Durante la manciata di giorni di ferie che ho passato a casa, la mia migliore amica mi ha indotto a compiere un gesto da migliore amica: accompagnarla a vedere l'ultimo film di Muccino, "Gli anni più belli".
Io non è che abbia qualcosa contro Muccino, è che non mi piacciono i film dove la gente urla e ha reazioni scomposte, come se si fosse tutti incapaci di avere reazioni normali. Inoltre, non mi sovviene un solo personaggio femminile mucciniano che non faccia accapponare la pelle per i più svariati motivi.
In questo caso però, a spingermi a compiere questa recensione, non solo mucciniana, ma cinematografica e non libresca, è il fatto che il film sia sostanzialmente un remake di uno dei miei film preferiti: "C'eravamo tanto amati" di Ettore Scola.
Perché, chiariamo, non è che ci siano delle citazioni o degli omaggi: il film ha la stessa identica trama, pedissequamente, e cerca persino di fare lo stesso gioco politico allegorico spostato 40 anni in avanti nella storia d'Italia.
Solo che siccome Muccino non è Scola e non ha né la stessa raffinatezza (guardi i suoi film, per carità girati bene, ma hanno la finezza di un salumiere che ti chiede "Signò sò dù etti, lascio?") né la stessa consapevolezza politica da far sì che il remake gli riesca.
Faccio un recap per i disgraziati che non abbiano ancora mai visto il film di Scola.
In "C'eravamo tanto amati", tre ragazzi diventano amici durante la guerra partigiana.
Antonio (Nino Manfredi) è un popolano romano che fa il portantino, sempre alle prese con qualche partito di sinistra dello 0,1%,
Gianni (Vittorio Gassman) è un lombardo che dopo la guerra si laurea in giurisprudenza e viene a Roma con l'intento di mettere a frutto i suoi studi al servizio dei più deboli e, infine,
Nicola (Stefano Satta Flores) è un professore campano che si ritrova a vivere nella capitale dopo aver perso il lavoro ed essere stato lasciato dalla moglie a causa della sua incapacità di leccare il sedere al potente di turno.
I tre si sono persi di vista, ma Antonio e Gianni si rincontrano per caso e Antonio gli presenta la sua fidanzata, Luciana (Stefania Sandrelli): una giovane aspirante attrice friulana.
Luciana lascia Antonio per Gianni il quale sta per incontrare un palazzinaro corrotto che gli cambierà la vita. Non solo ne diventerà l'avvocato, abbandonando i suoi buoni propositi di gioventù, ma ne sposerà la figlia Elide, una ragazza bella e semplice, un po' ignorante che, col passare degli anni, per compiacere il marito, finirà per diventare una tormentata signora borghese presa dai drammi antonionani dell'incomunicabilità.
Nel frattempo i tre amici continueranno a vedersi. Luciana apparirà e scomparirà dalle loro vite a tratti, incontrata per caso nel bel mezzo della scena di un film in corso nella Roma degli anni d'oro del cinema italiano ("La dolce vita" di Fellini) e, infine, sola con un figlio, disillusa, senza più quella ingenuità e quella luce di speranza negli occhi che l'aveva sempre accompagnata.
Critica vuole che il film possa leggersi anche come allegoria della politica italiana.
Luciana sarebbe l'Italia e i tre uomini che le girano più o meno attorno rappresentano le diverse anime politiche del dopoguerra: Antonio è il Pci, volitivo, ma duro e goffo, incapace di compromessi, Gianni rappresenta la borghesia italiana post bellica, partita con le migliori premesse e finita a flirtare con ciò che aveva sempre combattuto e, infine, Nicola rappresenta gli intellettuali incapaci di imprimere una vera direzione al paese, ripiegati su loro stessi e persi in cervellotici ragionamenti.
Si capisce bene che cercare di affrontare un mostro sacro del genere è impegnativo e, voglio immaginare che Muccino abbia girato il film senza dire apertamente fosse un remake nella speranza di sfuggire al confronto.
Effettivamente, visto il risultato, le sue eventuali paure potrebbero essere comprensibili, ma ci sono, secondo me, due ragioni specifiche per cui questo film, che avendo una trama collaudata non è un brutto film e mantiene una sua coerenza, non è all'altezza dell'antenato.
Motivo 1: Non puoi fare un film politico se non hai una coscienza politica.
Io non idea se Muccino una coscienza politica ce l'abbia, se ce l'ha la tiene nascosta e comunque non è il motore delle sue opere.
Si nota che nel film ha cercato di mondare la storia di questi tre amici che si incontrano e scontrano con una quarta amica/amante nel mezzo, da eccessivi significati politici buttandola sul significato dell'amicizia.
Il problema è che a toglierli del tutto, la trama manca di forza e anche di significato, così, per mantenere una coerenza di fondo, si è trovato giocoforza ad inserirli in modo abbastanza randomico.
Anche in questo caso i protagonisti sono tre: Paolo (Kim Rossi Stuart) professore di lettere sfigatello, in balia di una madre rimasta invalida causa ischemia, e che per la primissima parte del film è un liceale appassionato di uccelli (il che lo vorrebbe prof di scienze ma poi i prof di scienze non possono farti i pipponi morali sulla vita perché i pipponi morali si fanno solo mentre si legge Leopardi);
Giulio (un Favino che qui recita un po' meh) è il clone del personaggio di Gassman, ma senza che nulla sostenga il suo giovanile anelito morale (il Gianni di Gassman sognava di ricostruire un'Italia nuova dopo la guerra, qua semplicemente Favino scappa da un padre meccanico ignorante e truffaldino) togliendo quindi tensione drammatica al personaggio;
Riccardo (Santamaria) che stranamente parrebbe far guadagnare senso e umanità a quel Nicola che dei tre era il personaggio più bistrattato da Scola (peccato che il grande dramma della sua vita sia assolutamente bidimensionale: una moglie pazza senza senso che lo pianta dopo due anni di matrimonio portando via il figlio).
In tutto ciò il ruolo della Sandrelli è affidato a Micaela Ramazzotti nel suo sempre identico ruolo di ninfomane ingenua che sospira molto come se avesse un problema ai polmoni.
Si evince, qui e lì, che Muccino avrebbe cercato di dare alla storia la stessa interpretazione allegorica di Scola: la Ramazzotti, ingenua e pronta a donarsi a tutti, è l'Italia; K
im Rossi Stuart il tristanzuolo professore ligio al dovere, dall'aria malaticcia, che fa sempre la cosa giusta, ma che fondamentalmente è uno sfigato anche se fa i sermoni giusti e condivisibili agli studenti
è il Pd;
Favino è quell'area di centro-destra che aspira al benessere e alla rivalsa economica e sociale che ti fanno passare sopra chiunque, morale personale compresa, salvo trovarti a cinquant'anni che vorresti tornare a quando una morale ce l'avevi (ma intanto hai magnato e magnare ti è piaciuto);
Santamaria è (neanche velatamente visto che a un certo punto si candida pure) il Movimento Cinque Stelle: confuso, sconfitto dagli eventi, pieno di rabbia, ma che non sa dove mettere le mani.
Posso dirvelo, involontariamente, anche attraverso una lettura semplicistica e tagliata con l'accetta, Muccino mostra l'abisso tra la politica di massa del dopoguerra e quella specie di avanspettacolo confuso e incomprensibile attuale.
"C'eravamo tanto amati" era un film struggente, commovente, cinico, nostalgico, verissimo, tutto quello che la società italiana non è più da moltissimo tempo.
Detta così sembra che il film possa pure filare.
Il problema è che mentre Scola riusciva a limare tutto in modo poetico, qua sembra di stare al banco del pesce.
Come in ogni film mucciniano la gente strilla, corre, ansima, litiga che vorresti menarli te per primo, fa scene madri che Mario Merola chi, e qualsiasi tentativo di tensione emotiva reso dai soli sguardi o da qualche battuta sottile è a dir poco inesistente.
Forse, e dico forse, questa rivisitazione priva di poesia, avrebbe potuto funzionare un po' meglio se non arrivassimo al problema 2.
Motivo 2: Le donne.
Muccino regista ha un qualche problema con i personaggi femminili.
Innanzitutto sembra, in tutti i suoi film, che le donne non siano persone. Sono donne.
Da questo ne consegue che non hanno mai una personalità bensì caratteristiche tipiche del loro sesso (ovviamente secondo Muccino e svariati altri uomini): isteriche, volubili, possessive, manipolatrici, prive di empatia, profittatrici, traditrici.
In questo film ci sono numero tre donne: Micaela Ramazzotti, Emma Marrone e Nicoletta Romanoff.
Tutte incarnano un tipo di donna con cui nessun uomo vorrebbe mai avere a che fare.
Micaela Ramazzotti, che in teoria sarebbe una co-protagonista, ha la profondità di una pozzanghera. Praticamente fa il suo solito ruolo: l'ingenua ninfomane di cui tutti si approfittano, ma che in fondo non è che faccia molto perché ciò non avvenga. Punto. Non c'è un'evoluzione del personaggio, una profondità, una motivazione, una poesia.
Grazie a dio la Ramazzotti è bella e ormai siamo abituati a sapere che fa l'ingenuotta sexy di buoncuore e quello è il suo ruolo, quindi il personaggio è Micaela Ramazzotti nei film di Virzì.
Emma Marrone invece meriterebbe la coppa Volpi per aver saputo infondere una vaghissima personalità a un personaggio che sembra uscito dall'incubo peggiore di un uomo: una donna che sposi e che dopo due anni ti accusa di non portare la pagnotta a casa perché sei precario (ignoto perché lei non lavori, cioè in "C'eravamo tanto amati" erano gli anni '50, negli anni '90 non è che la cosa sia plausibilissima) e porta via il figlio, ti mette in ginocchio col mantenimento e si comporta da psicopatica per i vent'anni consecutivi.
I motivi di tale odio? Ignoti. Uno ha una moglie per quattro anni (quindi neanche a dire un tempo abbastanza lungo per dire che la routine ha consumato l'amore) e da un momento all'altro questa va via di casa senza nessun preavviso. Armi, bagagli, manco denuncia per abbandono del tetto coniugale. Una pazza.
Nicoletta Romanoff invece fa lei stessa: la figlia altolocata di un uomo di potere.
Anche qui. La Elide di "C'eravamo tanto amati" diventa una moglie sì estranea al marito, ma col passare degli anni, col mutare dei tempi, e le viene anche dedicata una scena struggente (il fantasma che parla al marito allo scasso, dove viene portata l'auto sulla quale muore).
Qua invece la Romanoff è una sciuretta che veste Gucci e sposa l'avvocato rampante, poi rimane incinta e basta, finito l'amore finito tutto.
Ma perché? Ma cosa succede?
E' ovvio che su tu fai un film in cui le donne vengono rappresentate come delle pazze profittatrici e gli uomini sono dei sognatori sconfitti dalla vita (a causa delle pazze profittatrici), il film perde di profondità.
Non puoi sperare di fare un buon film se le donne parlano con frasi talmente fatte che in confronto "The Lady" sembra Brecht.
Perciò ecco mi sentirei di dire che film in cui si racconta la collettività (e non il gruppo che è un'altra cosa) non sono pane per i denti di Muccino, manco se non deve sforzarsi eccessivamente di inventare la trama.
La poesia, se uno non ce l'ha, non se la può inventare.