sabato 19 novembre 2016

La pretesa della verità assoluta e la cultura della vergogna all'epoca dei social network. Una considerazione sull'importanza dei segreti e il mito della verità tra Aki Shimazaki, Pirandello e Akutagawa.

 Una fissazione dei film americani è l'importanza drammatica che si dà al seppur minimo segreto.

Interessante è la differenza tra la versione originale italiana de
"L'ultimo bacio" in cui Accorsi confessa un bacetto in vece di
un'intera fuggevole relazione, e la versione americana dove il
protagonista dà in effetti solo un bacetto
 Quante coppie, famiglie, amicizie, abbiamo visto rovinate in decinaia di film, serie tv e libri perché, come si suol dire a Roma, uno dei personaggi sentiva di non potersi tenere "il cecio in bocca"?

 Non parlo di segreti come relazioni parallele, doppie famiglie o altri eventi di pesantissima importanza, di solito il casus belli è sempre una risibile stupidaggine rispetto alle immani conseguenze del gesto: un bacio fuggevole causa reazioni sproporzionatamente drammatiche.
 Tu stai lì che dici: che caspita, ma devi proprio confessare questa cosa? Non sai tenere un segreto? Quando si è persa la capacità umana di tenerselo un segreto, seppur minimo?

 In realtà, le avvisaglie che vivessimo in un'epoca in cui "nessuno deve avere niente da nascondere" per nessun motivo, ci sono da tempo. 

 Se passate un minimo di tempo sui social network, vedrete come "trasparenza assoluta, diritto a conoscere pure l'ultimo segreto di chiunque", "diritto di chiunque a indagare e giudicare la vita  altrui in nome di un tribunale collettivo" è ormai l'imperativo comune.

 Come sta diventando imperativo comune, "il diritto di sapere".

Prendiamo anche il caso Wikileaks, fondamentalmente sono concorde anche io che tutti dovremmo essere a conoscenza di ciò che oscuramente avviene al di sopra di noi.

 Tuttavia, pensare che cose come la politica internazionale si basino su ragioni, motivazioni e contrattazioni trasparenti e inattaccabili, mi pare un'ingenuissima utopia e un'incredibile debolezza nel momento in cui tutti non giocano alle stesse regole.

 Non solo, mi sembra assai ingenuo ignorare il fatto che del rilascio di alcuni documento si può fare un uso strumentale. Si può manipolare ciò che si decide di svelare, quando si decide di svelarlo e su chi.

 Ha senso sempre "il diritto alla conoscenza" o "il diritto alla trasparenza"? Conoscere tutto, sempre, è davvero la cosa migliore? E' davvero ciò che migliora il nostro mondo?
 Oppure svelare un segreto rischia di far molto più danno del tenerlo celato? Perché, anche qui, ignorare l'effetto azione-reazione in nome di una moralità che abbiamo deciso attualmente preminente, non ha molto senso.

 Come non ha senso ignorare i diversi punti di vista di un singolo fatto.
 Voi direte, il fatto è quello, incontrovertibile e il mio discorso è, se non altro, reazionario.

 Io vi dico, leggete "Rashomon" uno splendido racconto di Akutagawa, recentemente ristampato da Einaudi. Nella storia accadeva un fatto basilare: una coppia di sposi veniva aggredita in un bosco da un brigante, lui veniva ucciso, lei riusciva a scappare.

Il fatto è lì. Tuttavia, la storia viene raccontata da quattro punti di vista: quella del marito morto, quella della moglie, quella del brigante e quella di un monaco casualmente testimone dell'evento.

 Tutte divergono eppure tutte raccontano la stessa storia e sono ugualmente credibili e concordi nel raccontare il medesimo fatto.

 Del resto, senza andare fino in Giappone, lo abbiamo studiato tutti fino Pirandello. 

 Magari ci ricordiamo poco delle superiori (e la cosa che più ci rimane impressa è il vizio del gioco di Mattia Pascal), ma dovremmo rimembrare almeno il concetto base di tutta la filosofia pirandelliana: la verità assoluta non esiste, esistono solo interpretazioni della verità.

 In "Così è, se vi pare" in cui la diceria su una moglie reclusa si moltiplica assumendo vari contorni a seconda di chi la racconta, dando una propria versione della situazione, il problema non si risolve neanche interrogando la moglie stessa.

 Essa, velata, risponde "Io sono colei che mi si crede", ponendo una pietra tombale su un grande equivoco del nostro tempo.  Che la verità sia assoluta e soprattutto parli da sola, senza interpretazioni.

 Laudisi, che insisteva sull'impossibilità di affidare ai fatti, l'unica chiave dell'assoluta verità, prescindendola dall'interpretazione, commenta infatti trionfante: "Ed ecco, o signori, come parla la verità, siete contenti?".

Ma per quale motivo questo bisogno di verità assoluta sembra diventato così preminente nel nostro tempo?
 Un modo per raggiungere il punto, più pacatamente, e a livello più intimo è sicuramente il pentaromanzo di Aki Shimazaki "Il peso dei segreti".

 E' un libro particolare perché composto da cinque novelle con cinque punti di vista diversi e ognuno di essi getta una luce diversa e aggiunge un tassello a quella che è una vicenda familiare all'apparenza abbastanza semplice.

 Da fuori vediamo un uomo che, prima della seconda guerra mondiale, ha rotto i ponti con la famiglia per sposare una donna bellissima che ha avuto un figlio naturale da una relazione giovanile. Adotta il bambino come fosse suo, parte per la guerra sino-giapponese, torna e vive cinquanta tranquilli anni in compagnia della compagna. Fine.

 Ciò che scopriamo leggendo i cinque piccoli romanzi è che dietro questo fatto apparentemente semplicissimo c'è un mondo sotterraneo, una serie di eventi enormi, di tragedie personali, di debolezze e segreti a matrioska in cui tutti hanno indugiato e da cui nessuno è esente.

 La verità nascosta, il non detto, non è solo enorme, ma anche infinitamente più profondo. Sotto una vita di coppia così lineare si nasconde un mondo.

 La domanda è: avrebbe avuto senso, per tutti i personaggi, svelare quel mondo? Avrebbe reso tutti più felici? O avrebbe tradito i legittimi sforzi fatti per essere felici?

 Siamo la somma dei nostri errori, ma abbiamo diritto ad affrancarci da essi senza la pubblica gogna oppure dobbiamo sottoporci tutti alla cultura della vergogna?

 E, soprattutto, siamo davvero sicuri che la cultura della vergogna sia migliore di quella della colpa?

Chiunque abbia frequentato il liceo classico ricorderà l'approfondimento sulla teoria di Eric Dodds nel quale si spiegava che per gli antichi greci ciò che determinava il valore di un essere umano era il giudizio esterno.

 Erano gli altri a decidere il tuo valore, a prescindere dalle tue colpe effettive e dal tuo eventuale senso di colpa. Se cadevi in disgrazia agli occhi altrui, allora non c'era ragione che potesse salvarti.

  La vergogna che cadeva su di te, lasciava ben poche alternative.

 (Esempio: i due poveri soldati di Leonida che casualmente si trovavano lontani durante la battaglia delle Termopili, furono costretti al suicidio per placare l'onta che si era abbattuta su di loro successivamente).

 La cultura della colpa, che abbiamo conosciuto noi finora, pone invece un accento ribaltato sulla questione.

 Ciò che noi siamo, quanto valiamo, qual è l'effettiva gravità delle nostre colpe, non lo decidono gli altri in qualità di implacabili giudici esterni, siamo solo noi stessi.

 Gli altri possono condannarci sulla base di interpretazioni sbagliate o idealmente correttissime, ma solo noi che sappiamo davvero se abbiamo una colpa o meno. Viceversa, gli altri possono assolverci, ma noi sappiamo di avere una colpa che la pubblica comprensione non può lavare.

 I social network, a mio parere, stanno incidendo enormemente sulla questione e a me sembra che la cultura della vergogna stia prendendo il sopravvento. E' quella la chiave. Se ciò che noi siamo dipende dagli occhi altrui, diventa doveroso ed essenziale svelare ogni nostro segreto affinché gli altri decidano la verità assoluta e quale punizione meritiamo.

 Non importa chi siamo, non importano le nostre ragioni o il senso di colpa che nel profondo possiamo provare, non sono importanti le conseguenze, c'è un esercito adamantino a decidere sempre e per sempre le nostre colpe.

 Il caso della povera Tiziana Cantone, al riguardo, è da manuale.

 C'è una poesia che tutti gli studenti di liceo classico studiano e ricordano per sempre. 
E' quella, famosissima, di Archiloco, sullo scudo abbandonato.

 Archiloco, poeta del sec. VII a. C., sta combattendo quando a un certo punto decide di scappare abbandonando il proprio scudo.
 Nella poesia si difende dalle accuse in un modo inconcepibile per la cultura degli eroi omerici, completamente immersi nella cultura della vergogna:
"Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo che presso un cespuglio,arma impeccabile, ho abbandonato non volendo;ma ho salvato me stesso.Che mi importa quello scudo?Vada in malora! Di nuovo ne avrò uno non peggiore."

 Ettore e Achille prima di abbandonare lo scudo si sarebbero piuttosto uccisi, Archiloco si difende con veemenza dicendo che ok, ha disertato, ma rimedierà, intanto è vivo. Non si sente in colpa e non saranno gli altri (in questo caso i Sai accusatori) a farcelo sentire.

Riflettiamo. Se Archiloco fosse vissuto adesso, saremmo stati così indulgenti con lui?
 O lo avremmo messo alla pubblica gogna, pessimo esempio di soldato che tradisce patria e popolo?
 Cosa saremmo stati in grado di leggere su qualsiasi social network?

 Forse siamo già di nuovo nella cultura della vergogna. E la domanda è sempre la stessa: ne vale la pena?

Ps. Se volete un consiglio, non leggete le cinque novelle della Shimazaki in ordine, mescolatele pure.

5 commenti:

  1. Argomento interessante e teoria interessante. Aggiungo che, siccome la gran parte dei segreti divulgati sui politici ha come ingrediente principale lo striscione "Vergogna!" stampato sopra, mi sembra anche siamo nell'epoca della divulgazione di segreti del menga, che spero passi presto per tornare ai bei tempi in cui scoprivi, chessò, che Andreotti era pagato dai sovietici o che il papa faceva le messe nere - al più oggi intascano stipendi che gli spettano legalmente o vanno a cena con avversari politici, insomma anche gli scandali non sono più quelli di un tempo, e si sono fatti molto più noiosi.

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  2. Si confonde nell'articolo realtà, verità e punti di vista. Nell'esempio citato di Rashomon, si possono adottare i punti di vista che si desiderano, ma il fatto reale sussiste lì, ineliminabile: la morte del marito per mano del brigante. Allo stesso modo, leggendo wikileaks, ci si può immedesimare nel punto di vista dei soldati e giustificare le loro azioni, ma resta il fatto reale, tra i tanti svelati, di civili uccisi a freddo.
    Quindi, se uno vuole, può certo dire che invece di avere dei civili morti, abbiamo avuto "un errore", una "perdita collaterale", o magari dei "civili che sarebbero diventati soldati" (e che era quindi giusto uccidere). Con le parole si può certo giustificare quello che si vuole e mutare la verità come si preferisce: ma il fatto "reale" resta lì, piaccia o meno.

    La cultura della vergogna è terribile quando si concentra sui più indifesi che non si possono difendere, ma non è nulla di così terribile quando operata sulla classe politica o sulle élite: tempo di una settimana, un mese e il pubblico ha già dimenticato.

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    1. Nell'esempio di Rashomon il fatto reale esiste, ma ad esempio è cosa ben diversa se l'omicidio avviene per legittima difesa o per furto. E' cosa diversa se la moglie si era accordata col brigante o se ad esempio lo stesso ucciso si era accordato col brigante per essere assassinato. In quest'ultimo caso si tratterebbe di omicidio del consenziente, avrebbe la stessa valenza di un omicidio per furto?
      Il fatto in sé, come dice Pirandello nella sua novella, non ci dice niente (addirittura nel caso della novella la verità è una persona che non è in grado di rispondere sulla sua natura, perché "E' ciò che la si crede), è l'interpretazione sostenuta da un insieme di informazioni, che il fatto in sé non possiede, ad aiutarci.
      Anche l'esempio dei civili morti è calzante. Come possiamo sapere che quei 200 civili uccisi non hanno evitato, che so, l'uccisione di 3000 civili?
      Se tu sapessi che uccidendo 10 persone ne salveresti 100 le uccideresti o non lo faresti?
      La domanda non è così semplice, perché implica molti dilemmi morali. C'è, in proposito, il famoso "dilemma del carrello" di cui si parla diffusamente nel bel saggio "Uccideresti l'uomo grasso?" di David Edmonds. Se ti trovassi a passare su un ponte assieme a un grasso sconosciuto e vedessi, sotto di te, un treno che avanza su cinque persone legate ai binari, sapendo che lanciando l'uomo grasso (e uccidendolo) le salveresti, cosa faresti?
      E cosa faresti se ci fossero due binari uno con dieci e uno con cinque persone, ma tu potessi (sempre decidendo di uccidere l'uomo grasso) salvarne solo un gruppo?
      E se in un gruppo ci fosse un tuo parente? E se ci fosse chi li ha legati al binario?
      E se tu uccidessi l'uomo grasso per salvare cinque persone ti giudicheresti un assassino? E come dovrebbero giudicarti gli altri?
      La verità non è assoluta, è manipolabilissima. Ho studiato scienze della documentazione ed è da lì che mi è venuta la convinzione che no, il documento, senza interpretazione, senza tutti i fatti a chiarircelo, non significa assolutamente nulla.
      Ho trovato questo bell'articolo su doppiozero che spiega assai meglio in dilemma. http://www.doppiozero.com/materiali/teorie/uccideresti-luomo-grasso

      La cultura della vergogna è terribile SEMPRE. E trovo drammatico che la si giustifichi nei confronti della classe politica, e non perché voglia difenderla, ma perché deresponsabilizza il cittadino. Finché il cittadino si sentirà autorizzato a dar fondo a qualsiasi basso istinto (e penserà sempre di aver ragione e di vivere un'inspiegabile tirannia a cui deve solo soggiacere senza poter mai cambiare le cose) non capirà mai che se la polis funziona male, la colpa è sua per prima. Penso che quel che diceva il film di Andò, "Viva la libertà" sia verissimo: "Se i politici sono mediocri è perché i loro elettori sono mediocri. E se sono ladri è perché i loro elettori sono ladri, oppure vorrebbero esserlo".

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    2. Mi dispiace, ma per me 200 civili morti restano 200 civili morti. Il fatto in sè non è giustificabile, come non lo sono ad esempio i 190 bambini "vittime collaterali" della campagna droni di Obama. Erano vittime "accettabili", per prevenire attentati terroristi? Certamente, da un punto di vista squisitamente pratico. Tuttavia, agire moralmente vuol dire agire nel giusto andando contro il "pratico". Da come spieghi la situazione, sembra che si tratti di un mero calcolo fini-mezzi. Nel caso dell'uomo grasso, si dovrebbe provare a salvare sia l'uomo grasso che le cinque persone, anche sapendo che c'è il rischio di non salvare uno dei due, o di non salvare nessuno. (non ho letto il libro: rispondo di getto). L'idea che esista un "sostrato illegale", o dei "segreti" che sono necessari per governare è sempre stata la scusa dei governi conservatori. Su questo discorso consiglio Slavoj Zizek, è forse uno dei suoi temi dominanti, nella filosofia politica.

      Uno Zar ti avrebbe detto che i pogrom antisemiti erano misure obbligate per evitare il collasso della monarchia e la rivoluzione. Un "segreto" e una "verità imparziale" necessaria. Ma ovviamente restano i corpi degli ebrei uccisi nei pogrom. Un altro "fatto".

      Grazie per la lunga risposta, mi ero un po' pentito di aver commentato sullo sprint di troppi caffè, ma il tema mi è a cuore. Probabilmente è una discussione senza sbocchi, visto che citi libri e io cito fatti storici, ma ok...

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  3. Saggissime parole, che condivido subito. <3 Io espressi lo stesso concetto tempo fa, in modo diverso... http://erica-gazzoldi.blogspot.it/2015/07/restiamo-umani.html

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