Un paio di anni fa circa, in libreria, mi sono imbattuta per caso in una serie di piccoli saggi dedicati al mondo degli anime giapponesi.
Mi colpirono molto perché era il genere di libri che sognavo di leggere da adolescente quando mia madre mi buttava i manga e mi impediva di vedere Ranma perché "poteva confondermi le idee" (poi si è redenta, madre non prendertela se leggi questo post).
Immagino che molti altri attualmente trentenni abbiano covato questo desiderio di veder trattata la propria passione per manga e anime come una cosa seria, degna di saggistica seria con cui poter approfondire tutte le cose (molte) che ci sfuggivano totalmente quando ingurgitavamo ore di cartoni animati giapponesi.
I nostri genitori vedevano combattimenti e ragazzette dalle gonne corte prefigurando per noi immani traumi infantili, noi vedevamo solo un mondo simile al nostro eppure lontanissimo.
Nomi che Mediaset si premurava di tradurre, ma neanche sempre (mi rimane ancora impresso che nel bel mezzo di un fiorire di Tinette e Sabrine in "E' quasi magia Johnny", la cugina continuava a chiamarsi Akane, così de botto senza senso), cibi ignoti, robottoni, un'etica del sacrificio per noi incomprensibile, gente che a 18 anni ancora non trovava il coraggio di guardare in faccia la ragazza che le piaceva, matrimoni combinati, dojo, arti marziali.
Era come guardare cartoni animati di fantascienza, solo che quella era la vita vera di qualcuno dall'altro capo del pianeta su cui avremmo voluto saperne molto di più!
Perciò i saggi di Enrico Cantino, piccoli, agilissimi ed economicissimi volumetti editi da Mimesis sono un sogno che dopo tanti anni si avvera e sono molto felice di avergli fatto questa intervista!
Grazie ancora per avermi risposto e per il tempo dedicato, e che si possa mangiare un onigiri insieme prima o poi!!
Ciao
Enrico, ti ho scoperto per caso in libreria e sono rimasta folgorata
dai tuoi piccoli saggi, quelli che ogni persona cresciuta a onigiri,
anpan e cartoni giapponesi vorrebbe leggere.
Com'è
nata l'idea?
In realtà l'idea è
venuta ai miei amici, non a me.
Mi dicevano: perché non scrivi un
libro sui cartoni giapponesi, visto che ne sai un sacco? E io mi sono
lasciato convincere.
All'inizio pensavo – ingenuamente – di
poterlo scrivere in soli sei mesi.
Invece ho impiegato quattro anni.
Perché mi sono reso conto di una verità fondamentale: per poter
parlare dei cartoni animati giapponesi bisogna conoscere la cultura
che li ha prodotti.
Allora ho iniziato una “immersione folle” nel
Sol Levante, documentandomi su sistema scolastico, condizione delle
donne, Shintoismo, Buddhismo, Taoismo, Bushidō
e chi più ne ha, ne metta.
Il risultato è stato un corposo saggio
sulle tecniche narrative degli anime
giapponesi degli anni Settanta-Novanta, suddivisi per argomenti:
guerrieri, robottoni, sportivi, eroine e coppie.
Si pensa comunemente
che gli anime facciano parte di una sorta di sottocultura e raramente
li si include nella “cultura alta” invece tu sei stato pubblicato
da Mimesis, editore molto autorevole nel campo della saggistica. È
stato difficile per te trovare un editore? Com'è nata la vostra
collaborazione?
Trovare
un editore è stato più semplice di quanto sperassi.
Nel 2012 sono
andato con un gruppo di amici al Salone del Libro di Torino. Fra gli
stand ho notato proprio quello della Mimesis, perché nel loro
catalogo erano presenti diverse pubblicazioni riguardanti la cultura
giapponese.
Dopo il Salone li ho contattati tramite mail, spiegando
che avevo scritto questo saggio sulle tecniche narrative dei cartoni
animati giapponesi. Nel giro di una settimana ho ricevuto una
risposta dal vicedirettore della casa editrice.
Ci siamo sentiti per
telefono e ci siamo accordati in questo senso: avrebbero pubblicato,
come esperimento, due capitoli del mio libro (quelli dedicati a
robottoni e guerrieri) come fossero volumi a sé stanti (con tutto
quel che ne consegue: tagli, adattamenti e quant'altro).
L'esperimento è andato bene. E i libri da due sono diventati sei.
Com'è nata la tua
passione per gli anime? Ce n'è qualcuno che ti ha segnato
particolarmente?
Qui
è necessaria una premessa. Io sono del 1965. Di conseguenza ho 53
anni. Ho sempre amato i cartoni animati. Guardavo quelli trasmessi
dalla Rai, quando la Rai aveva soltanto due canali (quindi andiamo
indietro e mica poco).
Gli anime
mi hanno colpito fin dal loro primo apparire sugli schermi televisivi
nostrani, perché completamente diversi da quelli – cecoslovacchi,
ungheresi, americani, francesi, ecc. – cui ero abituato fino a quel
momento. Hanno letteralmente ammaliato la mia fantasia, che non ha
più potuto farne a meno.
Diciamo che in generale qualche cambiamento
su di me lo hanno operato, così come i libri che ho letto in tutti
questi anni.
Quali sono i tuoi
anime preferiti in assoluto e cosa ti sentiresti di consigliare al
momento?
Ah, gli anime che
preferisco in assoluto sono quelli robotici (con Goldrake –
Grendizer per i puristi – in testa), quelli fantascientifici
(Capitan Harlock su tutti) e quelli guerrieri (Polymar, Kyashan, i
Cavalieri dello Zodiaco…).
Però ho guardato veramente di tutto.
Anche serie francamente imbarazzanti, come quella dedicata a
Ippotommaso…
I cartoni animati odierni mi piacciono meno: li trovo
molto cerebrali e contorti. E poi durano un'eternità. Io
consiglierei, soprattutto ai ragazzi, gli anime che andavano per la
maggiore quando ero ragazzo (li stanno anche ripubblicando tutti in
DVD).
Disegni e animazioni non erano impeccabili, ma le storie ti
prendevano tantissimo. Per lo meno, prendevano me.
Potresti dire qualche
parola su ognuno dei volumetti che hai pubblicato?
Troppe sarebbero le cose
da dire, ma proverò a essere acrilico.
Ed è anche quello che mi ha
fatto soffrire maggiormente. Perché il capitolo da cui è tratto
conta più di sessanta cartelle in Word. Quindi sono stato costretto
a operare molte dolorosissime esclusioni. Però ho salvato almeno due
robottoni (i più importanti e conosciuti) per ciascuna categoria.
Da
Kenshiro a Sasuke ha comportato esclusioni meno dolorose, ma
anche lui mi ha fatto sanguinare un po' il cuore.
Da Mimì Ayuhara
a Oliver Hutton è circoscritto agli sport di gruppo, perché mi
ha permesso di sviluppare il concetto di squadra, fondamentale nelle
serie robotiche e non solo.
Da Lamù a Kiss me Licia è il più
breve, credo. Perché in effetti le serie sentimentali sono quelle
che ho seguito meno in assoluto.
Da Heidi e Lady Oscar
riguarda gli shojo, cioè gli anime che hanno per
protagonisti delle fanciulle. Dall'Incantevole Creamy a Pollon
è incentrato su una particolare categoria di shojo: i
majokko. In sostanza, si parla delle maghette (o streghette).
Vi ho incluso Pollon, anche se è un'aspirante dea, perché
dall'episodio numero 23 la Dea delle Dee dona alla protagonista il
Miracolo Bonbon, un fermaglio a forma di farfalla che le conferisce
poteri magici. Li amo tutti, comunque. Perché li ho fatti io. E
contengono una parte di me.
Hai in progetto di
scriverne altri?
Per adesso, no. Più
avanti, chissà.
Nei tuoi libri parli
anche dell'aspetto sociale raccontato in alcuni manga, come i
rapporti di coppia che, come ben sappiamo, sono lontani dalle regole
occidentali e un po' frustranti ai nostri occhi, quando proprio non
assurdi.
Pensi che gli anime abbiano influito anche dal punto di
vista sociale sui rapporti delle persone che sono cresciute
guardandoli assiduamente?
Guarda,
io non sono un sociologo e non mi intendo di dinamiche sociali.
Però
posso dirti cosa ho notato. Fino all'avvento degli anime,
noi non sapevamo praticamente nulla del Giappone.
Ci hanno permesso
di accostarci a una cultura profondamente diversa dalla nostra.
A me
sembra, comunque, che abbiano esercitato una certa influenza sul
cinema e sull'animazione occidentali, i quali ne hanno mutuato
tecniche registiche (inquadrature, effetti speciali…) e narrative
(sottotrame, colpi di scena…). E poi parliamoci chiaro: senza le
streghette nipponiche, la saga italiana delle Winx non sarebbe mai
nata…
Gli anime giapponesi
restituiscono protagoniste femminili di tutto rispetto, Lady Oscar su
tutte, impavide, indipendenti, piene d'inventiva.
Per contro, la
società giapponese rimane molto conservatrice per quel che riguarda
i ruoli di genere.
Come spieghi questa dicotomia?
È
vero: le eroine degli anime
sono ben diverse dalle donne giapponesi, che ci sono state dipinte
come remissive e sottomesse (anche se economia e casa le mandano
avanti loro). Io posso solo formulare due ipotesi.
La prima è che
molti shojo
sono ambientati in Occidente. Quindi ha abbastanza senso che le loro
protagoniste abbiano caratteristiche occidentali. La seconda è che
forse, gli shojo,
essendo ideati da donne, potrebbero anche esprimere l'aspirazione
delle donne giapponesi a una maggiore indipendenza e intraprendenza.
Ma le mie, ripeto, sono solo ipotesi. E come tali, confutabilissime.
Grazie mille a Enrico!!
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