mercoledì 8 marzo 2017

Poniamo che ci sia un popolo. L'otto Marzo ha senso festeggiare? Per me sì. Vite di tre donne italiane che hanno cambiato la storia e che la storia non deve dimenticare.

 Poniamo che ci sia un popolo.
 E poniamo che ci sia un altro popolo.

 Entrambi i popoli hanno caratteristiche molto simili, ma uno dei due è fisicamente più forte dell'altro. I due popoli sviluppano un rapporto simbiotico senza il quale non riescono a sopravvivere gli uni senza gli altri.

 Il popolo più forte però, in ragione della sua forza, decide di estromettere quello più debole dalla gestione del pianeta nel quale tutti vivono: il popolo debole deve sottostare alle decisioni del popolo forte, deve curare la loro prole e deve comportarsi secondo un complesso codice che non è per niente funzionale alle loro vite, ma risponde a una serie di fantasie (generalmente negative o prevaricatrici) e convinzioni radicate che ha il popolo forte.

  Tutte fantasie e convinzioni che hanno a che vedere, generalmente, col valore della propria forza che si esprime soprattutto con la capacità di dominare il popolo debole.

 Il popolo debole vorrebbe ribellarsi, ma è appunto fisicamente più debole e teme per i propri piccoli, perciò sopporta, fidando nella benevolenza del popolo forte, in verità molto arbitraria.

 Non studia, non dirige, non suona, non canta, non crea, non può disporre della propria esistenza e può svolgere solo determinati mestieri.

 Se si sente portato per altre mansioni, gli sarà concesso di svolgerle solo in casi eccezionali, quando ne andrà della sopravvivenza dei suoi piccoli e vi sarà un inesplicabile vuoto del potere forte.

 Gli anni passano. Le società si evolvono e l'aggressività del popolo forte sembra domata a tratti, (ogni tanto però esplode qualche conflitto tra le regioni in cui i popoli hanno deciso di stanziarsi e che porta a insensate vicendevoli carneficine). 

 Il popolo debole, sostenuto anche da qualcuno del popolo forte che inizia a provare un certo imbarazzo nel trattare l'altro in modo parassitario, inizia a reclamare dei diritti.

 Non è giusto che solo per una debolezza fisica, venga negata loro una vita come il popolo forte! 

 Hanno uguali diritti sulla terra ed entrambi la abitano dalla notte dei tempi! Inoltre, forse non saranno forti come il popolo forte, ma sono loro a generare i nuovi piccoli dei due popoli, una faccenda non proprio secondaria.
 Il popolo forte cerca ogni espediente per impedire al popolo debole di uscire dal proprio stato di minorità, ma diventa sempre più difficile, così, quando diventa impossibile, alcuni di loro iniziano a uccidere chi non riescono più a trattenere in loro possesso.

 Altri, usano mezzi diversi. Capiscono che uccidere il popolo debole non è funzionale e comunque non è piacevole, così iniziano una martellante coercizione: convincono il popolo debole che se nella storia sono sempre stati deboli un motivo ci sarà, e quel motivo è che non sono abbastanza.

 Certo, sono molto utili, fanno piccoli, hanno una funzione nella società del loro pianeta, ma sono sempre meno del popolo forte. Sono, una sorta di versione depotenziata e come tale deve essere trattata: con più rispetto magari, ma sempre tenendo presente che in nessun caso il popolo debole può arrivare dove è arrivato il popolo forte.

 Quando qualcuna di loro riesce, si tenta di nasconderlo. Quando non si può nascondere si ridimensiona tentando di convincere il popolo debole che ci sono state delle facilitazioni speciali e che non è assolutamente un modello da prendere ad esempio.

 Chi nasce debole, muore debole.

 E comunque non è così bello essere deboli? Non ci sono tante cose meravigliose che ti spettano solo se fai parte del popolo debole?

 Tuttavia, si domanda parte del popolo debole, se sono così meravigliose come mai appena qualcuno del popolo forte prova ad avvicinarglisi viene immediatamente deriso ed emarginato dagli altri?

Se siete arrivati fin qui avrete forse capito il senso di questa mia fiaba fantascientifica per adulti (che lo dico è volutamente estremizzata, fantascientificata ecc ecc come espediente per portare alla luce la follia della disparità di genere, uomini vengo in pace).

 Ebbene, per mostrare che il popolo debole può fare esattamente le stesse cose del popolo forte, eccovi tre delle donne italiane citate nel libro pubblicato recentemente da Mondadori "Storie per bambine ribelli".

  Si tratta di un libro che ha visto la luce grazie al crowfunding e che racconta in breve 100 vite di 100 donne che hanno brillato, sono state innovative, hanno combattuto per emergere in qualsiasi campo. Ci sono politiche, scienziate, artiste, sportive, musiciste, attiviste di tutto il mondo e molte storie non le conoscevo neanche io.

 Le tre di seguito non le conoscevo neanche io (avevo sentito parlare della prima forse). E' giusto che il mondo sappia!


ALFONSINA STRADA:

 Era il suo cognome da sposata (in prime nozze), ma non si può evitare la facile battuta: certe volte il destino è nel nome.

Alfonsina Strada
 In un paese dove le sportive donne sono ancora considerate dilettanti e non professioniste, ebbene sì, Alfonsina Strada compì un'impresa iperbolica per i suoi tempi: partecipò al giro d'Italia.

 Correva l'anno 1891 e Alfonsina nasceva in quel dell'Emilia (spero di non fare la solita confusione tra Emilia e Romagna perdonatemi) da una famiglia di contadini che ebbe numerosi figli.
 Un giorno il padre portò a casa una sorta di bicicletta rottame che però funzionava ancora e tra la bici e Alfonsina fu amore immediato, imperituro e perpetuo.

 Appena poteva saliva in bici e partecipava alle competizioni di nascosto dai suoi genitori.
 Tenete presente che era un'epoca in cui Lombroso diceva che la bicicletta avrebbe favorito gli omicidi (uno poteva scappare più in fretta, in stile Sante, l'amico bandito di Girardengo) e in cui, soprattutto, veniva considerato sconveniente che le donne si ponessero OMG a cavalcioni di un mezzo di locomozione che rischiava di scoprire le gambe.

 Considerate che la povera Annie Kopchovsky, una lettone emigrata negli Stati Uniti a fine '800, nel 1894 aveva percorso l'intero pianeta in bicicletta rispondendo alla sfida di due ricconi americani che scommettevano che una donna non ce l'avrebbe mai fatta.
 La poveretta aveva percorso buona parte della tratta con gonnelloni ingombranti e pesanti, prima di passare, nello scandalo generale ai pantaloni.

 Comunque, Alfonsina non era sostenuta dal padre in queste sue aspirazioni, ma fortunatamente, giovanissima, si sposò con Luigi Strada che oltre al cognome, il giorno delle nozze le dona proprio una bicicletta.

 Iniziano quindi duri allenamenti e le prime corse importanti, alle quali riesce a partecipare solo in ragione di buchi nel regolamento: era così imprevedibile che una donna vi prendesse parte che nessuno aveva pensato a vietarlo esplicitamente.

 Fu proprio grazie a questa falla nel regolamento che riuscì a iscriversi al Giro d'Italia del 1924. 


Riesce a portare a termine quattro tappe, ma alla quarta giunge fuori tempo massimo.

 Molti pensano sia finalmente la scusa buona per estrometterla, ma il direttore della Gazzetta dello Sport, Emilio Colombo, decide di permetterle di continuare a correre, anche se non più ufficialmente in gara.

 Fu comunque una dei trenta corridori, su sessanta, a completare il giro.

 Negli anni successivi, rimarrà vedova e risposerà un altro corridore (con cui gareggerà in Russia!), vedrà negarsi l'accesso ai successivi giri d'Italia e aprirà infine un'officina per bici a Milano.
 Morirà a 68 anni, in sella alla sua moto.

 Per saperne di più:

-  "Il ciclismo nel delitto" di Cesare Lombroso ed. La Vita Felice
- "Il giro del mondo in bicicletta" di Peter Zheutlin ed. Elliot (sulla storia di Annie Kopchovsky)
- "Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada" Ediciclo editore


LELLA LOMBARDI:

Volente o nolente, negli anni ho visto un'ingente quantità di Gran Premi di Formula Uno.

  E' l'unico sport per cui mio padre (tifoso del Napoli, ma non particolarmente appassionato di calcio, esclusa la Nazionale), si sveglia alle quattro del mattino per vedere gran premi sparsi per mezzo mondo e per il quale comprò, nella desolazione delle nostre vacanze in Sardegna senza niente, un prototipo di tv portatile (era una sorta di aggeggio lungo una ventina di cm che si portava in giro, stranissimo, non l'ho mai più rivisto).

Lella Lombardi
 Perciò, niet, alla fine a furia di guardarla per anni, se mi capita, lo faccio anche io senza particolare noia.

 Mi ha molto stupito scoprire che non esiste divieto per le donne di correre con i colleghi maschi (pensavo esistessero due campionati separati) e che anzi, è rimasta nella storia una pilota italiana: Lella Lombardi.

 Maria Grazia Lombardi detta Lella, era una giovane piemontese che, nata nel 1941, che a 18 anni già trasportava le carni che il padre macellaio inviava ai negozi.

 Partecipò a numerosissime gare in diverse classi, compiendo una lunga gavetta, ma rimane nella storia per un anno fatidico: 1975.

 Quell'anno si qualificò per ben 10 volte ad altrettante gare e soprattutto, nel drammatico giro di Barcellona, al circuito del Montjuich (che non venne poi più utilizzato) fu la prima e unica donna della storia della Formula uno ad andare a punti.

Era un circuito pericoloso che non garantiva le adeguate misure di sicurezza, molti piloti volevano disertare, ma the show must go on, così il giorno della gara solo alcuni si convinsero a farlo davvero.
 Poi al venticinquesimo giro, il pilota Rolf Stommelen uscì di pista uccidendo quattro spettatori e ferendone molti altri.

 Il giro fu fermato e si decise di dare i punti dimezzati a seconda della posizione al momento dello stop.

 Lella Lombardi era sesta, le sarebbe spettato un punto, gliene diedero mezzo. 
 Quel mezzo punto rimane l'unico mai conquistato da una donna in Formula uno. 
 Dopo di lei, solo altre tre donne riuscirono nell'impresa di correre nella classe maggiore, l'ultima fu Giovanna Amati nel 1992, lo stesso anno in cui morì Lella Lombardi.

Purtroppo non esiste nessun libro specificatamente dedicato a lei, ma la sua storia è raccontata in "Più brave per forza" di Cristina Falco ed. SEB27.


CLAUDIA RUGGERINI:

 E' particolarmente bello che nel libro venga citata la figura di Claudia Ruggerini.
 Lo è perché fu una partigiana e perché le partigiane c'entrano molto coi festeggiamenti dell'otto marzo. 

Ogni anno infatti tocca assistere alla sagra dell'ovvio con gente che si dichiara sconcertata e addirittura offesa dall'esistenza della giornata internazionale delle donne.

 Quel pensiero pregnante che è "Non serve a nulla un giorno, si deve lottare per i diritti tutti i giorni dell'anno".

 Mi scuserete se uso una non elegantissima forma romana, ma mi viene sempre da dire "Grazie al caxxo" che serve tutto l'anno, ma non è la lotta dei diritti in un giorno solo lo scopo della festa delle donne.

 Lo scopo è dire che ci siamo, ricordare e gridare che le disuguaglianze esistono, anche se per molti uomini tutto è già stato superato (molti lo dicono in buona fede, trovando normalissimo che le compagne, per dire, si smazzino oltre a un lavoro full time anche la totale gestione della casa che a loro non tange), anche se per molte donne è quasi un insulto (un antico adagio femminista dice, a ragionissima, che le donne sono le più grandi custodi del patriarcato).

 La festa della donna ha origini politiche nobilissime e persino la mimosa fu scelta da Teresa Mattei, donna più giovane della costituente e partigiana, che nel 1946 decise per le prime celebrazioni della festa nel dopoguerra che sarebbe stato bello che alle donne si regalassero mimose, fiore di campagna, che anche i poveri potevano trovare con facilità, brillante, luminoso e gentile, proprio come le donne (sue parole dall'intervista rilasciata a la Repubblica anni fa).

 Claudia Ruggerini fu la partigiana Marisa.

  Suo padre, ferroviere, venne massacrato dai fascisti nel '34, sua madre si impegnò per farla studiare e lei divenne medico. Negli anni '70 si batté perché svanisse un orrore che alcune scuole stanno cercando di ripristinare: le classi differenziali.


Cos'erano? L'idea era stipare tutti i bambini disabili e con difficoltà di apprendimento serie in un'unica classe, poi ci finirono anche i ragazzini che magari venivano dal sud e parlavano solo dialetto o quelli particolarmente indisciplinati o provenienti da situazioni familiari difficili.

 Delle classi ghetto sostanzialmente (io le ignoravo finché anni fa non vidi uno sceneggiato Rai che mi piacque molto "Raccontami", penso una delle fiction Rai migliori degli ultimi decenni).

 Lei, che si era laureata in medicina ed era diventata neuropsichiatra, si batté strenuamente per l'abolizione.

 Durante la guerra aveva partecipato attivamente alla resistenza come staffetta e combattente. Fu tra coloro che il 25 aprile liberò la redazione de Il corriere della sera.

 La sua storia è tra quelle raccontate nel libro di Marco Rovelli "Eravamo come voi. Storie di ragazzi che scelsero di resistere" ed. Laterza.




16 commenti:

  1. La storia, un po' romanzata, di Strada l'avevo letta in una raccolta di racconti su donne che hanno fatto la storia di cui, purtroppo, non ricordo il titolo. Però non sapevo fosse Strada, ora ho collegato le due cose :)

    Per quanto riguarda la festa della donna... io sono becera. A chi mi regala(va, ormai non lo fa più nessuno) la mimosa rispondevo cattiverie come "sì, tutto l'anno mi tratti da zerbino e oggi la mimosa? Tientela!" o "se mi lavi i piatti ogni tanto invece di regalarmi il fiorellino da 3 euro mi fai molto più contenta".
    Intendiamoci, sono favorevolissima alla festa della donna e penso sia una di quelle "tappe intermedie" indispensabili (cose che devono esserci oggi, anche se sono un po' forzate, per migliorare il domani... tipo le quote rosa), ma non tollero quando mi si ignora/sfrutta/manca di rispetto/sfotte/sottovaluta tutto l'anno e poi il giorno scritto sul calendario mi si propina il rametto, magari pure accompagnato da frasine da bacio perugina che inneggiano alla specialità e meravigliosità delle femmine. Mi sale proprio la bile.

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  2. @GB Come "mi lavi"? Se si mangia insieme i piatti (come la casa, ed eventuali figli) sono di entrambi...
    Che bell'articolo! Ho sempre pensato che il popolo "forte" abbia anche geneticamente determinato quali "deboli" dovessero passare i propri geni.
    Per me l'otto marzo ha ancora un senso, specie quello di ieri con manifestazioni in tutto il pianeta.

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    1. Da noi si usa "mi fai qualcosa" nel senso "lo fai a me/per me".
      Ma, volendo, la frase vale anche se i piatti sono miei e ho un compagno che quando cena da me non si offre mai di sistemare la cucina.

      Che poi, scusa, ma se la casa, i piatti, i panni, i pavimenti sono di entrambi... perché li pulisco sempre io? Dopo anni che male ci sarebbe nel considerarli miei, visto che sono io e io soltanto a prendermene cura?

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  3. Dunque: sulla Strada ci han mandato un libro per ragazzi al Giralibro di quest'anno, di Lella Lombardi mi ricordo benissimo anche se mi ero autoconvinta che con gli anni fosse arrivato qualche altro punto, la terza mi mancava, mimosa inclusa.
    Le storie della buonanotte verranno prontamente ordinate per la biblioteca di scuola appena mi alzerò dal mio letto di dolore, e più brave per forza me lo cerco in biblioteca per tirarci su qualche fotocopia.
    Grazie del post ^_^

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  4. Ho trovato molto interessante questa recensione http://gallinevolanti.com/storie-della-buonanotte-per-bambine-ribelli/
    Io, da femminista, condivido l'idea che sia un libro un po' semplicistico e trovo piuttosto riduttivo l'aggettivo "ribelle" applicato a casaccio a donne dal vissuto e dagli ideali molto diversi (qualunque donna che emerge deve per forza essere ribelle? Mi spiegate in cosa sarebbe ribelle Hillary Clinton, che pure stimo?).
    Mi sembra anche curiosa la scelta delle donne selezionate. Fermandoci a quelle italiane, non mi pare molto stimolante che la donna più brava di tutte nella Formula uno abbia totalizzato in tutto mezzo punto, o che l'unica (credo) che abbia mai partecipato al Giro d'Italia abbia sforato i tempi della corsa. Certo, sono figure molto interessanti per mille altre ragioni storiche, ma è palese che nello sport le prestazioni delle donne siano oggettivamente più basse di quelle degli uomini, per semplici ragioni biologiche con cui far pace. Nella categoria "sportive italiane" avrei scelto atlete più titolate (Simeoni? Compagnoni? Bebe Vio?), che naturalmente gareggiano con altre donne.
    Infine: davvero temiamo che, in Italia o in altri Paesi avanzati, le bambine di oggi possano essere poco incoraggiate a sviluppare i propri talenti? Quando il tasso di natalità era più alto si facevano discriminazioni in base al sesso dei figli (ad esempio facendo studiare solo il figlio maschio) ma ora, in una società di figli unici, crediamo davvero che qualcuno voglia penalizzare la propria preziosissima prole in quanto di sesso femminile? Chi compra un libro come questo è un genitore che DI SICURO sceglie giochi pedagogici, investe nel futuro dei figli e vuole il meglio per loro. Quelli che vestono le figlie come barbie e hanno come modello culturale di riferimento i tronisti di uomini e donne sono gli stessi che non entrerebbero in libreria manco per i loro figli maschi.

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    1. Non capisco perché ridurre il valore di una prestazione artistica al suo risultato.
      Alfonsina Strada non poteva essere titolata come Sara Simeoni innanzitutto per un motivo principale: Sara Simeoni gareggiava contro altre donne, Alfonsina contro gli uomini (e il dato di fatto che negli sport di resistenza e forza fisica gli uomini siano avvantaggiati è un'evidenza che non ha senso negare).
      Quello che rende grande Alfonsina Strada è che in un'epoca in cui alle donne, soprattutto poverissime come lei, si chiedeva solo di figliare, lavorare e badare alla casa sfacchinando come muli, lei abbia deciso di diventare una sportiva.
      Invece di andare a messa, di nascosto dal padre che non voleva che gareggiasse (c'erano un numero enorme di pregiudizi sulle donne sportive, da quelli che ti volevano donnaccia perché scoprivi le gambe, come nel suo caso, a quelli che ti volevano povera e cagionevole di salute, oltre al fatto che si credeva che la bici limitasse la fertilità delle donne). Per poter continuare a gareggiare si sposò a 14 anni 14 con un uomo che la sosteneva e che invece di pretendere la moglie silenziosa e figliante, la accompagnava alle gare, le permetteva di gareggiare all'estero e di allenarsi.
      Inoltre, non è che solo lei è finita fuori tempo massimo, molti altri atleti, in un'epoca in cui le bici schianterebbero i migliori ciclisti attuali (e non c'era neanche il tipo di allenamento mirato che c'è ora), avevano subito la stessa sorte.
      Ma Alfonsina invece di demordere continuò la gara e su 90 atleti, fu una dei 30 che giunse al traguardo.
      Una donna, che a inizio secolo gareggiava con gli uomini in uno sport in cui era ritenuto così impossibile che le donne partecipassero da non aver neanche sentito la necessità di vietarlo esplicitamente, era tosta come penso la Simeoni o la Pellegrini o altre atlete ben più titolate di lei si sognano la notte.

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    2. Per quel che riguarda Lella Lombardi, anche quel mezzo punto vale moltissimo. Il motivo è legato alla motivazione per cui io stessa credevo esistessero due campionati di Formula 1 separati per uomini e donne. La Formula 1 non è solo questione di guidare bene, ma comporta anche delle enormi pressioni fisiche, e per pressioni intendo proprio pressioni. Non ricordo quale sia il valore in curva, ma è come se ti arrivasse un macigno addosso mentre giri.
      Ora, è una cosa faticosa per un uomo, immagina per una donna. Quel mezzo punto di Lella Lombardi è perciò una vera impresa. Ci sono guidatori uomini che non lo raggiungono per tutta la vita e che anzi in Formula 1 non ci arrivano mai.
      Questo senza considerare che negli anni '70 una donna che faceva l'autotrasportatrice e gareggiava con le macchine da corsa non era una realtà così diffusa: le cose stavano cambiando, ma c'era ancora l'idea che le brave ragazze queste cose non le facevano, senza contare il pregiudizio che tuttora sussiste sulla bravura nel guidare.
      Francamente mi spiace ma la Compagnanoni è una campionessa, ma a livello di esempio per le ragazzine e le bambine, molto relativo.
      Inoltre, sì, purtroppo le bambine vengono scoraggiate non tanto a sviluppare i propri talenti, quanto alcuni talenti, quelli scientifici o che hanno a che fare col potere. Oppure vengono invitate, dopo una vita a coltivarli, a sacrificarli sull'altare della famiglia perché va bene tutto, ma stare a casa a vedere i propri figli non ha prezzo (io ho 32 anni, sono talmente sottoposta a questa martellante campagna di procreazione e del buttare all'aria anni di studio per fare la brava mamma e moglie che mi viene da strillare). Comunque il libro sta stravendendo, grazie anche a una gigacampagna pubblicitaria, quindi arriverà anche a casa di qualcuno che solitamente non lo comprerebbe mai.

      Anni fa, una lettrice del blog scrisse che suo figlio si era indignato quando lei aveva osato regalare al nipote una maglietta rosa. Era furibonda e si era precipitata in libreria a comprare libri per il nipote (e pure per il figlio) in proposito. Quindi magari pure se i genitori non sono proprio a 100, qualche zia o zio, nonno o nonna il libro lo fa arrivare a destinazione.

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    3. Ma veramente le trentenni sono sottoposte al lavaggio del cervello per accasarsi e figliare? Io ho la tua stessa età, sono lombarda (pugliese di padre)di famiglia normalissima, mi sono sposata quest'anno perché mi andava e MAI NESSUNO mi ha chiesto "quando ti sposi? quando fai un figlio?" né quando ero single, né quando ho iniziato a convivere. Sarò fortunata io ad avere a che fare solo con persone normodotate e a essere cresciuta in una famiglia dove il matrimonio non è mai stato un feticcio da raggiungere.
      In ogni caso se anche questa campagna di lavaggio del cervello esistesse, non pare funzionare molto bene, dato che ci si sposa sempre meno e si fanno sempre meno figli. Comunque dire: "sono talmente sottoposta a questa martellante campagna di procreazione e del buttare all'aria anni di studio per fare la brava mamma e moglie che mi viene da strillare" mi sembra frutto di un grande stereotipo, come se la scelta fosse fra diventare una casalinga anni '50 o una donna in carriera/brillante studiosa/attivista dei diritti civili. Come se una non potesse essere madre e rimanere una persona normale, dotata di cervello, lavoro e ambizioni personali. Come se tutte le madri dovessero diventare sciurette con la fissa della messa in piega e degli omogeneizzati bio. No grazie. Io penso che la sfida femminista di oggi non sia tanto la libertà di non essere madri (che do per raggiunta) ma di esserlo, in una forma moderna e non castrante, e ovviamente senza perdere il posto di lavoro.

      In ultimo, la questione delle donne sportive: non fai che confermare ciò che dico. Strada e Lombardi sono figure importanti non tanto per i loro meriti sportivi, ma per quello che hanno rappresentato in termini di sfida alle convenzioni del loro tempo. Da ciclista amo molto la storia di Alfonsina, che fra l'altro ci ricorda come non tutti gli uomini siano perfidi reazionari (come il padre) ma possano essere ottimi compagni di squadra (i due mariti). Credo che per una bambina di adesso una sportiva attuale possa essere un ottimo modello di riferimento, più di donne del passato, che farebbero fatica a comprendere(prova a spiegare a una bimba perché mai andare in bicicletta possa essere considerato disdicevole, io credo che fortunatamente non riuscirebbe nemmeno a immaginarlo). Atlete come la Pellegrini, e chiunque si alleni con la sua costanza affrontando la tensione di gare importantissime, sono modelli di donne toste (anzi, di persone toste) che sarei felice un ipotetico figlio/a prendesse ad esempio.

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    4. Rispondo solo per portare la mia esperienza per quanto riguarda il discorso figli: ho 36 anni, convivo da 6 col mio compagno col quale stiamo assieme da 12 anni, famiglia che definirei "moderna", viviamo in Veneto, quasi tutte le mie conoscenze hanno figli piccoli tranne qualche single che sono le uniche persone che frequento ormai. Ho due coppie di zii che non hanno voluto avere figli (una coppia sugli 80 anni e l'altra coppia sui 70 anni, tanto per dire, non era così comune alla loro epoca). Ebbene, nonostante questo, soprattutto da parte dei miei genitori e di mia suocera ma anche altri amici e conoscenti: "ma guarda che è tardi ormai, ma quando lo fate un figlio? Ma devo convincere te o lui?"
      io ci penso quasi ogni giorno da almeno una quindicina di anni, e ancora non ho capito se fa per me o per noi. Ma le pressioni sono enormi. A volte mi verrebbe da pensare addirittura: "ma sì lo faccio purché stiano zitti..." (per poi magari pentirmene tutta la vita.)

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    5. Questa cosa del capire se il desiderio di un figlio venga da un moto naturale o dalla pressione sociale penso sia drammaticamente comune a tantissime donne. Io non ho mai avuto questo grande desiderio materno, ma ora che ho 32 anni tutti iniziano a farmi presente che le mie ovaie invecchiano e potrei pentirmene, chi si curerà di me se sarò vecchia, che in fondo sei un po' immatura perché solo un figlio ti rende veramente adulto (se no sei egoista e comunque sei sempre meno donna nella hit parade della femminilità). E' un incubo.

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    6. Avete ragione, distinguere tra "vocazione" e "pressione sociale" è complesso. O forse dovremmo smetterla di pensare che serva una vocazione particolare per fare figli. Altrimenti a procreare rimarranno solo gli invasati che vedono i figli come una missione. Riprodursi è solo una tappa dell'esistenza, non obbligatoria certo, ma piuttosto naturale.

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  5. Nel complesso,e soprattutto negli ultimi anni, le bambine sono incoraggiate ad IGNORARE di avere dei talenti. La famiglia naturalmente può aiutare, ma non è sufficiente. Nel complesso, un opera di compilazione di quel tipo ha un suo perché, purtroppo. Quanto a Hillary Clinton, qualcosa di ribelle deve ben aver avuto perché sono piú di 20 anni che ne leggo e ne sento dire malissimo...

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  6. Confermo che Alfonsina Strada era emiliana :D
    Quanto a capire perché la bicicletta fosse considerata un mezzo scandaloso per il gentil sesso (per molto tempo lo è stato anche l'andare a cavallo nella posizione "a cavalcioni": alle donne era riservata la seduta "all'amazzone", con entrambe le gambe tenute sullo stesso lato dell'animale...), basta leggersi la poesia "In bicicletta" del romagnolissimo Olindo Guerrini, e seppellirsi di risa (o di imbarazzo, secondo il carattere) con tutte le allusioni sessuali pesanti che il mio concittadino ci buttò dentro...

    https://it.wikisource.org/wiki/Rime_di_Argia_Sbolenfi/Libro_secondo_-_Le_decadenti/In_bicicletta

    Riguardo le donne in Formula 1, ho scoperto di recente che la prima in ordine cronologico fu un'altra italiana, Maria Teresa De Filippis, che però non andò mai a punti. E' morta l'anno scorso, a 89 anni (a mio giudizio, somigliava un po' ad Anna Magnani ^^ )

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  7. Quando ero molto piccola, sui sei anni, mi ruppi una gamba cadendo male dalla bici e dovetti stare allettata per un bel po'. Siccome mi annoiavo a nastro, mio nonno ebbe l'idea favolosa di farmi concentrare su un gioco difficile che portasse via tanto tempo: gli scacchi.
    La forzata immobilità mi costrinse ad appassionarmi a questo gioco, e in breve sviluppai per esso un vero e proprio pallino, tanto da proseguire anche dopo la guarigione e arrivare a giocarci ogni sera per un totale di un paio d'ore al giorno. Nel giro di qualche mese sono diventata più brava di mio padre, poi di mio nonno, poi del fratello di mio nonno, poi del parroco, poi dell'unica animatrice dell'Oratorio che sapesse giocare, e infine di un sacco di adulti. In capo a due anni, la scuola mi mandava ai campionati della gioventù scolastica - un gruppo di nerd raccogliticci e in genere delle medie - dove per cinque-sei anni ho sempre preso più o meno a legnate un sacco di gente.
    Nel frattempo il gioco era diventata una vera e propria mania, perché più uno diventa bravo negli scacchi più deve allenarsi, quindi avevo un Maestro (il quasi novantenne fratello del parroco di cui sopra, che grazie al Cielo veniva solo il sabato e quasi gratis), giocavo due o tre ore al giorno con un simulatore (perché non c'era un cane disposto ad allenarsi insieme a me), e mi sciroppavo ore e ore di noiosissimi documentari in VHS sulle più grandi sfide del Campionato del mondo (mio nonno era nel frattempo diventato il mio irriducibile sponsor, profondendo gran parte del suo tempo e dei soldi della sua pensione per pagare tutto 'sta roba). Non so se tu abbia mai conosciuto qualche appassionato di scacchi, ma se da giocare è mentalmente impegnativo, da vedere è una noia mortale.
    Alla fine, dopo aver profuso parte della mia infanzia in questo insolito passatempo, a dodici anni ho piantato lì: primo perché preferivo nuotare, e gli allenamenti di nuoto stavano iniziando a diventare incompatibili con quelli di scacchi, secondo perché volevo avere un'adolescenza normale con i miei amici.
    Non è un discorso tipo "gli scacchi sono un suicidio sociale", perché i miei amici per definizione non erano scemi, quindi avrei anche potuto allenare cavalli da corsa e mi avrebbero voluto bene lo stesso (quanti ragazzi possono dire lo stesso delle loro amicizie a dodici anni?), ma semplicemente non ne potevo più di passare gran parte della mia giornata ad allenarmi insieme a degli adulti.
    Tutto questo discorso per spiegare una cosa che mi faceva, e mi fa tutt'ora arrabbiare degli scacchi: i campionati oltre la fase juniores sono divisi tra maschi e femmine. Cioè, esiste il Campionato del mondo di Scacchi, e il Campionato del Mondo Femminile di Scacchi.
    Se questa divisione può avere un senso per gli sport fisici, mi sono sempre chiesta, perché applicare tale distinzione agli scacchi, che in quanto attività intellettuale NON FANNO alcuna differenza?
    Una scacchista vale meno di uno scacchista?
    Nella mia infanzia ho sconfitto un sacco di coetanei e di uomini adulti: perché all'improvviso dai quindici anni in poi nei tornei ufficiali avrei dovuto smettere di misurarmi con loro anche se il mio indice ELO (una specie di classifica a punti) era più alto?
    Ora saranno - boh! - due anni che non faccio più una partita. Ma la frustrazione e la rabbia che avevo a dodici anni quando mi sono resa conto di questa ingiustizia non è mai passata, e alla fine ha contribuito a far scemare la passione per questo gioco, che tratta esseri intellettualmente uguali e in cui il fisico non ha importanza, come se fossero differenti unicamente sulla base dei cromosomi.
    E questa cosa succede con moltissime altre discipline, ma in nessuna è evidente come negli scacchi. Tutto ciò è veramente frustrante, come lo è che molti dicano che le rivendicazioni dei diritti delle donne non hanno più senso perché ormai c'è la parità (sic!).

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    Risposte
    1. Ho scoperto che i campionati erano separati quando l'hanno scorso quella ragazza russo-americana si rifiutò di partecipare ai campionati mondiali in Iran perché non voleva mettere il velo. E' assurdo

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