Se ne discute da decenni, ma diciamo che negli ultimi tempi, complici alcuni saggi, tra i quali il dibattito in merito si è fatta più vivo.
Una discussione, stupirà molti, legittima,
visto che basta fare l’esame di Linguistica 1 per sapere che la lingua è viva
ed evolve in relazione alla società, ANCHE ai rapporti di potere nella
società.
Nella lingua italiana, al contrario di altre, non esiste il genere
neutro e, in generale, si ritiene che il maschile comprenda tutto, anche il
femminile.
Te lo spiegano anche alle medie, durante le
ore di grammatica, che se pure c’è una classe di 10 persone, 9 femmine e 1
maschio, saremo tutti compagnI di classe e non compagnE, perché non vale il
peso numerico, ma il peso del potere.
Il maschile è la carta che prende tutti.
Non credete, persino a noi dodicenni la cosa sembrò alquanto sospetta e ci fu
persino una discussione in classe sedata come vengono sedate tante discussioni
tra adulti e minori: è così. Punto.
Ma se un dodicenne può accettare che un
adulto, si suppone laureato, abbia ragione in favore di una maggiore istruzione
e di un ruolo (sempre di potere), è un po’ troppo chiedere che questo avvenga
anche tra persone adulte, e, come si suol dire, studiate.
La lingua è un esercizio di
potere ed è inutile che orde di accaniti difensori della lingua italiana,(che
per correttezza spero perdere il lume della ragione nel tentativo di
comprendere se sia più corretta la forma “famigliare” o “familiare”), fingano
non sia così.
Altrimenti non si spiegherebbero le perpetue crisi di nervi
davanti ad una donna che vuole essere chiamata ministrA e non ministrO, come se
la lingua fosse un monolite che non cambia mai e noi parlassimo esattamente
come Plinio il Giovane (e Plinio il Giovane a sua volta avesse parlato come
Plinio il Vecchio).
Ironizzando, credono loro, dicono
che allora il giornalista dovrebbe chiamarsi giornalisto o il pilota –piloto,
dimostrando in tal modo un’ignoranza dell’evoluzione della lingua che tanto
credono di difendere.
Giornalista e Pilota infatti non hanno desinenza in A in quanto mestieri d’elezione femminile (come può essere per ostetrica, e comunque
non ho mai sentito un ostetrico chiamato al femminile), ma perché non tutte le
parole che finiscono in A determinano il genere femminile (anche se nelle
anagrafi, paradossalmente, grazie a questa logica, stanno sdoganando nomi che valgono per entrambi
i sessi, avendo non tanto conosciuto varie Andrea, ma persino una Enea e alcune
Vania).
Ma non è per dissertare di desinenze che sono
qui, ma per l’affaire Mattia Feltri, il quale, ha scritto qualche giorno fa un articolo su La Stampa in cui,
sostanzialmente, fa quello che fanno molti uomini etero davanti al cambiamento: cerca di ridicolizzarlo per sminuirne la portata.
Parla dell'uso dello schwa citando una fantomatica accademica della Crusca che ne avrebbe scritto su fb, senza però nominarla. Si tratta di Vera Gheno, che non è un'accademica della Crusca, ma una collaboratrice e oltre a vari interessanti libri ha scritto questo bell'articolo per La Falla, in cui ricostruisce tutta la vicenda e parla, seriamente, dell'oggetto del contendere.
Qui potete leggere l'articolo che, chissà perché, Feltri si è sentito in animo di scrivere.
Peraltro lo si vorrebbe rassicurare.
Non fa la figura del sessista perché si propone di argomentare sullo schwa, ma perché in realtà NON vuole argomentare, vuole dileggiarlo e anche fare quel vittimismo un po' insulso nel quale si crogiola chi, vi posso assicurare, la discriminazione non sa manco dove sta di casa.
Quando poi si pensa che la cosa stia andando male, si può star certi che fatalmente andrà peggio.
E' infatti intervenuta l’Accademia della Crusca con una lettera del suo
presidente.
Tu dici, vorrà un attimo dire la sua sulla
questione. Invece no.
Il presidente, assai piccato, ci informa che l’accademica
della Crusca in questione (che rimane innominata anche in questa lettera ed è sempre Vera
Gheno), non è affatto un’accademica della Crusca, ma aveva solo collaborato
con loro.
Ci tiene poi a farci sapere che ama molto La Stampa (giornale della
sua città) e che comunque il suo pensiero è in linea con Feltri e che, in ogni
caso si riserva di “difendere nelle sedi opportune il buon nome
dell’Accademia”, non si sa infangato esattamente in quale modo.
Possiamo divertirci in un esercizio
di comprensione del testo e cercare di capire quante cose sono intrinsecamente errate in
questa lettera:
1) La mancanza del nome della
linguista. Non è un errore, è un esercizio di potere.
Quando tu non ritieni
neanche che una persona sia “degna” di un nome e di un cognome, la stai
automaticamente mettendo su un piano d’inferiorità.
Tra pari ci si confronta,
tra padroni e sudditi no. Il contadino conosce il nome del padrone, il padrone
non conosce il nome del contadino. Nessun generale è mai stato un milite
ignoto. Avere un nome, come ci insegna persino “La storia infinita” è fonte di
potere, si esiste solo in quel momento. Negli altri casi, beh, sei qualcuno di
dimenticabile e trascurabile, anzi, esisti sul serio?
2) Frega qualcosa a noi che al
presidente dell’Accademia della Crusca piaccia La Stampa, giornale della sua
città? No, perché non ce ne frega assolutamente niente dei gusti personali di
una carica accademica. L’unica figura che fa, e non so se è quella che
voleva fare, è farci sapere che Sua Grazia apprezza profondamente il
comportamento del giornalista, ma che insomma, mio caro, verifica meglio le
fonti se no devo darti un simpatico buffetto ammonitore.
3) C’è bisogno di dire che è la
solita roba che riguarda donne e minoranze e che nessuno dei due è donna o
minoranza? Non che si possa avere un’opinione solo in quel caso, ma siamo di
nuovo alla Parrella che strabilia quando il giornalista le dice che parlerà
del Me Too con Augias. Uomini che si dicono solo tra di loro quanto sono bravi.
Applause.
4) L’Accademia della Crusca, si
suppone, dovrebbe esistere per motivi più validi del dirci se Qual è si scriva
con o senza apostrofo. Mi aspetto, da quella che è la più conosciuta
istituzione sullo studio della lingua italiana che non liquidi sdegnosamente un
dibattito che potrà anche pensare marginale, ma che esiste.
Se è giusto sottolineare un errore marchiano di attribuzione di ruoli, non sta all’Accademia della Crusca dire o non dire se alcune rivendicazioni linguistiche siano passibili o meno di studio. Già il fatto che ESISTANO le rende degne di studio, dibattito e attenzione. E non solo, non è neanche all'Accademia della Crusca che va l'immaginario appannaggio di attribuire un ranking di importanza delle questioni linguistiche.
Ma qui torniamo al motivo della mancanza del
nome di Vera Gheno. Se io fingo che qualcuno o qualcosa non esista, la ricaccio
nell’ombra e preservo lo status quo.
Dire che sì, c’è un’esigenza rivendicata
di una lingua più neutra e meno sessista e cercarne le motivazioni sociali e
strutturali vuol dire ammettere che “le cose stanno cambiando” e che QUELLA
COSA esiste.
Personalmente io non credo che una lingua
artificiale possa prendere piede.
Non riesco a immaginare realmente un futuro con libri
colmi di asterischi e schwa, ma ragazzi, davvero basta l’esame di Linguistica 1 o aver fatto grammatica decentemente alle medie per capire che
qualcosa sta cambiando e non in modo artificiale. La lingua prende la forma
della società che la esprime e non esiste accademico che ci possa autorizzare
in tal senso.
Non esiste editoriale che possa ridicolizzare e far svanire un processo in
atto.
Arriverà un momento in cui NATURALMENTE
arriveremo a una risoluzione del neutro, in cui una classe di dieci alunni con
un solo maschio non userà più il maschile per definire l’insieme, e non ci
arriverà perché qualcuno ci autorizzerà dai banchi di qualche centenaria
istituzione, ma perché quell’istituzione dovrà prenderne semplicemente atto.
Nessuna rivoluzione ha bisogno di autorizzazione.