono comunque un unicum, speciali, che hanno le forze di rompere qualche catena oscura che le blocca.

 Di certo è anacronistico descrivere una ragazzetta del medioevo (anche se la Pitzorno, per dire, c'è riuscita e in modo molto convincente ne "La bambina col falcone") con una determinata carrellata di emozioni, quando la cosa principale che l'aspettava erano figli a tredici anni o convento.

 Tuttavia mi pare altrettanto anacronistico rendere in modo polarizzato ed estremo le sensazioni e le vite di ragazzine contemporanee.

 Insomma, esistono, ma sono una piccola fetta le adolescenti eccezionali, per il resto, orde di ragazzine normali sciamano per le strade, come in realtà già ci sciamavano negli anni '80 da che abbia memoria.

 Aver quindi scelto di parlare di un frammento che nessuno sembra interessato a raccontare agli over 16, ossia il mondo delle ragazze oltre lo stereotipo, è, secondo me, il maggior pregio del fumetto di Eleonora Antonioni e Francesca Ruggiero: "Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano" ed. Eris.

 Nelle tre storie si raccontano tre episodi di altrettanti ragazzine di (si suppone) III media/I liceo.

 Quel magmatico momento che non deve essere per forza traumatico o rivelatore di chissà quali epifanie per il futuro, ma porta comunque tasselli importanti per le persone che ci avvieremo a diventare.

 Il primo episodio, quello di Giulia, racconta l'amicizia improvvisa e dettata in verità dal capriccio, di una ragazzina che vorrebbe uscire dal guscio ormai troppo stretto dell'infanzia prolungata e le sue compagne di classe più carine e spigliate.

 E' una tipica dinamica da scuole medie che di solito esplode nel primo anno di liceo: qualcuna, rimasta indietro per motivi vari scopre di colpo che il mondo là fuori è vasto e qualcuno è già un pezzo avanti.

 Tocca recuperare! E anche di corsa! 

 E allora via vestiti che in realtà già non piacciono da un pezzo, evviva la nuova musica che appare bellissima anche se anni dopo ti rendi conto che era una porcheria, evviva le nuove amicizie, anche se alla fine non sono quelle della vita e fanno male, evviva scoprire che i ragazzi (o le ragazze) iniziano a piacerti e non solo come amici.

 Si fanno passi buoni e passi falsi, ma almeno hai cominciato a camminare e a sbaciucchiare anche qualcuno (se ti va).

 Il secondo episodio è forse quello che mi è piaciuto di più perché si svolge in una manciata di giorni che, a parte altre rare occasioni nella vita, hanno una particolare intensità solo quando sei un teen e il tempo sembra riuscire, misteriosamente, a dilatarsi all'infinito.

Anna è una ragazzina che ha principalmente amici maschi, ama le tute e le felpe (ma essendo la storia ambientata negli anni '90 era forse il principale vestiario di tutte noi) e un giorno conosce Marilena

 Nell'arco di tre giorni Anna vive, assieme a lei, una serie di piccole e grandi trasgressioni: accompagna Marilena a farsi un piercing (sulle note di "Crazy" degli Aerosmith, a ripensarci il modo in cui trovavo gnocca Liv Tyler non era proprio solo ammirazione), marinano la scuola, spiano le ragazze del primo racconto che spiano i ragazzi e si baciano, romanticamente, in una vasca.

 Al terzo giorno Marilena svela la sua faccia reale, quella di una ragazzina ambigua e manipolatrice (che, oscuramente, tenta di attirare l'attenzione di una famiglia assente).
 Anna, che invece è all'apice dell'emozione per quella nuova straordinaria relazione e che forse, forse, si sta innamorando di lei, rimane con un pugno di mosche in mano e il cuore spezzato.

 La terza storia ha per protagonista una ragazzina molto sportiva e un po' introversa, Clarice, ed è forse quella che mi è piaciuta meno perché rappresenta in modo troppo schematico il conflitto tra le aspirazioni dei figli e la mania dei genitori di mettere bocca a oltranza sulle loro vite, anche in modo deleterio.

 Certo, quando cresci, ti rendi conto che davvero i tuoi spesso avevano ragione e avresti capito solo da grande, ma altre volte avevano genuinamente torto.

 E forse avrei gradito maggiormente questo tipo di ambiguità perché nella storia è davvero troppo evidente che la madre della terza ragazzina sia da defenestrare (metaforicamente).

 Ma è l'unica pecca di questa bella graphic che rende finalmente giustizia alle ragazzine che siamo state, non sante, non peccatrici, non attaccate spasmodicamente al grande amore della vita e neanche irrimediabilmente ferite nel profondo.

 Eravamo ragazzine normali che amavano le Spice, i Backstreet Boys, litigavamo coi genitori, sognavamo di andare alle superiori come se chissà quale segreto ci sarebbe stato rivelato, le amicizie si susseguivano velocissime ed erano intense come amori, e gli amori nascevano e morivano in poche settimane, com'è giusto che debba essere a tredici, quattordici, quindici e passa anni.

 Rivendichiamo la nostra adolescenza, ci meritiamo di riviverla, nei libri, spaventosa e bellissima (lo so, non tutta, ho alcuni pessimi e odiosi ricordi anche io, che se tornassi indietro ceffonerei almeno una decina di persone), com'è stata e non il solito luogo di un immaginario finto che non appartiene a nessuno di cui traboccano troppi libri.

7 commenti:

  1. Ma l'orribile titolo a cosa fa riferimento?

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    1. A me piacciono i titoli lunghi un po' alla Lina Wertmuller! Fa riferimento a una frase di una delle ragazzine che cita sua mamma, la quale la ignora bellamente mentre lei passa alla preadolescenza. In realtà è abbastanza calzante perché non credo che molti genitori capiscano bene quando scatta quel qualcosa di misterioso nella mente dei figli che ti fa fare il passaggio da bambina a qualcosa di altro e imprecisato. Loro stanno lì che pensano siano i capricci di una bambina e invece ci stanno per spalancare le porte dell'inferno dell'adolescenza.

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    2. "Orribile" proprio per il suo contenuto, non per la sua lunghezza.
      Questa cosa di non dar retta alle bambine che urlano mi sconvolge.

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  2. L'adolescenza raccontata bene è così rara! Grazie del consiglio

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  3. E' bello ricordare come ci sia stato quel mare strano, a volte placido fino all'insopportabile, a volte tempestoso, dell'adolescenza anni 90. Dove si ripetevano giornate tutte uguali eppure c'erano eventi straordinari ad ogni scattare dell'orologio. Dove tutto era serissimo e importantissimo, ma anche chissenefrega. Dove i pianti o le incazzature più terribili erano poi soppiantati dopo poco da qualcos'altro, senza che per forza si dovesse essere o superficiali o dentro un dramma-verità da copertina di giornale.
    E comunque, nonostante tu sia più giovane di me, ho avuto un tuffo al cuore, perché... Primo giorno di superiori: capelli alla Fantaghirò, tagliati dalla parrucchiera della mamma e la terribile camicia. La mia era bianca con su applicati a mo' di decorazione, tanti bottoni colorati. "Spiritosa" la chiamava mia mamma.
    Meno di un anno dopo, forse per reazione mi avviavo a diventare una ragazzina alternativa, metallara e un po' goth.

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    1. Con quale coraggio ci mettevano la camicia sopra la tuta??? E i cerchietti?? E appena un anno prima mi ero liberata dalle calze sotto la tuta, un incubo.
      A pensarci ora mi mancano gli anni '90, magari eravamo ragazzine e i pensieri c'erano comunque e non ce ne rendevamo conto, ma in confronto al terribile adesso, sembra un'epoca felice.

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    2. Ragazzina che si è presentata al primo giorno di superiori col cerchietto, presente! :D
      Quel che è peggio, avevo la coda di cavallo tiratissima, ma avevo comunque voluto mettere il cerchietto perché sì. Ed era uno di quei cerchietti imbottiti e colorati residuato degli anni '80... °_° Avevo pure cercato di riprodurre il ciuffo elegante che il parrucchiere mi aveva fatto solo 4 giorni prima per un matrimonio di famiglia, ottenendo invece un ridicolo "leccotto" riccioluto asimmetrico. Ero davvero inguardabile! XD
      Però almeno mi erano state risparmiate tute e camicie (mi sa avevo un pullover leggero sui jeans, con giubbino sempre in jeans).

      Ah, comunque io il cerchietto lo porto ancora, eh. Solo che ora è un archetto di pochi millimetri di spessore dello stesso colore dei miei capelli: tiene in ordine il caspo (ora semi-corto, libero e indisciplinato) ed è super discreto ;)

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