Tutte le volte che sento parlare di una morte prematura (bambini o ragazzi) ho una serie di domande check che affollano la mia mente.
"Angelo ferito" by Hugo Simberg |
La seconda domanda, indipendentemente dal fatto che li conosca o meno è più una preghiera: fa che abbiano almeno un altro figlio.
La terza domanda è: saranno abbastanza giovani per avere un altro figlio?
E appena realizzo che non lo sono e magari in effetti il figlio morto era figlio unico, passo a: perché non hanno deciso di avere almeno due o tre figli? Non hanno pensato a un'eventualità del genere?
Insomma precipito in un vortice che per me prevede un baratro di salvezza e speranza solo quando i genitori orfani di figli hanno ancora della prole.
Il che, considerando che io non ho mai pensato di avere figli e che pure se mi lanciassi nell'impresa dubito ne avrei più di uno, è abbastanza surreale.
Certe volte vaneggio e penso: vabbeh, facciamo che verso i 36 anni faccio un figlio, non sono ancora vecchissima. Poi il mio cervello aggiunge: beh, potresti esserlo se ne vuoi avere due o anche tre.
L'aggiunta immagino che debba il 90% della sua provenienza dalla convinzione propria della mia prolificissima famiglia che vede nel figlio unico uno sventurato privo di fratelli e sorelle (tra i top delle disgrazie) per il resto della sua esistenza.
Il 10% invece so per certo che viene da quella sequela di succitate domande: E se? E se ne ho solo uno e poi? Conscia poi del fatto che i figli non è che siano bambole intercambiabili, quindi se ne perdi uno e ne hai un altro la perdita non sarà meno irreparabile.
Perché ho fatto questo lungo e contorto preambolo?
Perché è molto difficile trovare le parole per recensire le parole di questo straziante memoir di Tom Hart, fumettista e illustratore americano sposato con un'illustratrice e padre di una bella bimba bionda: Molly Rose.
Probabilmente la consapevolezza che l'autore ha avuto un'altra bimba ha reso sopportabile la lettura del suo libro "Rosalie Lightinging" una graphic novel autobiografica, ed. Beccogiallo, che racconta la perdita della sua primogenita, morta per una di quelle inesplicabili malattie infantili all'età di due anni.
La sera prima era molto agitata e la mattina dopo era morta.
Tom Hart lo dice subito e senza giri di parole, senza introduzioni, la realtà cruda e drammatica di una storia avvenuta una manciata di anni fa dall'altro capo del pianeta ti colpisce come un ceffone a cui non riesci a credere.
Forse è anche per questo motivo che per tutto il tempo speri che una risposta ci sia: aveva una malformazione, una malattia fulminante, una qualsiasi cosa irrimediabile. Tuttavia Hart non dà spiegazioni lasciando intendere che fosse una disgrazia non solo incomprensibile, ma anche priva di un motivo a cui attaccarsi.
Rosalie è morta. Punto.
Da lì parte un abisso dal quale Hart e sua moglie Leela cercano di risalire dichiarando in qualche modo guerra al lutto.
Non si lasceranno divorare dal mostro oscuro che si è preso la loro bambina, loro ce la faranno, attraverseranno la terra dei morti mentre sono ancora in vita, proprio come Orfeo e ne usciranno per riveder le stelle.
Non è una storia facile, ma paradossalmente non è privo di speranza.
Il dolore, si dice, non ha amici.
Invece, Hart e sua moglie risalgono dal baratro grazie all'amore incondizionato di chi li circonda. Una rete di amici disposti a tutto: a ospitarli in casa, ad ascoltarli, a non lasciarli mai soli, a non permettere che loro pretendano di rimanere soli.
Mentre quella rete li sostiene, i due cercano un modo per risalire, per capire se in effetti questo esista.
Così, giornate senza senso, come un mare senza vento, come perle di collane di tristezza (cit.) si mescolano alla ricerca spasmodica di un simbolismo panteistico che in qualche modo sopperirebbe alla loro mancanza di fede (non ci sono molti riferimenti religiosi o mistici nel libro, la qual cosa lo rende ancora più umano): chiunque li incontri ha la storia di un familiare morto in giovane età da portargli, un modo paradossale per incoraggiarli e dir loro che la vita sfortunatamente o fortunatamente non rimane impantanata in quell'istante.
Il sito di Hart è lhttp://www.tomhart.net/rosalie.html |
Cercano risposte nei paesaggi, nelle ferite dei loro amici, nei presagi immaginari che si trovano ad elencare cercando di rappezzare i ricordi della loro ultima notte con la loro bambina.
E su tutto troneggia una casa che non riescono a vendere, un enorme parassita da cui non sembra esserci liberazione: poco prima della morte di Rosalie avevano deciso di terminare la loro vita di indigenza a New York per trasferirsi in Florida, ma il loro appartamento appare invendibile per una serie di assurdi motivi.
Pensi distrattamente tutto il tempo che ci sia un parallelismo maledetto tra la casa in cui è morta la loro bambina e il fatto che la terra desolata del lutto non abbia un confine e una fine.
Poi ti ritrovi a pensare che li ha tenuti ancorati al suolo terrestre, alla vita quotidiana che non ha rispetto per il dolore e va avanti imperterrita, impedendo loro di vagare in un cielo notturno e potenzialmente fatale.
Non ci sono molte parole per descrivere un dolore così grande e in realtà è questo il motivo per cui, nonostante l'immensa tristezza che emana questa storia, dovreste leggerla: perché Hart riesce dove quasi tutti cadono. Racconta un dolore che soffoca moltissimi, impossibile da rendere, da rappresentare, da proporre al mondo.
Hart è riuscito dove fallì Orfeo: ha cantato per la sua amata e l'ha riportata dal regno dei morti, perché noi potessimo conoscerla.
E lo ha fatto per chi, incapace di cantarla come lui, potesse trovarvi la rappresentazione di un dolore che altrimenti blocca, per sempre, nello stesso regno di chi ci ha abbandonato contro la sua volontà e nel quale non possiamo sostare perché non gli apparteniamo, anche se lo vorremmo disperatamente.
Curioso, anche a me parte un loop mentale quando sento di certe disgrazie, ma il mio è diametralmente opposto: spero che i genitori colpiti NON abbiano altri figli.
RispondiEliminaPerché è vero che i genitori possono superare il lutto, o uscirne meglio, se hanno altri figli a cui dedicarsi. Ma è vero anche che i figli rimasti verranno per sempre messi in relazione con quello perso, e con i morti giovani non c'è gara, non si può vincere.
Forse il mio non avere un briciolo di volontà genitoriale mi porta ancora adesso, nonostante l'età, a sentirmi più empatica con i figli, essere più "dalla loro parte", chissà.