Capita a tutti di pensare, più o meno spesso, man mano che l'età adulta avanza, che, in qualche modo, essere sopravvissuti alla nostra infanzia prima e alla nostra adolescenza poi, abbia avuto del miracoloso.
In quanti e tali modi più o meno stupidi o più o meno gravi avremmo potuto perire, ci rendiamo conto con orrore non appena un bambino, figlio, nipote, figlio di amici, perfetto sconosciuto, ci capita (e ci sfugge correndo verso qualsiasi cosa possa procuragli ferite o peggio) per le mani.
Cadendo da un'altalena, correndo troppo veloce, arrampicandoci su un albero, sbagliando un sentiero durante una gita, dopo aver mangiato troppo, per un'amicizia sbagliata, per aver deciso di andare in macchina con una certa amica una certa sera, per aver fatto una stupidaggine in gita scolastica, per essere caduto dalle scale, per aver ingoiato troppo in fretta qualcosa, per aver infilato le famose dita nella presa della corrente, per una qualsiasi malattia esantematica (prima dell'obbligo vaccinale), per tutto.
Non che da adulti il rischio si contenga, se possibile, probabilmente aumenta.
Ma quello che s'impara con dolore e fatica durante l'adolescenza per la prima volta è la possibilità che un evento inevitabilmente dannoso o mortale avvenga.
Prima, a scanso di tragiche vite, viviamo una sorta di moratoria del pericolo.
Non lo percepiamo eppur, la stragrande maggioranza di noi, inconsultamente sopravvive.
A distanza di anni, se questo è avvenuto, potremmo però valutare che i casi possano essere tre:
1) Il mondo non è un posto così pericoloso come finisce per apparirci quando, verso i quarant'anni arranchiamo molto disillusi e costantemente in pena per il futuro.
2) Siamo più propensi alla sopravvivenza di quel che pensiamo.
3) Un mix di entrambe le cose.
Tuttavia credo sia doveroso ammettere che una certa casualità nel modo in cui impariamo a sopravvivere sia dolorosamente inevitabile.
Possiamo fare di tutto per proteggerci e possiamo far molto, possono fare molto i nostri genitori, ma non usciremo mai indenni dalle nostre adolescenze. Incontreremo sempre qualcuno che ci ferirà pesantemente, persone che ci prenderanno di mira, avremo periodi difficili a scuola, insegnanti che non ci comprenderanno, genitori che ci opprimeranno, personaggi che ci renderanno bersaglio o ci molesteranno. Accadrà, con sfumature più o meno gravi, ma accadrà.
Sì, qualcuno può essere stato più fortunato e aver prolungato questo suo grado di spensierate fortune adolescenziali oltre la soglia massima, ma arriva sempre un momento in cui anche chi non ha mai perduto, improvvisamente, perde e cade.
Ho letto nei mesi scorsi una straordinaria graphic novel che riassume un po' questo confuso pensare: si tratta di "Trottole" di Tillie Walden, vincitrice del premio Eisner.
L'autrice ha 22 anni. 22. Ed è una di quelle persone baciate dalla grazia.
Prima dell'inoltrarsi nel periglioso percorso dell'età adulta, ci sono una manciata di anni in cui viviamo una sorta di strano momento di chiaroveggenza: tutto è perfettamente trasparente.
Riusciamo a vedere il nostro presente con una chiarezza sconcertante. Tutto ci appare ovvio e al contempo risolvibile. Non esiste il concetto di "E' così e le cose non possono essere cambiate". Noi, ci diciamo, saremo le persone che porteranno una cambiamento nel mondo, come una luce spettacolare che divorerà tutto.
Tillie Walden ha preso questo stato di grazia e invece di applicarlo al presente, lo ha rivolto verso il suo recentissimo passato di campioncina di pattinaggio sul ghiaccio.
La Walden dice sinceramente nel finale che la sua intenzione iniziale era quella di raccontare il delirio dietro al mondo del pattinaggio artistico, fatto di madri pazze che invece di farsi una vita caricano le figlie di aspettative di rivalsa sociale, di cattiverie, di allenamenti in enormi centri commerciali nel bel mezzo del Texas e di tutto ciò che finisce per rendere uno sport scintillante, un incubo competitivo.
Quel che invece, con stupore autentico, la Walden scopre di essere riuscita a fare è parlare della sua preadolescenza e adolescenza con una precisione e una consapevolezza incredibile, ancora non offuscata dal revisionismo storico dell'età adulta.
La vita di Tillie Walden è normalissima. Le accadono una serie di cose che potrebbero accadere a tutti: pratica uno sport a livello agonistico, verso i dieci anni si trasferisce in un nuovo posto con tutte le conseguenze del caso (nuovi amici, nuova scuola, nuovo tutto), durante l'adolescenza scopre che capire che razza di persona noi siamo davvero non è poi così facile.
Al contrario di molti che preferiscono beatamente rimandare il problema ignorandolo a oltranza fino a un'età tarda che genera solo rimpianti per non averci pensato prima, Tillie si incaponisce su questo punto: chi sono io?
E questa domanda si lega indissolubilmente al pattinaggio o, almeno, lei è convinta per anni che sia così.
E' una campioncina e vince, ma non è ABBASTANZA brava per essere LA campionessa, perciò si domanda: perché non riesco a smettere?
La risposta è semplice ed è la stessa per chiunque non riesca ad abbandonare qualcosa che lo ha definito per un'intera esistenza: se abbandono il centro dei miei pensieri, interessi e sforzi, cosa rimarrà infine di me?
Attorno a questo arrovellarsi imperioso non si affastellano sorrisi da film preconfezionati o da libri adolescenziali rassicuranti. Non appaiono insegnanti che ti risolvono la vita o amici che ti salvano, accade invece quel che accade nella vita: cose belle e cose brutte.
A entrambe sopravviviamo.
Tuttavia, se le cose belle ci danno quella spinta per dire che tutto ciò che ci perseguita prima o poi avrà una fine, le cose brutte insegnano che possiamo sopravvivere a molte più cose di quel che pensiamo.
Non è una frase consolatoria, anzi, è la constatazione dell'età adulta: sopravviviamo perché siamo più forti di un mondo che comunque sa essere molto cattivo.
Così Tillie scopre che le piacciono le ragazze, scopre che la sua famiglia non è molto d'accordo, scopre che non tutte le persone che crediamo amiche lo sono sul serio, di solito sono solo conoscenti che non vogliono avere davvero a che fare coi nostri problemi.
Scopre che accadono incidenti stradali dall'esito fortunatissimo e ripetizioni scolastiche all'apparenza innocue che finiscono in molestie di cui nessuno saprà mai niente (almeno finché non scriverai una meravigliosa graphic novel).
Scopre che come cantavano gli Allegri Ragazzi Morti "Ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa o che sia vera".
Eravamo così giovani, pensiamo davanti alla graphic novel di Tillie Waldem, così incoscienti, così confusi, così fiduciosi.
Poi siamo sopravvissuti alla nostra adolescenza e abbiamo iniziato a chiederci come abbiamo fatto.
Mi ha incuriosito tanto, credo che lo comprerò!
RispondiEliminaL'adolescenza è il periodo degli assolutismi. In certi momenti sentivo di poter far tutto, un attimo dopo crollava il castello di carte e finivo nella disperazione totale. E' il momento in cui assaggi alcune sfaccettature della vita da adulto, perché non vieni più tenuto all'oscuro delle difficoltà della vita.
L'adolescenza è, per certi versi, assimilabile a una patologia psichiatrica, nel senso che in molti adolescenti la dissociazione fisiologica dell'età raggiunge livelli che, se avessero 40 anni, sarebbero da ricovero. È un periodo affascinante e Difficilissimo che molti attraversano senza consapevolezza. Qualcuno invece riesce ad avere un occhio dentro e uno fuori, e mantiene un filo con il sé stesso infante e il sé stesso adulto. Questa graphic novel mi interessa perché questo argomento mi ha sempre presa molto, grazie per avercelo segnalato :)
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