giovedì 11 aprile 2019

Gli anime sono finalmente una cosa seria! Intervista a Enrico Cantino sui suoi saggi sul fantastico mondo degli anime giapponesi della nostra infanzia!


 Un paio di anni fa circa, in libreria, mi sono imbattuta per caso in una serie di piccoli saggi dedicati al mondo degli anime giapponesi

 Mi colpirono molto perché era il genere di libri che sognavo di leggere da adolescente quando mia madre mi buttava i manga e mi impediva di vedere Ranma perché "poteva confondermi le idee" (poi si è redenta, madre non prendertela se leggi questo post).

 Immagino che molti altri attualmente trentenni abbiano covato questo desiderio di veder trattata la propria passione per manga e anime come una cosa seria, degna di saggistica seria con cui poter approfondire tutte le cose (molte) che ci sfuggivano totalmente quando ingurgitavamo ore di cartoni animati giapponesi.

 I nostri genitori vedevano combattimenti e ragazzette dalle gonne corte prefigurando per noi immani traumi infantili, noi vedevamo solo un mondo simile al nostro eppure lontanissimo. 

 Nomi che Mediaset si premurava di tradurre, ma neanche sempre (mi rimane ancora impresso che nel bel mezzo di un fiorire di Tinette e Sabrine in "E' quasi magia Johnny", la cugina continuava a chiamarsi Akane, così de botto senza senso), cibi ignoti, robottoni, un'etica del sacrificio per noi incomprensibile, gente che a 18 anni ancora non trovava il coraggio di guardare in faccia la ragazza che le piaceva, matrimoni combinati, dojo, arti marziali.

 Era come guardare cartoni animati di fantascienza, solo che quella era la vita vera di qualcuno dall'altro capo del pianeta su cui avremmo voluto saperne molto di più!

 Perciò i saggi di Enrico Cantino, piccoli, agilissimi ed economicissimi volumetti editi da Mimesis sono un sogno che dopo tanti anni si avvera e sono molto felice di avergli fatto questa intervista!

Grazie ancora per avermi risposto e per il tempo dedicato, e che si possa mangiare un onigiri insieme prima o poi!!



Ciao Enrico, ti ho scoperto per caso in libreria e sono rimasta folgorata dai tuoi piccoli saggi, quelli che ogni persona cresciuta a onigiri, anpan e cartoni giapponesi vorrebbe leggere.
Com'è nata l'idea?

In realtà l'idea è venuta ai miei amici, non a me. 

 Mi dicevano: perché non scrivi un libro sui cartoni giapponesi, visto che ne sai un sacco? E io mi sono lasciato convincere. 

All'inizio pensavo – ingenuamente – di poterlo scrivere in soli sei mesi. 

Invece ho impiegato quattro anni. Perché mi sono reso conto di una verità fondamentale: per poter parlare dei cartoni animati giapponesi bisogna conoscere la cultura che li ha prodotti. 

Allora ho iniziato una “immersione folle” nel Sol Levante, documentandomi su sistema scolastico, condizione delle donne, Shintoismo, Buddhismo, Taoismo, Bushidō e chi più ne ha, ne metta.
 Il risultato è stato un corposo saggio sulle tecniche narrative degli anime giapponesi degli anni Settanta-Novanta, suddivisi per argomenti: guerrieri, robottoni, sportivi, eroine e coppie.


Si pensa comunemente che gli anime facciano parte di una sorta di sottocultura e raramente li si include nella “cultura alta” invece tu sei stato pubblicato da Mimesis, editore molto autorevole nel campo della saggistica. È stato difficile per te trovare un editore? Com'è nata la vostra collaborazione?


Trovare un editore è stato più semplice di quanto sperassi. 

Nel 2012 sono andato con un gruppo di amici al Salone del Libro di Torino. Fra gli stand ho notato proprio quello della Mimesis, perché nel loro catalogo erano presenti diverse pubblicazioni riguardanti la cultura giapponese. 

 Dopo il Salone li ho contattati tramite mail, spiegando che avevo scritto questo saggio sulle tecniche narrative dei cartoni animati giapponesi. Nel giro di una settimana ho ricevuto una risposta dal vicedirettore della casa editrice. 

Ci siamo sentiti per telefono e ci siamo accordati in questo senso: avrebbero pubblicato, come esperimento, due capitoli del mio libro (quelli dedicati a robottoni e guerrieri) come fossero volumi a sé stanti (con tutto quel che ne consegue: tagli, adattamenti e quant'altro). L'esperimento è andato bene. E i libri da due sono diventati sei.


Com'è nata la tua passione per gli anime? Ce n'è qualcuno che ti ha segnato particolarmente?

Qui è necessaria una premessa. Io sono del 1965. Di conseguenza ho 53 anni. Ho sempre amato i cartoni animati. Guardavo quelli trasmessi dalla Rai, quando la Rai aveva soltanto due canali (quindi andiamo indietro e mica poco). 

Gli anime mi hanno colpito fin dal loro primo apparire sugli schermi televisivi nostrani, perché completamente diversi da quelli – cecoslovacchi, ungheresi, americani, francesi, ecc. – cui ero abituato fino a quel momento. Hanno letteralmente ammaliato la mia fantasia, che non ha più potuto farne a meno. 

Diciamo che in generale qualche cambiamento su di me lo hanno operato, così come i libri che ho letto in tutti questi anni.


Quali sono i tuoi anime preferiti in assoluto e cosa ti sentiresti di consigliare al momento?


Ah, gli anime che preferisco in assoluto sono quelli robotici (con Goldrake – Grendizer per i puristi – in testa), quelli fantascientifici (Capitan Harlock su tutti) e quelli guerrieri (Polymar, Kyashan, i Cavalieri dello Zodiaco…). 

Però ho guardato veramente di tutto. Anche serie francamente imbarazzanti, come quella dedicata a Ippotommaso… 

I cartoni animati odierni mi piacciono meno: li trovo molto cerebrali e contorti. E poi durano un'eternità. Io consiglierei, soprattutto ai ragazzi, gli anime che andavano per la maggiore quando ero ragazzo (li stanno anche ripubblicando tutti in DVD). 

Disegni e animazioni non erano impeccabili, ma le storie ti prendevano tantissimo. Per lo meno, prendevano me.


Potresti dire qualche parola su ognuno dei volumetti che hai pubblicato?


Troppe sarebbero le cose da dire, ma proverò a essere acrilico.

 Quello cui tengo di più è Da Goldrake a Supercar Gattiger
 Ed è anche quello che mi ha fatto soffrire maggiormente. Perché il capitolo da cui è tratto conta più di sessanta cartelle in Word. Quindi sono stato costretto a operare molte dolorosissime esclusioni. Però ho salvato almeno due robottoni (i più importanti e conosciuti) per ciascuna categoria. 

 Da Kenshiro a Sasuke ha comportato esclusioni meno dolorose, ma anche lui mi ha fatto sanguinare un po' il cuore. 

 Da Mimì Ayuhara a Oliver Hutton è circoscritto agli sport di gruppo, perché mi ha permesso di sviluppare il concetto di squadra, fondamentale nelle serie robotiche e non solo. 

 Da Lamù a Kiss me Licia è il più breve, credo. Perché in effetti le serie sentimentali sono quelle che ho seguito meno in assoluto. 

Da Heidi e Lady Oscar riguarda gli shojo, cioè gli anime che hanno per protagonisti delle fanciulle. Dall'Incantevole Creamy a Pollon è incentrato su una particolare categoria di shojo: i majokko. In sostanza, si parla delle maghette (o streghette).

Vi ho incluso Pollon, anche se è un'aspirante dea, perché dall'episodio numero 23 la Dea delle Dee dona alla protagonista il Miracolo Bonbon, un fermaglio a forma di farfalla che le conferisce poteri magici. Li amo tutti, comunque. Perché li ho fatti io. E contengono una parte di me.

Hai in progetto di scriverne altri?

Per adesso, no. Più avanti, chissà.


Nei tuoi libri parli anche dell'aspetto sociale raccontato in alcuni manga, come i rapporti di coppia che, come ben sappiamo, sono lontani dalle regole occidentali e un po' frustranti ai nostri occhi, quando proprio non assurdi. 

Pensi che gli anime abbiano influito anche dal punto di vista sociale sui rapporti delle persone che sono cresciute guardandoli assiduamente?


 Guarda, io non sono un sociologo e non mi intendo di dinamiche sociali. 

 Però posso dirti cosa ho notato. Fino all'avvento degli anime, noi non sapevamo praticamente nulla del Giappone.
 Ci hanno permesso di accostarci a una cultura profondamente diversa dalla nostra.

 A me sembra, comunque, che abbiano esercitato una certa influenza sul cinema e sull'animazione occidentali, i quali ne hanno mutuato tecniche registiche (inquadrature, effetti speciali…) e narrative (sottotrame, colpi di scena…). E poi parliamoci chiaro: senza le streghette nipponiche, la saga italiana delle Winx non sarebbe mai nata…


Gli anime giapponesi restituiscono protagoniste femminili di tutto rispetto, Lady Oscar su tutte, impavide, indipendenti, piene d'inventiva.
 Per contro, la società giapponese rimane molto conservatrice per quel che riguarda i ruoli di genere. 
Come spieghi questa dicotomia?

È vero: le eroine degli anime sono ben diverse dalle donne giapponesi, che ci sono state dipinte come remissive e sottomesse (anche se economia e casa le mandano avanti loro). Io posso solo formulare due ipotesi. 

 La prima è che molti shojo sono ambientati in Occidente. Quindi ha abbastanza senso che le loro protagoniste abbiano caratteristiche occidentali. La seconda è che forse, gli shojo, essendo ideati da donne, potrebbero anche esprimere l'aspirazione delle donne giapponesi a una maggiore indipendenza e intraprendenza. Ma le mie, ripeto, sono solo ipotesi. E come tali, confutabilissime.

Grazie mille a Enrico!!


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