In questi giorni ho avuto un'interessante conversazione con l'admin di un altro blog (qualcuna ne conosco anche io).
Si discuteva di un male che affligge la nostra generazione: fino a che punto è lecito spingersi per raggiungere i propri sogni?
Niente paura non eravamo manco arrivate al mercimonio del corpo o simili, il punto era ancora più teorico: se dopo un tot di anni in cui si tenta e ritenta e ritenta di raggiungere a ogni costo un obiettivo non si riesce, è lecito tentare?
Non partivamo da una questione astratta, ma da una notizia specifica che non citerò esattamente perché non è il fulcro della questione e poi rischiamo di perderci in millanta giri poco pertinenti.
Alcuni lavoratori/volontari/nonsocomesidefiniscequestaposizionelavorativa lavorano per anni con un misero rimborso spese quasi full time. Visto che dopo nulla si smuove e cominciano a protestare, ma in realtà c'è da tener conto che essendo un posto nella pubblica amministrazione, anche nel caso prima o poi si aprisse una posizione, ci sarebbe sempre un concorso pubblico a cui potrebbe (giustamente) partecipare chiunque. E quindi tutto diventa un attimo vano.
Sapendo ciò, ha senso continuare a lavorare per poche lire per inseguire un sogno?
Ma soprattutto è il giusto modo per farlo? Non ci staremo autosabotando a forza di eccesso di disponibilità? Perché per il sogno ogni sacrificio, materiale e/o morale è lecito?
La nostra generazione, o buona parte, ha potuto, grazie a genitori che riuscivano a mantenerla, inseguire lungamente determinati obiettivi che magari tardavano ad arrivare.
E, badate bene, non sto dicendo che sia sbagliato, soprattutto quando i famosi obiettivi corrispondono a posizione lavorative che sono appannaggio di una sorta di élite che ne detiene un'ottima parte per diritto di ereditarietà (quindi non è per mancanza di talento che non si riescono ad afferrare).
Si vede bene in "Tutta la vita davanti" di Virzì, quando la laureata in filosofia senza santi in paradiso cerca inutilmente un lavoro proprio nell'editoria.
Non solo riceve molte porte in faccia, ma deve anche ascoltare l'amica non laureata, interpretata da Caterina Guzzanti, che le fa una di quelle tirate senza senso di chi tanto ha madre e padre che l'hanno sistemata nella casa editrice di amici.
Certo, poi c'è anche chi ce la fa senza padrini e madrine e sono molti e devono lavorare il triplo (anche lei nel finale ce la fa più o meno), ma c'è anche chi daje e daje non riesce comunque ad arrivare al traguardo.
Succederebbe anche se tutti fossimo pari ai blocchi di partenza per semplici questioni numeriche, ingoiare il rospo quando sai che non è proprio giusto è la parte peggiore della faccenda, ma non è che semplicemente potrebbe aver senso mollare il colpo? Riconoscere, come cantava Caterina Caselli che "Si muore un po' per poter vivere"?
Cos'è questo preambolo? Un inno al "piegate la schiena e adattatevi"?
No, è più che altro un invito a leggere "Piccoli furti" Michael Cho ed. Rizzoli Lizard che spiega molto meglio di me il senso di empasse in cui ci si trova a cicliche ondate nella propria esistenza e a cosa si arriva quando ci si rifiuta di affrontarle.
(che io, forse traviata da Boris ho letto Corinna tutto il tempo, ma non è importante) è una trentenne americana che ha studiato lettere e voleva scrivere "il grande romanzo americano", un'ambizione tanto comune nei film e nei telefilm, quanto, diciamo la verità, anche nella vita reale (ho avuto la fissa persino io).
Corrina
Siccome le tasse scolastiche americane non sono come quelle italiane e ha un debito piuttosto consistente da ripianare al riguardo, decide di trovarsi un altro lavoro temporaneo, pagare e poi chiudersi in casa a scrivere.
E' quello che pensano in molti. Lo confesso, è quello che pensavo anche io: ma sì, intanto lavoro in libreria (che sottolineo era per me già un lavoro papabilissimo, ma a 25 anni, quando ho iniziato, avevo anche altre aspettative, sensate o meno che fossero) e intanto mi guardo intorno.
La stragrande maggioranza di quelli che riescono ad afferrare un buon contratto poi rimangono lì.
Per ottime ragioni intendiamoci: fuori il mondo del lavoro è pessimo, arrivi a 30 anni in un secondo e la parola "sogno" assume altri significati che non rimandano più solo ad avventura e cose meravigliose, ma anche a povertà, ansia, precariato, impossibilità di costruirsi un'esistenza e altre simpatiche amenità. Il terrore del futuro inizia a uccidere l'avventura (o magari, ti dici, sono le prime avvisaglie del buonsenso).
Se poi il lavoro somiglia in qualche modo a quello che volevi davvero fare è ancora meglio, no? Hai quasi il sogno e un lavoro, chi sta meglio di te?
Corrina è in questa situazione. Subito dopo la laurea ha trovato lavoro come copy in un'agenzia pubblicitaria in cui le insegnano che loro sono "i sognatori del capitalismo", che inventare nuovi assurdi oggetti di consumo, come il profumo "per bambine" è giusto e necessario e, dulcis in fundo, la sera l'azienda ti fa trovare pure l'open bar.
Tra il capo che fa discorsi alla Steve Jobs e come Steve Jobs si veste e seraficamente si comporta, privo di un vero ordine morale che non sia il raggiungimento del successo e del denaro fine a sè stesso, preda di una pesante solitudine e del rimpianto per i suoi sogni di scrittura ormai sepolti, Corrina vaga molto silenziosa per una New York che da brava grande città ti fa sentire come un naufrago su un'isola deserta.
La sua valvola di sfogo, perché anche lei è umana e in realtà deve scaricare in qualche modo la pressione che comporta un mondo che non le appartiene, è appunto commettere piccoli furti in un anonimo negozietto, sempre lo stesso.
Non fa del male a nessuno pensa, il commesso al banco viene pagato lo stesso, l'azienda è sicuramente assicurata e lei subito dopo si sente meglio.
Per quanto? E perché?
La storia rischia di prendere una piega da filmaccio americano, ma si salva, pur finendo troppo bene per giudicarla un buon ritratto generazionale.
Le cose non finiscono così bene, non sempre e soprattutto non subito.
Perché in realtà il vero problema penso sia attaccarsi disperatamente all'idea che le cose debbano prendere subito una piega giusta, altrimenti abbiamo perso.
Ha senso continuare a lavorare dieci anni sottopagati (NB sto parlando del farlo per non rinunciare a un sogno, non del farlo perché costretti dagli eventi avversi) o peggio ancora infilarsi in un tunnel di stage gratuiti (sempre stata dell'idea che per non essere pagata a quel punto sto a casa, a meno che dopo 6 mesi non mi assumi con la certezza del 3000 per 1000) perché quello è il lavoro che vogliamo disperatamente fare?
Ha senso non riuscire a pensare che potrebbe ripresentarsi in futuro, in altre forme, in altri posti? O che non esista proprio nient'altro che possiamo considerare al suo posto?
Non sto dicendo che lo abbia, sto dicendo solo di non fare come Corrina: pensare che sia normale compiere piccoli furti, ignorare certi segnali che ci stanno avvisando che il sogno non solo è cambiato, ma ci ha cambiato, e magari non in meglio.
I sogni hanno spesso un prezzo e la domanda è sempre la stessa da sempre: vale la pena pagarlo?
Si discuteva di un male che affligge la nostra generazione: fino a che punto è lecito spingersi per raggiungere i propri sogni?
Niente paura non eravamo manco arrivate al mercimonio del corpo o simili, il punto era ancora più teorico: se dopo un tot di anni in cui si tenta e ritenta e ritenta di raggiungere a ogni costo un obiettivo non si riesce, è lecito tentare?
Non partivamo da una questione astratta, ma da una notizia specifica che non citerò esattamente perché non è il fulcro della questione e poi rischiamo di perderci in millanta giri poco pertinenti.
Alcuni lavoratori/volontari/nonsocomesidefiniscequestaposizionelavorativa lavorano per anni con un misero rimborso spese quasi full time. Visto che dopo nulla si smuove e cominciano a protestare, ma in realtà c'è da tener conto che essendo un posto nella pubblica amministrazione, anche nel caso prima o poi si aprisse una posizione, ci sarebbe sempre un concorso pubblico a cui potrebbe (giustamente) partecipare chiunque. E quindi tutto diventa un attimo vano.
Sapendo ciò, ha senso continuare a lavorare per poche lire per inseguire un sogno?
Ma soprattutto è il giusto modo per farlo? Non ci staremo autosabotando a forza di eccesso di disponibilità? Perché per il sogno ogni sacrificio, materiale e/o morale è lecito?
La nostra generazione, o buona parte, ha potuto, grazie a genitori che riuscivano a mantenerla, inseguire lungamente determinati obiettivi che magari tardavano ad arrivare.
E, badate bene, non sto dicendo che sia sbagliato, soprattutto quando i famosi obiettivi corrispondono a posizione lavorative che sono appannaggio di una sorta di élite che ne detiene un'ottima parte per diritto di ereditarietà (quindi non è per mancanza di talento che non si riescono ad afferrare).
Si vede bene in "Tutta la vita davanti" di Virzì, quando la laureata in filosofia senza santi in paradiso cerca inutilmente un lavoro proprio nell'editoria.
Non solo riceve molte porte in faccia, ma deve anche ascoltare l'amica non laureata, interpretata da Caterina Guzzanti, che le fa una di quelle tirate senza senso di chi tanto ha madre e padre che l'hanno sistemata nella casa editrice di amici.
Certo, poi c'è anche chi ce la fa senza padrini e madrine e sono molti e devono lavorare il triplo (anche lei nel finale ce la fa più o meno), ma c'è anche chi daje e daje non riesce comunque ad arrivare al traguardo.
Succederebbe anche se tutti fossimo pari ai blocchi di partenza per semplici questioni numeriche, ingoiare il rospo quando sai che non è proprio giusto è la parte peggiore della faccenda, ma non è che semplicemente potrebbe aver senso mollare il colpo? Riconoscere, come cantava Caterina Caselli che "Si muore un po' per poter vivere"?
Cos'è questo preambolo? Un inno al "piegate la schiena e adattatevi"?
No, è più che altro un invito a leggere "Piccoli furti" Michael Cho ed. Rizzoli Lizard che spiega molto meglio di me il senso di empasse in cui ci si trova a cicliche ondate nella propria esistenza e a cosa si arriva quando ci si rifiuta di affrontarle.
(che io, forse traviata da Boris ho letto Corinna tutto il tempo, ma non è importante) è una trentenne americana che ha studiato lettere e voleva scrivere "il grande romanzo americano", un'ambizione tanto comune nei film e nei telefilm, quanto, diciamo la verità, anche nella vita reale (ho avuto la fissa persino io).
Corrina
Siccome le tasse scolastiche americane non sono come quelle italiane e ha un debito piuttosto consistente da ripianare al riguardo, decide di trovarsi un altro lavoro temporaneo, pagare e poi chiudersi in casa a scrivere.
E' quello che pensano in molti. Lo confesso, è quello che pensavo anche io: ma sì, intanto lavoro in libreria (che sottolineo era per me già un lavoro papabilissimo, ma a 25 anni, quando ho iniziato, avevo anche altre aspettative, sensate o meno che fossero) e intanto mi guardo intorno.
La stragrande maggioranza di quelli che riescono ad afferrare un buon contratto poi rimangono lì.
Per ottime ragioni intendiamoci: fuori il mondo del lavoro è pessimo, arrivi a 30 anni in un secondo e la parola "sogno" assume altri significati che non rimandano più solo ad avventura e cose meravigliose, ma anche a povertà, ansia, precariato, impossibilità di costruirsi un'esistenza e altre simpatiche amenità. Il terrore del futuro inizia a uccidere l'avventura (o magari, ti dici, sono le prime avvisaglie del buonsenso).
Se poi il lavoro somiglia in qualche modo a quello che volevi davvero fare è ancora meglio, no? Hai quasi il sogno e un lavoro, chi sta meglio di te?
Corrina è in questa situazione. Subito dopo la laurea ha trovato lavoro come copy in un'agenzia pubblicitaria in cui le insegnano che loro sono "i sognatori del capitalismo", che inventare nuovi assurdi oggetti di consumo, come il profumo "per bambine" è giusto e necessario e, dulcis in fundo, la sera l'azienda ti fa trovare pure l'open bar.
Tra il capo che fa discorsi alla Steve Jobs e come Steve Jobs si veste e seraficamente si comporta, privo di un vero ordine morale che non sia il raggiungimento del successo e del denaro fine a sè stesso, preda di una pesante solitudine e del rimpianto per i suoi sogni di scrittura ormai sepolti, Corrina vaga molto silenziosa per una New York che da brava grande città ti fa sentire come un naufrago su un'isola deserta.
La sua valvola di sfogo, perché anche lei è umana e in realtà deve scaricare in qualche modo la pressione che comporta un mondo che non le appartiene, è appunto commettere piccoli furti in un anonimo negozietto, sempre lo stesso.
Non fa del male a nessuno pensa, il commesso al banco viene pagato lo stesso, l'azienda è sicuramente assicurata e lei subito dopo si sente meglio.
Per quanto? E perché?
La storia rischia di prendere una piega da filmaccio americano, ma si salva, pur finendo troppo bene per giudicarla un buon ritratto generazionale.
Le cose non finiscono così bene, non sempre e soprattutto non subito.
Perché in realtà il vero problema penso sia attaccarsi disperatamente all'idea che le cose debbano prendere subito una piega giusta, altrimenti abbiamo perso.
Ha senso continuare a lavorare dieci anni sottopagati (NB sto parlando del farlo per non rinunciare a un sogno, non del farlo perché costretti dagli eventi avversi) o peggio ancora infilarsi in un tunnel di stage gratuiti (sempre stata dell'idea che per non essere pagata a quel punto sto a casa, a meno che dopo 6 mesi non mi assumi con la certezza del 3000 per 1000) perché quello è il lavoro che vogliamo disperatamente fare?
Ha senso non riuscire a pensare che potrebbe ripresentarsi in futuro, in altre forme, in altri posti? O che non esista proprio nient'altro che possiamo considerare al suo posto?
Non sto dicendo che lo abbia, sto dicendo solo di non fare come Corrina: pensare che sia normale compiere piccoli furti, ignorare certi segnali che ci stanno avvisando che il sogno non solo è cambiato, ma ci ha cambiato, e magari non in meglio.
I sogni hanno spesso un prezzo e la domanda è sempre la stessa da sempre: vale la pena pagarlo?
GRazie per la segnalazione, è il libro perfetto per me che mi trovo proprio in una situazione di disagio professionale simile: ho 32 anni (quindi un relitto ormai per il mondo del lavoro che cerca neolaureati con esperienza), 7 anni di precariato in un ente pubblico ormai quasi alle spalle, facendo un lavoro che non è quello per cui ho studiato ma l'unico che ci si è avvicinato di più. Ora sta per scadere il mio contratto a progetto e sono incitna, e l'idea di diventare una di quelle mamme che fanno solo le mamme con il peso del fallimento professionale addosso mi terrorizza...ma che fare? cosa posso tentare? La soluzione di Corinna non mi sembra così geniale
RispondiEliminaMutatis mutandis la trama mi fa pensare al romanzo sull'aspidistra di Orwell, adattato al nostro tempo e ripulito delle questioni socialiste. Lì il protagonista viene raccomandato per un impiego rispettabilissimo,appunto in un'agenzia pubblicitaria (come da descrizione sopra). È bravo e ha prospettive di far carriera, e qui è il problema perché ha paura di piantarci radici, se viene promosso. Quindi molla per chiudersi in casa a scrivere il suo libro di poesie, condannandosi alla povertà, abiezione e varie altre cose.
RispondiEliminaIl finale sospetto sia diverso, chissà, perché la morale di Orwell è un po' amara (o realista?).
Il finale di questa graphic novel è diciamo la parte peggiore perché è molto melenso e poco realistico. SPOILER
EliminaNon puoi far finire la storia con lei che molla capre e cavoli e parte felice a scrivere il romanzo della vita, quando ci hai ripetuto dall'inizio che fa quel lavoro perché deve ripagare un enorme debito scolastico.
Non è realistico e distrugge il senso della graphic novel che, appunto, era ritrovarsi intrappolati in una realtà simile a quella dei propri sogni che però non corrisponde al nostro sogno. Crescere è davvero sfuggirle o crescere sarebbe piuttosto trovare un modo per sopravviverle? Secondo me, forse lo dico cinicamente (ma lo dico da non privilegiata che è andata via di casa a 24 anni senza un soldo, che si è pagata da sola l'università e ho passato momenti di serio terrore di "se non mi rinnovano il contratto come pagherò l'affitto" e altre amenità), la seconda. Mi spiace, ma la morale di Orwell era forse amara, di certo realistica. Con questo non voglio dire che bisogna diventare mostri di cinismo e "sognatori del capitalismo" (io impazzirei in un posto del genere), ma che bisognerebbe trovare un modo per vivere onestamente con sé stessi eppure realisticamente nel mondo.
Cantava Morandi "Uno su mille ce la fa" e un po' tutti si sono chiesti che fine fanno gli altri 999.
RispondiEliminaAlla fine è questo: è giusto provare a realizzare i propri sogni, però è necessario maturare una profonda consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri pregi.
Anche io avrei voluto un lavoro diverso, ma il mondo che mi interessa è fortemente elitario e se non frequenti l'ambiente giusto, hai la formazione (costosissima) giusta, se non conosci le persone giuste, puoi anche essere bravissimo nel tuo lavoro, ma non riesci a trovare la chiave per entrare.
Come per te, il mio lavoro è attinente, sono rimasta nell'ambito dell'arte, ma non è quello che avrei voluto.
Forse molti non saranno d'accordo con me, ma credo che non siamo totipotenti, non possiamo fare tutto quello che vorremmo, che forse per quello che sogniamo non abbiamo le capacità e non ne siamo consapevoli all'inizio, ma ad un certo punto ce ne rendiamo conto e non ha senso fare finta di niente, incaponirci. Complice è il modo in cui siamo stati educati, la società che ci ha accolto. Chi è nato negli anni '80 è cresciuto nella convinzione che con un diploma e una laurea si sarebbe potuto ambire a un posto di lavoro migliore rispetto a quello dei genitori...
Io di anni ne ho 32, ho fatto diversi lavori, e so che non è più così, che a un certo punto devi cercare di vivere decentemente, mentre temo che il mio fidanzato, coetaneo, questo lo abbia capito in parte e come lui tanti da un lato sanno, dall'altro ammettere il fallimento costa troppo e vivono facendo finta di nulla, trovando scuse. Non so cosa sia peggio, sinceramente.
In realtà penso che anche questa idea di fallimento sia anche un bel bastone con cui ci si tiene a bada. Come dici tu molti non ce la fanno perché non hanno capacità e se ne rendono conto molto dopo, altri le capacità ce le avrebbero, ma non ce la fanno per colpa di tutta una serie di motivazioni economiche/posti di lavoro presi da figli di imbucati da. Ci vorrebbe una qualche forma di resistenza che nel mio immaginario è anche dire a chi sfrutta allegramente i nostri sogni: NO. Troppa economia si regge sul nostro dire troppi sì troppo spesso con l'ingenua e tenera speranza di chi si fida e di chi spera, non dovremmo fidarci più. Personalmente penso sia un modo molto più costruttivo per esaudire i nostri sogni. (Io per ragioni economiche non ho mai potuto accettare lavori o stage non pagati, non ero "schizzinosa", semplicemente non potevo perché non avevo soldi dietro a sostenermi, neanche pochi di sussistenza. Prima mi maledicevo perché pensavo che questo mi avesse precluso tante possibilità, col senno del poi penso mi abbia salvato da un sicuro sfruttamento delle mie belle speranze)
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