Vorrei anche fare nuovi fumetti sulla preparazione dell'unione civile, speriamo di riuscirci presto.
Anche perché ho tutta una nuova serie di imperdibili avventure da raccontare, una su tutte l'ostinato rifiuto delle sarte dell'atelier di tagliarmi l'abito da sposa alla lunghezza che dico io.
Non si comprende il motivo, ma esse si rifiutano. Perché??
Bene, dopo questa non richiesta confessione (scusate, la ferita è fresca, sono andata a fare la prova stamattina), eccovi un piccole recensioni tra amici di libri vari ed eventuali dei mille che sono in coda da una vita e attendono che abbia di nuovo indietro il mio tempo libero.
Let's go!
LA MIA CICLOTIMIA HA LA CODA ROSSA di Lou Lubie ed. Comicout e LA DIFFERENZA INVISIBILE di Mademoiselle Caroline e Julie Dachez ed. LSWR:
Si sa che i francesi nutrono una particolare passione per i memoir, ma mi ha incuriosito questa nuova tendenza del racconto personale della malattia nelle graphic.
Qualche mese fa ho recensito il libro di Adrien Toulmè "Non è te che aspettavo" sulla nascita della sua seconda figlia affetta da sindrome di down, e nell'arco di poco mi è poi capitato di leggere due graphic novel che hanno moltissimo in comune: "La mia ciclotimia ha la coda rossa" di Lou Lubie e "La differenza invisibile", scritto da Julie Dachez e disegnato da mademoiselle Caroline.
Le storie sono affrontate in un modo assai simile: entrambe le autrici soffrono di uno specifico disturbo poco conosciuto e impossibile da cogliere se non esplicitamente esternato.
Per capirci, sia Lou che Julie devono dirti "Guarda soffro di questa cosa" altrimenti ai nostri occhi sono persone solo un po' strane.
Ed è sulla percezione dell'altro che le due, in realtà, prendono strade diverse.
Lou Lubie è una fumettista e scrittrice nonché sviluppatrice di videogiochi che soffre di ciclotimia, una sorta di versione soft del disturbo bipolare che lei ipotizza sia stata peggiorata durante l'adolescenza da uno psichiatra poco capace che l'ha imbottita di farmaci (di cui non nega di avere bisogno eh, ma all'epoca le avevano proprio sbagliato diagnosi).
Essendo onnipresente nella sua esistenza, Lou le fa prendere la forma di una piccola volpe, ora piccola, ora grande, ora tenera, ora malvagia, una sorta di daimon sempre accanto a lei.
Lou ci dialoga, ci combatte, riesce ad atterrarla, prova a soffocarla, finisce quasi per soccomberle, ma poi, comprende, deve imparare a conviverci, tentando con alcuni accorgimenti e un po' di farmaci, di mantenerla alla sua naturale grandezza volpacchiottosa: non troppo piccola, non troppo grande.
Julie Dachez soffre invece di una forma lieve di sindrome di Asperger, difficile da diagnosticare e scambiata per semplici fissazioni che lei si rifiuta di superare.
La storia, al contrario di quella di Lou, è raccontata per interposto personaggio: la protagonista fittizia della vicenda è Marguerite, una giovane impiegata che fatica a stare per troppo tempo in luoghi affollati, non sopporta il rumore, non riesce a mentire alle persone, non comprende i doppi sensi o le frasi idiomatiche, non capisce l'ironia ecc.
Diciamo che tutto questo non solo non la rende la persona più popolare della terra, ma la affatica in modo terribile.
Al contrario della prima storia in cui Lou analizza la lotta dentro di sé, Marguerite vive gli altri come una lotta.
Da una parte "l'inferno è dentro di me", dall'altra "l'inferno sono gli altri".
Perciò se è facile empatizzare con Lou, si fa più fatica ad entrare in sintonia con Marguerite e questo, forse, è in parte un merito della graphic.
Gli amici e i conoscenti di Marguerite non sono, se non in rari casi, persone orribili, anzi, si comportano esattamente come faremmo noi (il fidanzato è quasi un santo).
Lo stridio tra questa mancata empatia tra protagonista e lettore paradossalmente riesce a rendere reale e tangibile il divario tra di lei e il resto del mondo.
Anche noi non la capiamo, anche noi pensiamo esageri, anche noi non riusciamo a riconoscere il suo modo (e la sua necessità) di vivere diverso dal comune sentire che ha pieno diritto di esistere senza essere per forza normalizzato.
Anche noi non la capiamo, anche noi pensiamo esageri, anche noi non riusciamo a riconoscere il suo modo (e la sua necessità) di vivere diverso dal comune sentire che ha pieno diritto di esistere senza essere per forza normalizzato.
Due graphic molto interessanti per chi ama l'autobiografia e le storie che si concentrano su specifici vissuti personali.
Non temete, riescono, entrambe ad essere straordinariamente leggere nonostante i temi tosti, senza mai scadere nel banale.
QUEER CITY di Peter Ackroyd ed. SEM:
Avevo molte aspettative su questa storia LGBT della città di Londra.
Pensavo, credevo, che la capitale di un grosso regno, traboccante nobili, dandy, storia, stranezze british, humour e swing, avesse in sé un potenziale rivoluzionario che noialtri, nell'Europa del sud ci sogniamo.
Invece l'autore fa un ritratto sin troppo disincantato della capitale europea più carica d'immaginario (assieme a Parigi) di tutte.
Tutto è così sottotono che pare quasi stia parlando di Brembate di sopra (con tutto il rispetto) e, va bene che la comunità lgbt se l'è sempre vista brutta in ogni dove, ma rimarcare il lato oscuro rispetto a quello luminoso della nostra storia non è che sia il massimo.
Intendiamoci, non bisogna tacere la storia, orribile, di continue pressanti, ossessive persecuzioni che gli omosessuali hanno subito nella storia, ma è un peccato non parlare con altrettanta forza e convinzione di quello che è stato il maggior pregio di questa specifica minoranza: la volontà di splendere a tutti i costi.
Dov'è l'arte? Dov'è l'eccesso fatto per gridare al mondo "ehi, comunque si esiste anche noi!"?
Dove sono le rocambolesche storie di sopravvivenza creativa? Dove la forza della battaglia per rimanere ostinatamente visibili, nonostante tutto, a questo mondo?
Dove sono le rocambolesche storie di sopravvivenza creativa? Dove la forza della battaglia per rimanere ostinatamente visibili, nonostante tutto, a questo mondo?
E' un ritratto ingiustificatamente triste quello che Ackroyd fa di Londra stessa, declassata a città perennemente bigotta e in balia di reali ed ecclesiastici dediti in realtà a sordide sortite (detta così pare quasi una cosa che si poteva rendere in modo accattivante, ma non preoccupatevi, non succede).
Persino gli anni '60 vengono descritti in modo lugubre che sarebbe da dirgli, "Guarda Peter se ti sembrava oppressiva Londra magari un giro dalle parti nostre per farti un'idea di quello che c'era fuori."
Il maggior pregio di questo saggio stranamente bigio e plumbeo, senza nessuna brace a covare sotto la cenere, è lo spazio dato alla storia della comunità lesbica.
Solitamente gli autori, specialmente se gay maschi (bisogna dirlo), evitano accuratamente di parlare dell'altra metà del cielo gay e quando trattano la storia dell'omosessualità si concentrano esclusivamente su quella maschile.
E' vero che, pur condividendo lo stesso destino, le due comunità hanno avuto storie molto diverse, ma è anche vero che, almeno a mio parere, c'è sempre stata, in questa omissione, una buona dose di misoginia.
"Queer city" non si dimentica delle lesbiche e racconta molti episodi, tra i quali i famosi matrimoni "finti" nei quali una delle due, per poter contrarre l'unione, si fingeva un uomo. Erano episodi sporadici, ma non così tanti, visto che ne abbiamo cronache documentate anche in Italia (uscì un saggio, "Storia di Caterina che per - si vestì da uomo" molto interessante in proposito).
Un peccato. Era uno di quei casi in cui da un saggio mi aspettavo, assieme alla storia, uno spirito, invece stranamente, incomprensibilmente soffocato fino al mutismo.