martedì 24 luglio 2018

Piccole recensioni tra amici! Lou Lubie, Mademoiselle Caroline e Julie Danchez per due memoir alla francese e l'incomprensibile lugubre Londra queer di Peter Ackroyd

 Nonostante tutto komplottih per farmi leggere il meno possibile, tengo duro e cerco di farlo in tutti i ritagli possibili.

 Vorrei anche fare nuovi fumetti sulla preparazione dell'unione civile, speriamo di riuscirci presto. 

 Anche perché ho tutta una nuova serie di imperdibili avventure da raccontare, una su tutte l'ostinato rifiuto delle sarte dell'atelier di tagliarmi l'abito da sposa alla lunghezza che dico io.
 Non si comprende il motivo, ma esse si rifiutano. Perché??

 Bene, dopo questa non richiesta confessione (scusate, la ferita è fresca, sono andata a fare la prova stamattina), eccovi un piccole recensioni tra amici di libri vari ed eventuali dei mille che sono in coda da una vita e attendono che abbia di nuovo indietro il mio tempo libero.

 Let's go!


LA MIA CICLOTIMIA HA LA CODA ROSSA di Lou Lubie ed. Comicout e LA DIFFERENZA INVISIBILE di Mademoiselle  Caroline e Julie Dachez ed. LSWR:

 Si sa che i francesi nutrono una particolare passione per i memoir, ma mi ha incuriosito questa nuova tendenza del racconto personale della malattia nelle graphic.

 Qualche mese fa ho recensito il libro di Adrien Toulmè "Non è te che aspettavo" sulla nascita della sua seconda figlia affetta da sindrome di down, e nell'arco di poco mi è poi capitato di leggere due graphic novel che hanno moltissimo in comune: "La mia ciclotimia ha la coda rossa" di Lou Lubie e "La differenza invisibile", scritto da Julie Dachez e disegnato da mademoiselle Caroline.

 Le storie sono affrontate in un modo assai simile: entrambe le autrici soffrono di uno specifico disturbo poco conosciuto e impossibile da cogliere se non esplicitamente esternato.
 Per capirci, sia Lou che Julie  devono dirti "Guarda soffro di questa cosa" altrimenti ai nostri occhi sono persone solo un po' strane.

 Ed è sulla percezione dell'altro che le due, in realtà, prendono strade diverse.

 Lou Lubie è una fumettista e scrittrice nonché sviluppatrice di videogiochi che soffre di ciclotimia, una sorta di versione soft del disturbo bipolare che lei ipotizza sia stata peggiorata durante l'adolescenza da uno psichiatra poco capace che l'ha imbottita di farmaci (di cui non nega di avere bisogno eh, ma all'epoca le avevano proprio sbagliato diagnosi).

 Essendo onnipresente nella sua esistenza, Lou le fa prendere la forma di una piccola volpe, ora piccola, ora grande, ora tenera, ora malvagia, una sorta di daimon sempre accanto a lei.

 Lou ci dialoga, ci combatte, riesce ad atterrarla, prova a soffocarla, finisce quasi per soccomberle, ma poi, comprende, deve imparare a conviverci, tentando con alcuni accorgimenti e un po' di farmaci, di mantenerla alla sua naturale grandezza volpacchiottosa: non troppo piccola, non troppo grande.

Julie Dachez soffre invece di una forma lieve di sindrome di Asperger, difficile da diagnosticare e scambiata per semplici fissazioni che lei si rifiuta di superare.

 La storia, al contrario di quella di Lou, è raccontata per interposto personaggio: la protagonista fittizia della vicenda è Marguerite, una giovane impiegata che fatica a stare per troppo tempo in luoghi affollati, non sopporta il rumore, non riesce a mentire alle persone, non comprende i doppi sensi o le frasi idiomatiche, non capisce l'ironia ecc.

 Diciamo che tutto questo non solo non la rende la persona più popolare della terra, ma la affatica in modo terribile.

 Al contrario della prima storia in cui Lou analizza la lotta dentro di sé, Marguerite vive gli altri come una lotta.

Da una parte "l'inferno è dentro di me", dall'altra "l'inferno sono gli altri".

 Perciò se è facile empatizzare con Lou, si fa più fatica ad entrare in sintonia con Marguerite e questo, forse, è in parte un merito della graphic.
 Gli amici e i conoscenti di Marguerite non sono, se non in rari casi, persone orribili, anzi, si comportano esattamente come faremmo noi (il fidanzato è quasi un santo).

 Lo stridio tra questa mancata empatia tra protagonista e lettore paradossalmente riesce a rendere reale e tangibile il divario tra di lei e il resto del mondo.
 Anche noi non la capiamo, anche noi pensiamo esageri, anche noi non riusciamo a riconoscere il suo modo (e la sua necessità) di vivere diverso dal comune sentire che ha pieno diritto di esistere senza essere per forza normalizzato.

 Due graphic molto interessanti per chi ama l'autobiografia e le storie che si concentrano su specifici vissuti personali.
 Non temete, riescono, entrambe ad essere straordinariamente leggere nonostante i temi tosti, senza mai scadere nel banale.


QUEER CITY di Peter Ackroyd ed. SEM:

 Avevo molte aspettative su questa storia LGBT della città di Londra.

 Pensavo, credevo, che la capitale di un grosso regno, traboccante nobili, dandy, storia, stranezze british, humour e swing, avesse in sé un potenziale rivoluzionario che noialtri, nell'Europa del sud ci sogniamo.

 Invece l'autore fa un ritratto sin troppo disincantato della capitale europea più carica d'immaginario (assieme a Parigi) di tutte.

 Tutto è così sottotono che pare quasi stia parlando di Brembate di sopra (con tutto il rispetto) e, va bene che la comunità lgbt se l'è sempre vista brutta in ogni dove, ma rimarcare il lato oscuro rispetto a quello luminoso della nostra storia non è che sia il massimo.

 Intendiamoci, non bisogna tacere la storia, orribile, di continue pressanti, ossessive persecuzioni che gli omosessuali hanno subito nella storia, ma è un peccato non parlare con altrettanta forza e convinzione di quello che è stato il maggior pregio di questa specifica minoranza: la volontà di splendere a tutti i costi.

 Dov'è l'arte? Dov'è l'eccesso fatto per gridare al mondo "ehi, comunque si esiste anche noi!"?

Dove sono le rocambolesche storie di sopravvivenza creativa? Dove la forza della battaglia per rimanere ostinatamente visibili, nonostante tutto, a questo mondo?

 E' un ritratto ingiustificatamente triste quello che Ackroyd fa di Londra stessa, declassata a città perennemente bigotta e in balia di reali ed ecclesiastici dediti in realtà a sordide sortite (detta così pare quasi una cosa che si poteva rendere in modo accattivante, ma non preoccupatevi, non succede).

 Persino gli anni '60 vengono descritti in modo lugubre che sarebbe da dirgli, "Guarda Peter se ti sembrava oppressiva Londra magari un giro dalle parti nostre per farti un'idea di quello che c'era fuori."

 Il maggior pregio di questo saggio stranamente bigio e plumbeo, senza nessuna brace a covare sotto la cenere, è lo spazio dato alla storia della comunità lesbica.

 Solitamente gli autori, specialmente se gay maschi (bisogna dirlo), evitano accuratamente di parlare dell'altra metà del cielo gay e quando trattano la storia dell'omosessualità si concentrano esclusivamente su quella maschile.

 E' vero che, pur condividendo lo stesso destino, le due comunità hanno avuto storie molto diverse, ma è anche vero che, almeno a mio parere, c'è sempre stata, in questa omissione, una buona dose di misoginia.

 "Queer city" non si dimentica delle lesbiche e racconta molti episodi, tra i quali i famosi matrimoni "finti" nei quali una delle due, per poter contrarre l'unione, si fingeva un uomo. Erano episodi sporadici, ma non così tanti, visto che ne abbiamo cronache documentate anche in Italia (uscì un saggio, "Storia di Caterina che per - si vestì da uomo" molto interessante in proposito).

 Un peccato. Era uno di quei casi in cui da un saggio mi aspettavo, assieme alla storia, uno spirito, invece stranamente, incomprensibilmente soffocato fino al mutismo.

domenica 22 luglio 2018

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ricerche".

Ed ecco a voi una scena che in realtà avviene abbastanza spesso in libreria.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ricerche"!


  Per quanto nel mondo dei telefonini sembri impossibile perdersi figli, nipoti, consorti e congiunti vari, in realtà ciò avviene abbastanza spesso e i librai diventano simpatici inviati di "Chi l'ha visto?", costretti, di tanto in tanto, a ricorrere al mezzo supremo: il vivavoce.

 Armati di microfono si richiamano al punto informazioni pargoli, nonni e via discorrendo (raramente poi sappiamo come va a finire, ma confidiamo nel bene).

venerdì 20 luglio 2018

L'insostenibile minuzia della giallistica giapponese.Da Keigo Higashino a "Tokyo express" siamo noi a tradurre solo i gialli nipponici più noiosi della storia o li scrivono proprio così?

 Chiunque abbia dai 35 ai 25 anni non può non aver mai visto una puntata di detective Conan.

 Oddio, probabilmente non lo ha visto chiunque non seguisse i cartoni animati, ma il punto è che i giapponesi erano riusciti a produrre e rendere interessante anche un fumetto su contortissime indagini condotte da un ragazzetto, ridotto da non ricordo quale magheggio, nel corpo di un bimbo di otto anni.

 A parte l'inquietante rapporto con la sua fidanzata rimasta adulta che dava brividi di orrore a tratti, era anche interessante, tuttavia non lo si seguiva con lo stesso trasporto della signora in giallo.

  Lì, se diventavi uno spettatore assiduo e capivi il meccanismo, riuscivi pian piano a scoprire l'attimo in cui l'assassino si tradiva e potevi smascherarlo.

 In detective Conan questo era impossibile.

 Tale era la minuzia del dettaglio che tradiva l'assassino da rendere non solo impossibile riuscire a scoprire l'assassino, ma anche seguire decentemente l'indagine.

 Ho sempre pensato che questo eccessivo attaccamento ai particolari che umanamente sfuggirebbero anche al più consumato dei detective fosse legato a una certa incapacità del mangaka di intessere una trama con reali colpi di scena.

 E invece.

 Qualche anno fa comprai tutta contenta un giallo di Keigo Higashino, uno dei pochissimi giallisti nipponici tradotti in italiano.

 Si trattava di "L'impeccabile" uno di quei gialli della "camera chiusa" che a quanto sembra piacciono molto ai nipponici.

 La storia raccontava l'omicidio di un uomo di affari trovato morto avvelenato in casa sua. Nessuna traccia di effrazione, nessuna impronta, nessuna traccia in generale.
 Sua moglie, una bella insegnante di cucito patchwork (peraltro ho trovato lo stesso curioso mestiere in un manga, si vede che in Giappone è una cosa diffusa), era a km di distanza al momento del delitto, tuttavia l'ispettore Kusanagi la vede è SA che l'assassina è lei.

 Non è che ha esitazioni oppure ha un vero motivo per sospettare di lei, no, lui lo SA. E passa conseguentemente tutto il libro a cercare la prova che la incastri.

 Una noia discretamente mortale perché le indagini si arrovellano su minuzie che nella realtà sarebbe impossibile notare, un accanimento senza senso che non lascia mai spazio al dubbio e, ricordo, un finale talmente forzato da essere fantascientifico.

 Pensai di aver beccato il libro sbagliato.


Ci riprovai un anno dopo con un altro libro di Keigo Higashino "Il sospettato X" nel quale sempre l'ispettore Kusanagi indaga sulla morte di un uomo violento che minacciava ex moglie (una sorta di entreneuse avvenente) e la figlia adolescente.

 Anche qui. Non c'è nessun ragionevole motivo, nessun indizio, niente di niente per dubitare dell'innocenza delle due donne e invece Kusanagi SA che sono colpevoli e passa un libro intero a perseguitarle in tante e tali forme che più che un giallo sembra un romanzo sullo stalking.

 Pensai fosse un problema di Keigo Higashino e invece mi è poi capitato di leggere un suo particolarissimo romanzo, non giallo, "La seconda vita di Naoko" nel quale, dopo un incidente mortale, la mente della madre finiva per entrare nel corpo della figlia.

 Un romanzo splendido, delicato e con quel pizzico di morboso che solo i giapponesi sanno dare (ma in mano a un occidentale, col senso di colpa epico che ci ritroviamo, un libro del genere sarebbe finito in tragedia ve lo assicuro).

  Come poteva Higashino aver scritto un libro tanto bello e dei gialli tanto pallosi?

 Il dubbio che qualcosa in generale non tornasse nella giallistica giapponese prese definitivamente piede quando decisi di dedicarmi a "L'uomo che voleva uccidermi" di Yoshida Shuichi in cui una ragazza muore dopo un'uscita serale.
 Ho retto un centinaio di pagine prima di arenarmi definitivamente nella noia marasmatica delle minuzie.

Evidentemente sono un essere cocciuto perché, quando è uscito "Tokyo express"  un classico del giallo nipponico, a quanto sembra amatissimo in patria, ho deciso di dargli una possibilità.

 E lì ho capito che quello dei giallisti giapponesi è proprio un perverso modus operandi.

  Nel libro due giovani, un ragazzo e una ragazza, vengono trovati morti su una spiaggia. Visto che, a quanto sembra, in Giappone il suicidio di coppia non è poi così raro, la questione viene subito derubricata come tale e si va oltre.
 Lui, Sayama, è un funzionario coinvolto in uno scandalo di corruzione lei, Otoki, un'entreneuse (un'altra, sì) che è probabilmente la sua amante anche se nessuno ne ha mai saputo niente.

 L'inizio, devo dire, è molto intrigante perché c'è un uomo d'affari che per motivi oscuri chiede a due colleghe della ragazza di cenare con lui per poi pregarle di accompagnarlo alla stazione del treno.
 Le due, un po' stupite, accettano per poi scorgere qualche binario più giù la loro collega Otoki salire in treno con Sayama.

 Ecco, l'inizio parte davvero bene e continua per un po' per poi schiantarsi sulle rive del piattume (anche se comunque di livello estremamente superiore ai soporiferi gialli di Higashino) quando l'investigatore di turno si fissa su un colpevole e va oltre ogni ragionevole incrocio d'indizi per provare la sua intuizione.

 Devo dire che almeno qui una base per sospettare dell'assassino c'è, ma è il contorto incrociare continuamente orari di treni e aerei che a un certo punto rende quasi più interessante una ricerca di offerte per l'alta velocità su Trenitalia.

 Questa attenzione ossessiva dei gialli nipponici per i dettagli che rende la narrazione difficoltosa, piatta e noiosa mi è ulteriormente incomprensibile alla luce del fatto che altri libri "non di genere" presentano invece una sorta d'investigazione all'occidentale.

 Rileggendo dopo anni "The ring" l'horror dal quale venne tratto il celebre film (bello il film, molto più bello e particolare il libro) mi sono resa conto che lì si tratta di un giallo in piena regola. Un giallo all'italiana in salsa giapponese.

 Il giornalista protagonista deve scoprire chi ha fatto il video e perché prima che scadano sette giorni o morirà.
 Conduce quindi un'indagine al cardiopalma che procede effettivamente per indizi e non per dettagli oggettivamente impercettibili e senza che fino all'ultimo ne conosca i risvolti.

 Si apre quindi una domanda a cui forse sapranno rispondermi gli appassionati di narrativa giapponese (che magari hanno anche la fortuna di leggere in lingua originale): è il canone della giallistica giapponese ad essere fissato su regole palloserrime agli occhi di noi occidentali oppure, per perversi motivi, vengono tradotti solo gialli di tal fatta?

 Agli esperti di narrativa giapponese l'ardua sentenza.

"Litania per un lettore lamentoso" sulla rivista Andersen!

 Per la serie incredibol moments (oggi arriva un nuovo post, vero però), ho scoperto con un tre mesi di ritardo che sul numero di Aprile della rivista Andersen c'era una bella recensione di "Litania per un lettore lamentoso"!

Grazie grazissime!

 

domenica 15 luglio 2018

I consigli di lettura per l'estate parte I! Turchia, konbini giapponesi, vite altrove, manga tristissimi e Giorgio Scerbanenco.

 Incredibile, ma vero, all'alba del 15 luglio sto riuscendo a pubblicare la prima infornata di consigli per le vacanze 2018.
Ill. by Cynthia Kittler

 Confido che in realtà andiate quasi tutti in ferie ad Agosto, come usa a Milano, così almeno i miei sforzi avranno un senso.

 Intanto, mentre faccio le ennesime cose matrimoniabili, ieri mi sono imbattuta in una pasciuta bancarella di libri usati al mare e ne ho approfittato per prendere tre libri tra i quali "La collina dei conigli" che, colpevolmente, non avevo mai ancora letto in vita mia.

 Bando alle ciance! Ecco a voi la prima infornata di consigli per le letture estive!


"LA CASA SUL BOSFORO" di PINAR SELEK ed. Fandango:

 Se amate le storie corali e il medio oriente, questo potrebbe essere il romanzo per voi.

  sbagliando tantissimo, ma vivendo secondo i loro incrollabili principi, praticamente come noi non sappiamo più vivere.
In una Turchia a cavallo tra gli anni '80 e la fine dei '90, alcuni ragazzi diventano faticosamente adulti,

 Così Salih, falegname sulle cui spalle pesa il sostentamento della famiglia, per orgoglio rifiuta l'aiuto del proprio maestro e arriva a perdere tutto, anche l'amore della sua Sema che arranca quasi trentenne nel tentativo di diventare farmacista (un serio monito a tutti quelli che "vabbeh non studio ora, ho tempo dopo", no, non sempre c'è tempo dopo).

 Ci sono i colpi di stato, la clandestinità, la giovane Elif che rimane imprigionata nei suoi stessi sogni rivoluzionari senza capire che la vera rivoluzione non la si fa (se non in casi estremissimi) con le armi, ma ogni giorno, combattendo contro la morale comune per essere felici.

 Molti personaggi intrecciano le loro vite in un quartiere povero di Instabul, dove tutti si conoscono e spesso si aiutano, ma da cui tutti vogliono scappare, verso l'Europa, verso l'Armenia, verso il vasto mondo.

 Un bel libro, da leggere sotto un sole nostalgico, che racchiude bene il senso di una bella frase di Rosa Luxemburg che lessi, in una sua raccolta di lettere, anni fa:

 "Allora ero fermamente convinta che la “vita”, la “vera” vita esistesse in qualche posto lontano, laggiù, oltre quei tetti. Da allora continuo ad inseguirla. Ma essa si nasconde sempre da capo dietro altri tetti. Alla fine è stato tutto un gioco crudele con me, e la vita reale è rimasta lì, nel cortile."


"OUR SUMMER HOLIDAY" di Kaori Ozaki ed. Dynit:

La Dynit edizioni sta portando in Italia una serie di volumi autoconclusivi molto molto belli  (I'm waiting for "Blue" di Kiriko Nananan), per gli appassionati di manga il consiglio estivo è il bello, ma assai triste, ve lo dico, "Our summer holiday".

 Due ragazzini di 11 anni fanno amicizia a scuola. Portano entrambi un pesante fardello che non li porta ad essere proprio le persone più socievoli della terra: Natsuru ha perso suo padre per una malattia, mentre Suzumura vive col nonno malato e il fratellino minore perché il padre, pare, si  trova in mare come pescatore.

 A causa di un gattino che Natsuru raccoglie per strada, ma non può tenere a casa e che Suzumura accetta di custodire, i due iniziano a frequentarsi e la solitudine che li avvolge sembra diradarsi leggermente durante l'estate.

 C'è qualcosa però che non torna da subito nel menage familiare di Suzumura e persino Natsuru inizia ad accorgersene, anche se nessuno potrebbe mai immaginare.

  Il finale non posso ovviamente raccontarlo, ma è per condotti lacrimali forti.


"TRADITORI DI TUTTI" di Giorgio Scerbanenco ed. Garzanti e "IL FABBRICANTE DI STORIE" di Cecilia Scerbanenco ed. La Nave di Teseo:


 Scerbanenco è stato un grandissimo giallista morto, purtroppo, all'apice della sua carriera negli anni '60, proprio quando aveva trovato il suo graal personale: il personaggio di Duca Lamberti.


I suoi libri, riletti ora, sono un concentrato di pulp ai nostri occhi politicamente scorrettissimo (e onestamente meno male che certe definizioni di gay, prostitute e stranieri siano diventate ai nostri occhi agghiaccianti), ma pur essendo invecchiato parte del linguaggio, le storie rimangono sorprendentemente belle, vivide e appassionanti.

 Il mio primo consiglio, quindi, è di leggere le sue avventure di Duca Lamberti, medico radiato dopo aver praticato un'eutanasia a una paziente (siamo negli anni '70!!) che si converte in poliziotto grazie a un caro amico del padre.

 Vi consiglio caldamente tutti i quattro libri: "Venere privata", "I milanesi ammazzano al sabato", "I ragazzi del massacro" e "Traditori di tutti", ma proprio "Traditori di tutti" è, a mio parere, un capolavoro assoluto.

 La storia intreccia un delitto contemporaneo a una colpa antica nell'antico diktat delle colpe (ma anche delle vendette) dei padri che ricadono sui figli.

 Tuttavia, ciò che rende questo libro davvero speciale non è tanto la trama, ben combinata, quanto il messaggio: nelle giuste circostanze tutti possiamo tradire tutti.

 Ma soprattutto non tutti abbiamo bisogno delle giuste circostanze: dietro la maggior parte di noi ci sono delle belve pronte a tutto per la sopravvivenza, un tornaconto personale, avidità.

 Un messaggio sempre attuale.

 Come è sempre attuale il messaggio delle colpe che prima o poi si pagano perché i crimini rimasti impuniti non scompaiono, prima o poi esplodono, come una granata che deflagra uccidendo chiunque vi capiti a tiro.

 La biografia di Scerbanenco, "Il fabbricante di storie" scritta dalla figlia Cecilia, si prospetta entusiasmante, se non altro perché è difficile non trarre un bel libro dalla vita che lui ebbe: figlio di un professore ucraino e di una ragazza italiana, nacque a Kiev per poi trasferirsi in fasce a Roma.

 Quando scoppiò la rivoluzione russa (ebbene sì) suo padre fu dato per disperso e la madre rientrò improvvidamente in Ucraina per cercarlo. Appresa la morte, riuscì miracolosamente a fuggire su una nave messa a disposizione dallo stato italiano che fortunosamente non affondò sotto i bombardamenti.

 Visse quindi una giovinezza romana particolarmente povera, per poi trasferirsi a Milano dove partecipò alla resistenza e la storia è ancora lunga.

 Io ho letto la ventina di pagine autobiografiche che scrisse e che si trovano alla fine di una delle storie di Duca Lamberti (perdonatemi, non ricordo quali). Venti pagine folgoranti, in cui mi colpì un dato che sembra essere sparito dalle biografie degli scrittori contemporanei: la consapevolezza non tanto di classe, quanto di alcuni segnanti differenze sociali.

 Scerbanenco, che visse in povertà per buona parte della sua vita, (motivo per il quale si fece poco scrupolo intellettuale a produrre materiale scritto di ogni genere e per un pubblico considerato medio-basso) ebbe sempre chiara la differenza tra chi si trova dalle differenti parti della barricata.

 E la consapevolezza è il primo passo per distruggerla, la barricata.
 Magari la figlia sarà riuscita a restituirci la magia, io ci spero.


"LA RAGAZZA DEL CONVENIENCE STORE"  di Sayaka Murata ed. E/O (e uno Sconsiglio: "LE SORELLE DONGURI" di Banana Yoshimoto":


Anche quest'anno non mi sono fatta mancare il nuovo libro di Banana Yoshimoto. 

 Mentre mi chiedo perché non traducano una raccolta di racconti dal titolo "Occulto" che ormai la nostra perduta autrice giapponese ha scritto anni fa, vengono portati in Italia libri che onestamente avrebbero poco valore anche come racconti.

 "Le sorelle Donguri" parla di due sorelle molto attaccate, vittime di un'allucinante serie di sventure personali che, ad un certo punto, decidono di aprire una sorta di sito internet in stile posta del cuore dove dare conforto alle persone che vivono momenti difficili.

 Lo spunto è anche carino, peccato che la trama svanisca nel niente perdendo qualsiasi sostanza e finendo così, in una nuvola di fumo. 

 Peraltro la cosa assurda è che, volendo, un aggancio per dargli un minimo in consistenza c'era anche (una donna scrive di aver perso il marito proprio mentre una delle sorella Donguri sogna un fidanzatino del liceo morto da poco, bastava raccordare le cose), ma Banana rifiuta anche quello.

 Per noi orfani della Banana Yoshimoto che fu, però, potrebbe esserci un barlume di speranza: ad agosto esce "La ragazza del convenience store".

 I convenience store, konbini, sono una sorta di drogheria aperta h24 molto diffusa in Giappone il cui concetto è: trovare tutto quello che ti potrebbe servire, subito, ovunque.

 Keiko, un'anticonformista in una società rigidissima come quella giapponese, trova lavoro a diciotto anni in uno di questi konbini nella speranza di adattarsi al mondo e smetterla di essere un pesce fuor d'acqua.

 Diciotto anni dopo ancora non ce l'ha fatta, poi incontra Shirara, un nuovo dipendente che viene licenziato quasi subito e lì qualcosa scatta.

 Cosa? Non lo so perché attendo trepidante di leggerlo anche io. Magari abbiamo trovato la nostra Banana Yoshimoto in seconda.

mercoledì 11 luglio 2018

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "What?!".

 Sto preparando una serie di cartoline dalla libreria, summer edition, intanto vi lascio con l'ennesimo momendo genderrrrrr delle richieste in libreria.
 Sta diventando talmente tanto un'ossessione che stanotte ho sognato che stavo preparando una proposta di libri in stile "Dalla parte delle bambine" (lavoro pure nel sonno).
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "What?!"


domenica 8 luglio 2018

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Mash-up".

 Ed ecco a voi, mentre faccio una maratona di "The ring" notturna che posto en passant una nuova esaltante vignetta presa dal grande calderone dei genitori che cercano libri per le vacanze dei propri pargoli.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Mash-up"!


martedì 3 luglio 2018

"L'abominevole ricerca delle fedi"! Un fumetto matrimoniale a base di oscillazioni dell'oro, carrozze, Napoli e fusilli.

Finalmente, dopo un sacco sacchissimo di tempo, riesco a postare il nuovo fumetto sull'unione civile.
 Delle millanta cose che stanno accadendo/sto organizzando, ha infine avuto la precedenza il fumetto sulle fedi nuziali!
 Che c'avrò mai da dire in proposito chi lo sa, direte voi. Eh, ce n'è ce n'è.

 "L'abominevole ricerca delle fedi", un fumetto tutto d'oro!










domenica 1 luglio 2018

Basta un po' d'impegno e il romanzo va su. L'occasione sprecata di "Orrore" di Pietro Grossi tra illustri predecessori, aspettative tradite, vita nei boschi e la trama che certe volte serve eccome.

 Come in tutti i posti di provincia, circondati da una certa boschività, anche nel mio paese si rincorrevano leggende sulla presunta presenza di sette e riti satanici.

Le rovine di Canale Monterano appaiono anche ne "Il marchese
del Grillo" che, forse non tutti sanno che era duca di Bracciano
Nulla di mai comprovato , non pensate alle bestie di Satana che stavano mille e passa di km a nord, ma avrò sentito decine di volte terribili storie di gatti che svanivano, case nelle quali i fratelli di Tizio, Caio e Sempronio (mai Tizio, Caio e Sempronio in persona) si erano introdotti furtivamente trovandovi scritte sui muri, gatti immolati e altre amenità.


 Del resto i luoghi suggestivi dove ambientare fantasticherie horror (lo stesso Dario Argento ha abitato per anni in una villa in quel di Cerveteri) non è che manchino: dalla chiesa scoperchiata in cima a una collina in un parco naturale con tanto di albero al centro, ai boschi fitti, passando per le terme abbandonate.

 Probabilmente non esiste paese di provincia, boschivo o meno, che non abbia la sua dose di oscure dicerie: fatti di cronaca del passato, cugini di cugini che asserivano di aver visto fantasmi, case abbandonate, mostri, maniaci e chissà che altro, senza che però ci fosse uno straccio di prova o, almeno, il cugino del cugino in persona a confermartelo.

 Un esperto d'antropologia forse saprebbe dirci esattamente il nome di questo fenomeno che, nonostante i secoli e i cambiamenti, perdura pervicace in vari topoi, tra i quali l'immancabile casa infestata.

 Una buona fetta di chi ha frequentato il liceo è incappata fatalmente nella famosa versione di Plinio il Giovane sulla casa stregata, una sorta di insuperato archetipo copiato a oltranza per i millenni successivi.

 Plinio racconta di come filosofo Atenodoro fosse capitato ad Atene e si fosse insospettito per il prezzo un po' troppo modico di una certa casa. Facendo le dovute ricerche aveva scoperto che essa era infestata dallo smagrito spirito di un vecchio che si trascinava lamentoso in catene.

 Deciso a venire a capo del mistero, affitta la casa e attende che lo spirito si manifesti. Quando accade, si mostra coraggioso e segue il fantasma fino al posto che egli gli indica e sotto il quale, scavando, trova le ossa incatenate dell'uomo.

 Sostanzialmente la trama di infiniti horror.

 All'archetipo della casa stregata ricorre anche Pietro Grossi in "Orrore".

 Un aspirante scrittore, che vive in America assieme alla giovane moglie e al figlioletto di pochi mesi, torna in Italia e rimane affascinato dalla folle storia che il suo migliore amico d'infanzia e la moglie gli raccontano a proposito di una casa.

 Pochi mesi prima, i due avevano scoperto per puro caso una casa disabitata in un bosco, proprio vicino al paesello di campagna dove affittavano una villa per i fine settimana. 

 Dentro quella casa avevano fotografato alcuni strani particolari: il foglio col disegno di un bambino, un bagno perfettamente pulito nella sporcizia generale, circondato da sospette taniche e tutta una serie di elementi fortemente inquietanti tra i quali una maschera di cartapesta.

 L'aspirante scrittore, affascinato dal potenziale della storia (io fossi stata in lui più che una cosa horror avrei paventato qualche losco rifugio per mafiosi latitanti) decide di non ripartire per l'America e di rimanere a indagare. 

 Ci sarebbe da dire una cosa ogni tanto ad alcuni scrittori: se avete una buona idea e una buona scrittura, mettetevi l'anima in pace e prendetevi il tempo necessario per scriverci un romanzo.

 I racconti hanno il loro fascino, ma non è che se una cosa è corta è sempre legittimata a non avere una trama, soprattutto se stiamo parlando di racconti "di genere".
 I migliori racconti horror-sci-fi-fantasy hanno in loro tutto un mondo in miniatura: un'idea fulminante sviluppata bene in cui si sacrifica qualcosa (in genere lo sviluppo del personaggio a discapito del colpo di scena). 

 Un lampeggiante "Che peccato" era apparso nel mio cervello già all'epoca di "Accabadora" della Murgia: una bella intuizione, una storia apparecchiata con personaggi, sviluppi in divenire, dissidi interiori e via discorrendo e pam, appena ingrana muore in una ventina di pagine.

 Tu stai lì e ti chiedi: perché? Per quale arcano motivo è successo?

 Cosa ha impedito alla Murgia di scriverci una bel romanzo stile realismo magico in salsa sarda con annessi e connessi lungo almeno 250 pagine in più? Boh.

 Viene in mente che solo la pigrizia può averla fermata perché un finale così repentino su una storia che stava praticamente nascendo non ha senso alcuno.

 Anche "Orrore" di Pietro Grossi ha lo stesso identico problema.

 I gialli all'italiana sono stati un felicissimo momento della cinematografia italiana, peccato che non si ricordino romanzi all'altezza (forse Scerbanenco si presta).

 Eppure la struttura dei film di Dario Argento, ad esempio, sarebbe perfetta per un libro giallo: è un'indagine nella quale lo stesso investigatore, un perfetto outsider finito in mezzo alla faccenda per puro caso, ad un certo punto rischia di soccombere.

 Il libro di Grossi, sebbene preoccupantemente breve, sembrava poter in qualche modo colmare la lacuna: i presupposti c'erano tutti: l'outsider, la storia strana, forse troppo strana, l'amico di una vita che sembra stranamente sospeso tra la voglia di spingerlo nella casa e il desiderio di farlo scappare, l'ossessione del protagonista per le oscure pieghe del mondo, un paesello che sembra fuori dal tempo,

 Inizia in modo fulminante, finisce in modo inquietante, il problema è che manca tutta la parte al centro.

 La cosa interessante dei gialli all'italiana e, se vogliamo, anche quella più difficile non era tanto l'idea di fondo, quanto l'indagine. 

 I comprimari inquietanti, il passato oscuro che interferisce col presente, quell'elemento, lampante fin dall'inizio che non siamo capaci di vedere (persino Grossi cita questa frase di Argento), false piste, oscuri avvertimenti, un senso di pericolo che precipita protagonista e spettatori/lettori nell'ansia crescente.

 Ecco.

 Grossi questa parte la salta e decide di precipitarci per una cinquantina di pagine (il libro ne conta un centinaio) in una sorta di mistica comunione tra protagonista e il bosco dove cerca di intravedere chiunque possa entrare nella casa.
 La noia.

 L'indagine si arena all'inizio, l'unico altro personaggio è una tizia che serve per sfogare carnali istinti, l'ansia che parte ben congegnata, svanisce nelle soporifere riflessioni di un uomo che ad un certo punto inizia a sentirsi un sasso nel bosco.

 Anche per quello non si comprende bene come il protagonista possa precipitare nel suo abisso interiore.

 Casualmente qualche giorno fa mi è capitato di vedere "Un ragazzo d'oro" di Pupi Avati (il cui capolavoro assoluto per me rimane "La casa dalle finestre che ridono" non le robe melense successive) nel quale il protagonista finiva anch'esso risucchiato da una sua personale ossessione che lo precipitava nella follia.

 In entrambi i casi c'era un evidente forzatura nell'improvvisa instabilità mentale dei protagonisti.

Da "La casa dalle finestre che ridono"
 Cioè, se tu vuoi che uno passi da una vita normale a una nel quale sta fuori come un balcone, devi lavorare seriamente, non basta un'ideuzza buona e qualche para mentale sulle bellezze campestri stile "Into the wild".

 Come si dice a Roma "Volemo er sangue" che alla fine c'è pure, ma talmente veloce, talmente buttato come un sasso in uno stagno che intuisci, qualcosa capisci e rimani ancora più insoddisfatto.

 Ci sono libri che vengono buttati  in caciara perché onestamente lo scrittore non sa bene dove andare a parare, ma stavolta Grossi lo sapeva eccome, ed era anche una buona idea. 
 Allora, perché sprecarla così?
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