giovedì 15 ottobre 2015

Il grande tabù della maternità. Quando porsi delle domande su una questione di fondamentale importanza è considerato scabroso da tutti, (filosofi compresi) con una grande fantascientifica eccezione fatta di stelle, futuro, simbiosi, scelte e punti di vista radicali.

Quando ero bambina continuavano a regalarmi Barbie e per un certo periodo bambolotti.
Riguardando le foto delle Barbie anni '80 sono morta dalle
risate, fatelo anche voi, aiuterà la vostra serata
 Li detestavo cordialmente. Le Barbie perché non capivo il senso del travestire una bambola, e i bambolotti perché, in certo senso mi inquietavano. Perché dovevo accudire una specie di piccolo essere umano che distava da me solo qualche anno d'età? 
 Complice una schiera di amichette totalmente disinteressate a matrimoni e maternità (alcune di loro, eterissime, rimangono disinteressate alla maternità anche ora e con convinzione),  fino alla fine del liceo di bambini non se ne è più parlato, anche perché tra le mie conoscenze  nessuno ha incidentalmente spupato prima del tempo, cosa che mi fa ben pensare dell'educazione sessuale dei genitori del Lazio. Poi ecco arrivare la soglia dei venticinque anni d'età. Se prima tutti scalpitavano per sapere quando ti saresti laureata o avresti trovato lavoro ecco che la domanda vira pericolosamente verso la fertilità delle masse: quand'è che ti sposi/fai un figlio? 
Pedagoghe che mi leggete, ho delle rimembranze sull'importanza
degli oggetti transazionali per i bambini, però direi che cambiare
il pannolino al proprio oggetto transazionale o stirare per esso, sia
un po' eccessivo.
Il trauma di dover spiegare urbi et orbi se e come e quando una vuole o non vuole fare un figlio,
non è niente in confronto all'innominabile pressione sociale che pretende tu ti riproduca. Non è importante o meno avere ragioni che ti spingono a procreare, l'importante è farlo.
   Se non lo fai o dici che insomma, non è che tu sia molto interessata, vieni accusata più o meno subdolamente di: essere egoista, essere immatura, non aver ancora capito il vero significato della vita, non essere empatica (solo quando diventi genitore, per dire, puoi commuoverti davanti ad un bambino che soffre, pare), non puoi capire niente che rientri nella sfera dell'educazione (i preti però a quanto pare possono, pur essendo uomini e celibi), ti devi dare una mossa, morirai sola, non sai cosa ti sei persa.
 La pressione sociale verso una riproduzione a tutti i costi  passa per parenti, amici e insopportabili meme sui social, accompagnati da interviste a starlette che scoprono la meraviglia dell'allattamento al seno ad oltranza (e se tu donna non lo fai non ami tuo figlio o crescerà male) nonostante fino al giorno prima abbiano dimostrato l'integrità morale di una capra morta.
 Perché, bisogna dirlo, un'altra banalità spaventosa sulla maternità è lo spaventoso assioma: i figli sono una forma di riscatto. Io ho sempre ingenuamente pensato che i figli fossero esseri umani, degni di tale nome e con una loro vita e indipendenza che nulla dovrebbero avere a che spartire con quella dei genitori. Lo diceva bene Gibran (scusatemi se lo cito, magari a molti non piacerà, ma a me, alle superiori, colpì molto):

I vostri figli non sono i vostri figli. 
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé. 
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro, 
E benché stiano con voi non vi appartengono, 
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri, 
Perché essi hanno i propri pensieri. 
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime, 
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, 
che voi non potete visitare, neppure in sogno. 
Potete sforzarvi d'essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi. 
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il giorno già trascorso. 
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.


 Io non ho mai avuto francamente un personale desiderio di diventare madre, tuttavia, come immagino tutte le donne, mi pongo delle domande al riguardo. E scopro che non c'è nessuna libertà nel porsele. 
 Qualsiasi ragionamento sul significato di questa scelta viene osteggiato in modo inquietante. Come puoi avere dei dubbi su una cosa così naturale? Diventare madre è SOLO meraviglioso, chi dopo esserlo diventato non è proprio convinta è una madre cattiva da condannare. Punto.
 Se si pensa che in effetti poche cose al mondo sono più potenti quanto la riproduzione umana, trovo assrdo che così poco la filosofia se ne sia occupata (sarà un caso che i filosofi siano quasi tutti uomini) e che una serie di dubbi, domande, questioni etiche e morali vengano soffocate e demandate alla sfera della pura emotività, peggio ancora dell'arbitrio religioso.Come si può semplificare in modo tanto manicheo un dilemma morale tanto forte?
Octavia Butler
 Si dice che solo guardare la stessa cosa da un punto di vista completamente differente, consenta di vederne le infinite contraddizioni. Ebbene, l'unico genere letterario che finora si è adeguatamente posto delle domande morali di un certo livello sulla maternità è, secondo me, la bistrattata fantascienza. Una delle tematiche maggiori di molte autrici riguarda appunto la riproduzione umana e, visto che rientriamo nel campo della fantascienza, ossia nell'arte di immaginare mondi possibili e (in)verosimili, costoro hanno sviscerato finalmente la questione senza il terrore dell'altrui giudizio. 
Ricordo una bellissima storia di Octavia Butler una delle primissime donne a scrivere di fantascienza con successo e una delle pochissime donne di colore (direte, che c'entra, vi dirò che appartenere ad una minoranza non è indifferente, hai sempre la sensazione di vivere in una specie di distopia), si intitolava "Bloodchild" e parlava di una sorta di agghiacciante simbiosi venutasi a creare tra gli esseri umani e una razza dominante simile agli scorpioni, i Tlic. Essi hanno bisogno di usare gli umani come sorta di incubatrici viventi per le loro uova.
 Sembra "Alien", ma non lo è, perché la storia racconta il momento in cui l'aliena chiede il permesso al ragazzO umano prescelto di ospitare il suo uovo. Lui non vorrebbe e teoricamente non avrebbe scelta, perché su quel pianeta sono gli esseri umani la specie dominata e non dominante. L'aliena gli pone la questione come mutuo scambio: benessere e privilegi in cambio di prole. Vi ricorda qualcosa? 
 In questi giorni ho finito di leggere un libro bellissimo, "Memorie di un'astronauta donna" di Naomi Mitchison (in Italia ed. Castelvecchi), una sorta di diario dell'astronauta Mary (nome non casuale) che vive in un futuro dove l'universo è vasto, popolatissimo, assai esplorato e i rapporti tra terrestri e specie aliene non sono bellicosi, ma piuttosto di reciproca comprensione (almeno nella maggior parte dei casi).
 Mary è una "comunicatrice" una sorta di incrocio tra un'interprete e un'antropologa degli alieni: viene mandata sui pianeti dove le difficoltà di interazione con le specie e le razze locali sono maggiori, cosa che accade abbastanza di frequente. La vediamo perciò comprendere il mondo a più dimensioni di una sorta di creatura caleidoscopica incapace di difendersi da giganteschi insetti volanti che non riescono a mettere a fuoco e fermarsi per anni a contatto con dei pasciuti bruchi perseguitati apparentemente senza motivo da gigantesche malvagie farfalle.
 La non intromissione negli affari interni dei singoli pianeti è un punto fermo degli astronauti  anche davanti a genocidi agghiaccianti come quelli operati da una razza intelligente con cui gli umani collaborano fruttuosamente nonostante essi abbiano la tendenza a sventrare intere popolazioni per nutrirsene sadicamente.
 Mentre Mary vaga tra i mondi, in una vita dilatata all'infinito (agli astronauti è concessa una cosa chiamata "sospensione temporale" che impedisce loro di invecchiare) partorisce numerosi figli con padri diversi, una, Viola, addirittura senza un padre (almeno a livello genetico). 
Gli astronauti, esseri che vagano tra i mondi, eternamente giovani, attratti come calamite dallo spazio profondo (una volta provato a viaggiare non se ne può più fare a meno, tanto che una delle pene maggiori per un astronauta che si macchia di qualche reato è la costrizione eterna sulla terra), non concepiscono più famiglie come le immaginiamo noi, hanno ideato modelli diversi, anche in funzione della prole avuta con specie aliene.
 E la maternità viene sviscerata dalla Mitchson nelle sue molteplici forme e nell'incredibile quantità di riflessioni che essa comporta quando è scevra dall'immagina sacra da cui è avvolta, nascosta da stereotipi, leggende, pregiudizi e miti. 

Mary sperimenta diverse modalità di essere madre: si unisce con un marziano (specie umanoide, ermafrodita, più piccola di noi che comunica congiungendosi carnalmente) che "attiva" un suo ovulo senza però dare apporto genetico e dando vita ad una sorta di creatura clone di sua madre, decide di avere due bambini con lo stesso uomo di cui si innamora, rimpiange di non aver compreso il suo desiderio di averne uno con un compagno di viaggio amatissimo (la sua mente è troppo occupata da un recente contatto con una specie complessa). Ci sono le belle farfalle costrette a riprodursi perdendo la loro potenza e morendo tristemente, esperimenti simbiotici dall'esito sconcertante.
 La riproduzione è un punto focale delle opere di molte altre autrici del periodo, dalla Bradley che ne fa una domanda esistenziale delle sue libere amazzoni di Darkover (che dovrebbero avere un figlio solo quando lo desiderano davvero, per poi scoprire che non è per niente facile capirlo) a Ursula LeGuin, creatrice dello straziante mondo de "La mano sinistra delle tenebre", dove alieni ermafroditi acquisiscono il sesso di appartenenza solo durante il rapporto sessuale stesso (ossia il sesso non è predeterminato a priori ed entrambi possono rimanere incinti).
 Sono ovviamente scenari fantascientifici che però forse consentono di guardare il problema nella sua forma più pura, alla radice: cosa ci dice davvero la maternità? Cosa significa per le donne, per gli uomini, per i bambini, per le società? Perché non siamo abbastanza onesti da farla diventare una delle grandi domande? Perché continuiamo ad ignorarla, come se fosse un grande gigantesco tabù?

11 commenti:

  1. Sono una lettrice silenziosa, ma questo è stato fino ad ora il tuo più maturo e interessante articolo e sentivo di dover lasciare una piccola traccia. Una riflessione che tocca corde profonde in ogni donna affrontata con pensiero critico e intelligenza. Interessantissimo, leggerò sicuramente il libro della Mitchinson.

    RispondiElimina
  2. Cara libraia, sai che io ho una percezione quasi opposta alla tua? Sono femmina, etero, lombarda, trentenne, accoppiata e non credo di aver mai subito pressioni per riprodurmi. Di figli se ne parla tranquillamente tra amiche e non conosco "invasate" della maternità, ma solo persone che con una buona dose di dubbi si sono accinte - oppure no - a fare il grande passo.
    Quel che riscontro, invece, a un livello più ampio, è una pressione a NON fare figli perché stravolgono la vita, poi non puoi più lavorare, ti distruggono fisicamente, devastano le tue relazioni interpersonali. Insomma, sembra che fare un bebè sia un'impresa titanica e io - come tanti altri in questo Paese visti i tassi di fecondità - ci chiediamo: ma chi ce lo fa fare?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, ma io volevo andare oltre la domanda: fare o non fare un figlio nell'Italia di oggi? La mia domanda era più: perché facciamo figli? Vorrei proprio si andasse al sodo filosofico.

      Elimina
  3. Il problema è che la maternità non è "come se fosse" un tabù. Lo è proprio, agli occhi di molti e, soprattutto, della società. Ne puoi dir bene, ne puoi dir male (come accenna Marina, la versione "chi te lo fa fare?" è assai diffusa), ma analizzarla, filosofeggiarci, sviscerarla, porsi domande ontologiche in proposito? Quando mai! Non sta mica bene... :P

    RispondiElimina
  4. C'è un testo di Bigalli, docente della statale, intitolato "amazzoni, sante, ninfe" che credo parli di maternità. In maniera meno profonda di quanto abbiano fatto queste autrici di fantascienza. Una cosa però mi pare impossibile, vuoi che nel pensiero femminista e in quello LGBT non ci sia nessuno che abbia affrontato la questione? Tipo Judith Butler? Mi sembra impossibile, però controllo e ti faccio sapere, se vuoi.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, probabilmente il pensiero Lgbt, femminista, post-coloniale ecc. sono quelli che effettivamente se ne sono occupati di più. Però rientriamo sempre nell'ambito dell'interesse particolare, ossia interessa a quella categoria lì, generalmente teorici appartenenti a minoranze (pure le donne per quanto siano la metà e più della popolazione mondiale, a livello socioculturale sono considerate minoranza). Penso che dovrebbe esserci una riflessione di carattere universale, potente, una specie di Hegel della maternità, non so come dire.

      Elimina
  5. Bel post, un sacco di spunti! Se poi trovi l'Hegel della maternità, faccelo sapere.

    RispondiElimina
  6. Mia madre ti risponderebbe "per lasciare qualcosa di noi dopo di noi, perché i figli sono ciò che veramente resta", però è relativo e limitante, perché c'è gente che cambia il mondo anche senza fare figli.
    Io lo annovero tra gli istinti radicati nei bisogni fisiologici e biologici e, quando si razionalizza troppo, si decide, spesso, di non fare questo passo. Per me è il raziocinio che ci frega. Si può obiettare che non siamo animali, ma molte parti di noi restano animali.
    Mi sto incartando. Non so sciogliere un perché universale.

    RispondiElimina
  7. Mi trovi completamente d'accordo sulla fantascienza. Penso che sia l'unico genere letterario degno di lettura. È quello che apre la mente e rimette in discussione le nostre convinzioni più radicate.

    Sull'essere genitori: ti posso assicurare che esserlo non è affatto una passeggiata fra rose e fiori. È una fatica improba, piena di rischi, non ultimo quello di vedere il proprio figlio morire. Nessun essere vivente senziente, senza l'istinto di riprodursi, farebbe figli. (Sì, è solo l'istinto che ci fa fare i figli, secondo me.) Detto questo è vero che avere figli cambia la prospettiva con cui si guarda al mondo. Forse è questo che vuol dire l'odiosa frase: "tu non hai figli, non puoi capire." Semplicemente questo cambio di prospettiva non lo si vive. Non che questo voglia dire qualcosa di fantasmagorico: ci sono tante altre esperienze che chi non ha figli vive e chi li ha no. E per molti questo cambio di prospettiva non arriva ad intaccare il proprio intimo e si limita alla fatica dei pannolini e alle riunioni scolastiche.

    Belle le parole di Gibran, lette e riscoperte nel corso pre parto, lette dalla psicologa del corso. Ma, ancora, non affatto scontate e "naturali". Le contraddizioni ci sono in ogni genitore e le diverse esigenze spesso si sommano, non si elidono. Il desiderio di riscatto è sempre presente, come il desiderio di protezione quando è assolutamente fuori luogo. C'è il desiderio di avere sempre accanto i figli, come il desiderio di vederli indipendenti e autonomi.

    Però io sono un papà contento di avere una figlia. Molto contento. Tornassi indietro lo rifarei. :-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. fantascienza. Penso che sia l'unico genere letterario degno di lettura.

      Esagerato! :P

      Elimina
  8. Ciao Nathan, mi sono imbattuta in questo tuo post solo ora e volevo segnalarti un romanzo di fantascienza, o più che altro del genere distopico, di Maragaret Atwood che parla anche (ma non è il suo tema principale) di maternità: Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood. Forse lo conosci già, ma lo segnalo così per chiunque fosse interessato. La Atwood, per chi non la conoscesse è una narratrice canadese che si interroga molto sui falsi miti del femminile (e del femminismo), e lo fa anche attraverso il genere della fantascienza e della riscrittura di miti, fiabe e storie classiche. Insomma food for thought! Ps. complimenti per il blog, dai tupi post fai trasparire energia, idee, divertimento e anche ogni tanto una sana indignazione.

    RispondiElimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...