domenica 3 maggio 2015

Il Nulla che si propaga come una malattia, la perdita di senso e il disperato tentativo di trovarlo, ad ogni costo. Una recensione di "Dio odia il Giappone" di Douglas Coupland.

 Qualche anno fa Sofia Coppola, che, lo confesso, è una regista che mi piace un sacco sacchissimo, vinse il Leone d'Oro con un film che non piacque a molti. Si trattava di "Somewhere". 
Il protagonista di "Somewhere"
Lo ignorai per un po', poi vittima di un qui pro quo con una mia amica (molto semplice: credevo le piacesse mentre le faceva schifo).
 Lo comprai fiduciosa dopo averlo trovato ad una bancarella, ma essa rifiutò il regalo e io lo accantonai in un polveroso angolo. 
 Poco dopo mi trasferii in una cittadina nordica chiusa e bigotta che definire cittadina è anche un complimento.
 Aveva piuttosto le dimensioni e la popolazione di una cittadina combinati con un'estenuante mentalità da paese di 200 abitanti isolato dal mondo su una comunità montana (senza offesa per le comunità montane). Tale era l'ingerenza della locale diocesi che in tutto il centro era quasi impossibile trovare un pub, non parliamo dei locali. Gli abitanti, che di giorno si davano molto da fare lavorativamente a testa bassa, non condividevano che qualcuno potesse farlo dopo le otto di sera. Ragion per cui alle dieci i poveri gestori di pub si ritrovavano con una volante della polizia fuori dalla porta a prescindere dal casino (assai poco) fatto dai loro clienti.
 Il concetto era: che cazzarola devi uscire a fare.
 Inutile dire che in quel periodo mi depressi non poco. Sola, in un posto dove l'accoglienza degli autoctoni era inesistente, cercai in ogni modo di trovare qualche contesto in cui inserirmi, un gruppo di conoscenze, un'associazione, qualsiasi cosa.
 Fallii su tutta la linea e io, che ero sempre stata una persona molto attiva, precipitai in una sorta di limbo in cui mi convinsi che impegnarmi fosse diventato ormai inutile. I miei sforzi precipitavano nel vuoto con una tale ostinazione che smisi di credere che un giorno avrebbero di nuovo avuto un qualche effetto. Mi stupii persino della facilità con cui, fino a poco prima, riuscissi a trovare appassionanti cose che, a posteriori, sembravano sciocche. Persi gran parte delle mie energie e mi ritrovai a far parte di quel gruppo di persone che per lungo tempo avevo compatito: coloro che non si appassionano a nulla e si trascinano insensatamente. In quel periodo vidi molti film e recuperai anche "Somewhere", in cui mi ritrovai moltissimo.
 Riassumo la trama per chi non l'ha visto nè lo vedrà mai: un attore famosissimo vive solo in un albergo, ha amici che non sono veri amici, amori che non sono veri amori e si annoia da morire. Vorrebbe uscire dal senso di noia che ha la sua vita,  ma tutto è ormai insapore.
 Poi, la sua ex moglie lo chiama annunciandogli che deovrà lasciargli per un po' la figlia preadolescente che hanno in comune. Lui oppone una vaga resistenza, ma poi prende con sé la ragazzina e si rivela un buon padre a tempo pieno: la figlia gli riempie le giornate, con lei si diverte e vede il lato luminoso e sensato di un mondo che prima era solo grigio e opaco. Una nuotata in piscina diventa un gioco, una surreale serata ai Telegatti in Italia è doppiamente spassosa e persino una semplice colazione sembra migliore. Poi la ragazzina torna dalla madre e lui ripiomba nel vuoto: Perché tutto quello che fa risulta inutile? Dov'è finita la passione per la vita? La capacità di coglierne il gusto nascosto?
 Mi ricordo che quel film fu una delle pochissime cose che mi fecero sentire compresa, ma dopotutto il senso di vuoto è una cosa tanto difficile da spiegare quanto complicata da descrivere. E' difficile far empatizzare qualcuno con un sentimento che è fondamentalmente composto da una grande solitudine.
 Ed è ciò che attanaglia il protagonista di "Dio odia il Giappone" di Douglas Coupland ed. Isbn. L'avevo preso perché volevo leggere qualcosa ambientato in Giappone e trovavo invitante che nel libro ci fossero molte illustrazioni tanto pop quanto estremamente inquietanti nella loro poppaggine. 
In effetti la storia ha un protagonista giapponese nonostante l'autore americano e attraversa il malessere di una generazione che a fine anni '90 inizio 2000 prese in pieno la bolla economica e la conseguente grossa crisi del Giappone. Hiro ha 17 anni quando nella sua scuola accade una cosa strana: tre compagne di classe conoscono dei missionari mormoni e si convertono. 
 Una addirittura rimane incinta di uno di loro e si sposa trasferendosi in Canada facendo grande sensazione in tutto l'istituto e lasciando perplesso un Hiro che fatica a capire come nella vita si possa prendere una decisione tanto netta. Per lui, adolescente un po' complessato, senza ottimi voti e senza particolari interessi, la vita si presenta come una sorta di deserto emozionale che non sa bene come affrontare.
 Una volta terminato il rassicurante periodo delle superiori che in un qualche modo ti organizza il tempo e le aspirazioni, con l'università iniziano i dolori. Si ritrova a vivere col suo migliore amico in una palazzina disabitata in città, studia una materia scelta a caso e non ha successo con le ragazze.
 Inizia perciò una sorta di fallimentare percorso a ostacoli nel disperato tentativo di incappare nell'illuminazione che gli cambierà la vita: si veste supergriffato attirando finalmente le donne, ma a lavoro risulta un fallimento, si innamora della sorella del suo migliore amico (studente promettente che finisce per fare il barista), ma lei lo ridicolizza. I suoi genitori lo considerano un idiota e sua sorella, un vero modello di virtù consumistica nipponica, si sfoga acquistano solo oggetti Burberry.
  Hiro è fondamentalmente immerso in un crogiolo di destini che non trovano un senso compiuto, ma ciò che lo rende diverso dagli altri è il suo disperato desiderio di trovarlo.
 Dal giorno in cui la sua compagna di classe prese la straordinaria decisione di convertirsi e trasferirsi in Canada con uno straniero, Hiro è convinto che si possa influire potentemente sul corso delle proprie vite, crede che un qualche ardore possa rivestirle di significato.
 Peccato che il mondo non lo aiuti in nessun modo a trovarlo.
 Io generalmente odio i libri su persone che buttano la propria vita in una lamentazione continua, attribuendo le proprie disgrazie ad una serie di sfortunati eventi, alla famiglia, agli amori finiti male o chissà che altro (assai probabilmente perché detesto anche le persone così).
  Ma Hiro non è uno di loro.
 Lui vorrebbe disperatamente essere tra gli altri, quelli che viaggiano non tanto sulla carreggiata giusta, ma almeno su una qualche carreggiata, ma tutto e tutti lo rimbalzano. La cosa ammirevole è che lui si lascia rimbalzare, ma riprova e riprova, instancabile, anche se sa che si farà male, tanto che sublima questo suo malessere in un modo tanto folle quanto simbolico: si lancia contro le vetrine (sì avete letto bene).
 Passano gli anni e qualcosa succede in un Giappone con sempre meno lucidità, sempre più preda del consumismo e dall'arrivismo, popolato da individui che sfogano il loro desiderio di senso in modi completamente psicotici. La mancanza di desideri può diventare una malattia composta da solitudine, noia, voglia di rivalsa e perdita di razionalità, una sorta di composto chimico-emotivo che può avere esiti letteralmente letali.
 "Dio odia il Giappone" non è un romanzo nè d'amore nè da fine del mondo, come dice il sottitolo.
  E' un romanzo che indaga un vuoto senza giudicarlo, perché la perdita di senso è esattamente come il nulla che avvolge Fantasia ne "La storia infinita", può propagarsi ovunque, senza rimedio, come una malattia e nessuno ne è immune. 
Basta smettere di guardare il mondo per un attimo e il mondo smetterà di guardare te.

2 commenti:

  1. Adoro recensioni del genere, con gli spiegoni sui perché di come si è arrivati ad una precisa lettura. Fa tanto episodio di vita vissuta e questo rende più personale la lettura.

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  2. Ciao ti seguo da poco. Ti ho taggata qui http://seamiqualcunoregalagliunlibro.blogspot.it/2015/05/la-torre-dei-libri.html spero non ti dispiaccia

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