Poniamo che ci sia un popolo.
E poniamo che ci sia un altro popolo.
Entrambi i popoli hanno caratteristiche molto simili, ma uno dei due è fisicamente più forte dell'altro. I due popoli sviluppano un rapporto simbiotico senza il quale non riescono a sopravvivere gli uni senza gli altri.
Il popolo più forte però, in ragione della sua forza, decide di estromettere quello più debole dalla gestione del pianeta nel quale tutti vivono: il popolo debole deve sottostare alle decisioni del popolo forte, deve curare la loro prole e deve comportarsi secondo un complesso codice che non è per niente funzionale alle loro vite, ma risponde a una serie di fantasie (generalmente negative o prevaricatrici) e convinzioni radicate che ha il popolo forte.
Tutte fantasie e convinzioni che hanno a che vedere, generalmente, col valore della propria forza che si esprime soprattutto con la capacità di dominare il popolo debole.
Il popolo debole vorrebbe ribellarsi, ma è appunto fisicamente più debole e teme per i propri piccoli, perciò sopporta, fidando nella benevolenza del popolo forte, in verità molto arbitraria.
Non studia, non dirige, non suona, non canta, non crea, non può disporre della propria esistenza e può svolgere solo determinati mestieri.
Se si sente portato per altre mansioni, gli sarà concesso di svolgerle solo in casi eccezionali, quando ne andrà della sopravvivenza dei suoi piccoli e vi sarà un inesplicabile vuoto del potere forte.
Gli anni passano. Le società si evolvono e l'aggressività del popolo forte sembra domata a tratti, (ogni tanto però esplode qualche conflitto tra le regioni in cui i popoli hanno deciso di stanziarsi e che porta a insensate vicendevoli carneficine).
Il popolo debole, sostenuto anche da qualcuno del popolo forte che inizia a provare un certo imbarazzo nel trattare l'altro in modo parassitario, inizia a reclamare dei diritti.
Non è giusto che solo per una debolezza fisica, venga negata loro una vita come il popolo forte!
Hanno uguali diritti sulla terra ed entrambi la abitano dalla notte dei tempi! Inoltre, forse non saranno forti come il popolo forte, ma sono loro a generare i nuovi piccoli dei due popoli, una faccenda non proprio secondaria.
Il popolo forte cerca ogni espediente per impedire al popolo debole di uscire dal proprio stato di minorità, ma diventa sempre più difficile, così, quando diventa impossibile, alcuni di loro iniziano a uccidere chi non riescono più a trattenere in loro possesso.
Altri, usano mezzi diversi. Capiscono che uccidere il popolo debole non è funzionale e comunque non è piacevole, così iniziano una martellante coercizione: convincono il popolo debole che se nella storia sono sempre stati deboli un motivo ci sarà, e quel motivo è che non sono abbastanza.
Certo, sono molto utili, fanno piccoli, hanno una funzione nella società del loro pianeta, ma sono sempre meno del popolo forte. Sono, una sorta di versione depotenziata e come tale deve essere trattata: con più rispetto magari, ma sempre tenendo presente che in nessun caso il popolo debole può arrivare dove è arrivato il popolo forte.
Quando qualcuna di loro riesce, si tenta di nasconderlo. Quando non si può nascondere si ridimensiona tentando di convincere il popolo debole che ci sono state delle facilitazioni speciali e che non è assolutamente un modello da prendere ad esempio.
Chi nasce debole, muore debole.
E comunque non è così bello essere deboli? Non ci sono tante cose meravigliose che ti spettano solo se fai parte del popolo debole?
Tuttavia, si domanda parte del popolo debole, se sono così meravigliose come mai appena qualcuno del popolo forte prova ad avvicinarglisi viene immediatamente deriso ed emarginato dagli altri?
Se siete arrivati fin qui avrete forse capito il senso di questa mia fiaba fantascientifica per adulti (che lo dico è volutamente estremizzata, fantascientificata ecc ecc come espediente per portare alla luce la follia della disparità di genere, uomini vengo in pace).
Ebbene, per mostrare che il popolo debole può fare esattamente le stesse cose del popolo forte, eccovi tre delle donne italiane citate nel libro pubblicato recentemente da Mondadori "Storie per bambine ribelli".
Si tratta di un libro che ha visto la luce grazie al crowfunding e che racconta in breve 100 vite di 100 donne che hanno brillato, sono state innovative, hanno combattuto per emergere in qualsiasi campo. Ci sono politiche, scienziate, artiste, sportive, musiciste, attiviste di tutto il mondo e molte storie non le conoscevo neanche io.
Le tre di seguito non le conoscevo neanche io (avevo sentito parlare della prima forse). E' giusto che il mondo sappia!
ALFONSINA STRADA:
Era il suo cognome da sposata (in prime nozze), ma non si può evitare la facile battuta: certe volte il destino è nel nome.
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Alfonsina Strada |
In un paese dove le sportive donne sono ancora considerate dilettanti e non professioniste, ebbene sì, Alfonsina Strada compì un'impresa iperbolica per i suoi tempi: partecipò al giro d'Italia.
Correva l'anno 1891 e Alfonsina nasceva in quel dell'Emilia (spero di non fare la solita confusione tra Emilia e Romagna perdonatemi) da una famiglia di contadini che ebbe numerosi figli.
Un giorno il padre portò a casa una sorta di bicicletta rottame che però funzionava ancora e tra la bici e Alfonsina fu amore immediato, imperituro e perpetuo.
Appena poteva saliva in bici e partecipava alle competizioni di nascosto dai suoi genitori.
Tenete presente che era un'epoca in cui Lombroso diceva che la bicicletta avrebbe favorito gli omicidi (uno poteva scappare più in fretta, in stile Sante, l'amico bandito di Girardengo) e in cui, soprattutto, veniva considerato sconveniente che le donne si ponessero OMG a cavalcioni di un mezzo di locomozione che rischiava di scoprire le gambe.
Considerate che la povera Annie Kopchovsky, una lettone emigrata negli Stati Uniti a fine '800, nel 1894 aveva percorso l'intero pianeta in bicicletta rispondendo alla sfida di due ricconi americani che scommettevano che una donna non ce l'avrebbe mai fatta.
La poveretta aveva percorso buona parte della tratta con gonnelloni ingombranti e pesanti, prima di passare, nello scandalo generale ai pantaloni.
Comunque,
Alfonsina non era sostenuta dal padre in queste sue aspirazioni, ma fortunatamente, giovanissima,
si sposò con Luigi Strada che oltre al cognome, il giorno delle nozze le dona proprio una bicicletta.
Iniziano quindi duri allenamenti e le prime corse importanti, alle quali riesce a partecipare solo in ragione di buchi nel regolamento: era così imprevedibile che una donna vi prendesse parte che nessuno aveva pensato a vietarlo esplicitamente.
Fu proprio grazie a questa falla nel regolamento che riuscì a iscriversi al Giro d'Italia del 1924.
Riesce a portare a termine quattro tappe, ma alla quarta giunge fuori tempo massimo.
Molti pensano sia finalmente la scusa buona per estrometterla, ma il direttore della Gazzetta dello Sport, Emilio Colombo, decide di permetterle di continuare a correre, anche se non più ufficialmente in gara.
Fu comunque una dei trenta corridori, su sessanta, a completare il giro.
Negli anni successivi, rimarrà vedova e risposerà un altro corridore (con cui gareggerà in Russia!), vedrà negarsi l'accesso ai successivi giri d'Italia e aprirà infine un'officina per bici a Milano.
Morirà a 68 anni, in sella alla sua moto.
Per saperne di più:
- "Il ciclismo nel delitto" di Cesare Lombroso ed. La Vita Felice
- "Il giro del mondo in bicicletta" di Peter Zheutlin ed. Elliot (sulla storia di Annie Kopchovsky)
- "Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada" Ediciclo editore
LELLA LOMBARDI:
Volente o nolente, negli anni ho visto un'ingente quantità di Gran Premi di Formula Uno.
E' l'unico sport per cui mio padre (tifoso del Napoli, ma non particolarmente appassionato di calcio, esclusa la Nazionale), si sveglia alle quattro del mattino per vedere gran premi sparsi per mezzo mondo e per il quale comprò, nella desolazione delle nostre vacanze in Sardegna senza niente, un prototipo di tv portatile (era una sorta di aggeggio lungo una ventina di cm che si portava in giro, stranissimo, non l'ho mai più rivisto).
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Lella Lombardi |
Perciò, niet, alla fine a furia di guardarla per anni, se mi capita, lo faccio anche io senza particolare noia.
Mi ha molto stupito scoprire che non esiste divieto per le donne di correre con i colleghi maschi (pensavo esistessero due campionati separati) e che anzi, è rimasta nella storia una pilota italiana: Lella Lombardi.
Maria Grazia Lombardi detta Lella, era una giovane piemontese che, nata nel 1941, che a 18 anni già trasportava le carni che il padre macellaio inviava ai negozi.
Partecipò a numerosissime gare in diverse classi, compiendo una lunga gavetta, ma rimane nella storia per un anno fatidico: 1975.
Quell'anno si qualificò per ben 10 volte ad altrettante gare e soprattutto, nel drammatico giro di Barcellona, al circuito del Montjuich (che non venne poi più utilizzato) fu la prima e unica donna della storia della Formula uno ad andare a punti.
Era un circuito pericoloso che non garantiva le adeguate misure di sicurezza, molti piloti volevano disertare, ma the show must go on, così il giorno della gara solo alcuni si convinsero a farlo davvero.
Poi al venticinquesimo giro, il pilota Rolf Stommelen uscì di pista uccidendo quattro spettatori e ferendone molti altri.
Il giro fu fermato e si decise di dare i punti dimezzati a seconda della posizione al momento dello stop.
Lella Lombardi era sesta, le sarebbe spettato un punto, gliene diedero mezzo.
Quel mezzo punto rimane l'unico mai conquistato da una donna in Formula uno.
Dopo di lei, solo altre tre donne riuscirono nell'impresa di correre nella classe maggiore, l'ultima fu Giovanna Amati nel 1992, lo stesso anno in cui morì Lella Lombardi.
Purtroppo non esiste nessun libro specificatamente dedicato a lei, ma la sua storia è raccontata in "Più brave per forza" di Cristina Falco ed. SEB27.
CLAUDIA RUGGERINI:
E' particolarmente bello che nel libro venga citata la figura di Claudia Ruggerini.
Lo è perché fu una partigiana e perché le partigiane c'entrano molto coi festeggiamenti dell'otto marzo.
Ogni anno infatti tocca assistere alla sagra dell'ovvio con gente che si dichiara sconcertata e addirittura offesa dall'esistenza della giornata internazionale delle donne.
Quel pensiero pregnante che è "Non serve a nulla un giorno, si deve lottare per i diritti tutti i giorni dell'anno".
Mi scuserete se uso una non elegantissima forma romana, ma mi viene sempre da dire "Grazie al caxxo" che serve tutto l'anno, ma non è la lotta dei diritti in un giorno solo lo scopo della festa delle donne.
Lo scopo è dire che ci siamo, ricordare e gridare che le disuguaglianze esistono, anche se per molti uomini tutto è già stato superato (molti lo dicono in buona fede, trovando normalissimo che le compagne, per dire, si smazzino oltre a un lavoro full time anche la totale gestione della casa che a loro non tange),
anche se per molte donne è quasi un insulto (un antico adagio femminista dice, a ragionissima, che le donne sono le più grandi custodi del patriarcato).
La festa della donna ha origini politiche nobilissime e persino l
a mimosa fu scelta da Teresa Mattei, donna più giovane della costituente e partigiana, che nel 1946 decise per le prime celebrazioni della festa nel dopoguerra che
sarebbe stato bello che alle donne si regalassero mimose, fiore di campagna, che anche i poveri potevano trovare con facilità, brillante, luminoso e gentile, proprio come le donne (sue parole
dall'intervista rilasciata a la Repubblica anni fa).
Claudia Ruggerini fu la partigiana Marisa.
Suo padre, ferroviere, venne massacrato dai fascisti nel '34, sua madre si impegnò per farla studiare e lei divenne medico. Negli anni '70 si batté perché svanisse un orrore che alcune scuole stanno cercando di ripristinare: le classi differenziali.
Cos'erano? L'idea era stipare tutti i bambini disabili e con difficoltà di apprendimento serie in un'unica classe, poi ci finirono anche i ragazzini che magari venivano dal sud e parlavano solo dialetto o quelli particolarmente indisciplinati o provenienti da situazioni familiari difficili.
Delle classi ghetto sostanzialmente (io le ignoravo finché anni fa non vidi uno sceneggiato Rai che mi piacque molto "Raccontami", penso una delle fiction Rai migliori degli ultimi decenni).
Lei, che si era laureata in medicina ed era diventata neuropsichiatra, si batté strenuamente per l'abolizione.
Durante la guerra aveva partecipato attivamente alla resistenza come staffetta e combattente. Fu tra coloro che il 25 aprile liberò la redazione de Il corriere della sera.
La sua storia è tra quelle raccontate nel libro di Marco Rovelli "Eravamo come voi. Storie di ragazzi che scelsero di resistere" ed. Laterza.